Cominciamo con un doppio Némirovsky,
con un sentimento alterno. Bello il primo, inutile il secondo.
Irène Némirovsky “Due” Adelphi s.p. (regalo
di A.)
[in: 24/06/2010 – out: 22/11/2010]
Un’altra
bella prova della Némirovsky (si dice il suo migliore dopo David Golder) ma
pieno (scusate il gioco di parole) di una mancanza di speranza che sicuramente
riflette gli anni cupi in cui viene scritto (1939) ma è anche una disperazione
fuori dal tempo. Irene, profuga dalla Russia negli anni 20, nata in Ucraina nel
1903, proprio intorno ai venti anni, come scrissi in altre trame, comincia a
scrivere, ritraendo in genere il mondo di profughi che lei ben conosce. Per una
ventina d’anni diventa una figura nota nel mondo artistico parigino, con buone
prove, mai troppo eccelse, comunque con dei tocchi stilistici che mi sono
sempre piaciuti. Qui si imbarca in una prova ben ardua, seguendo per un
decennio le vicende di alcuni giovani parigini (niente ex - russi qui) scampati
alla Grande Guerra. Voglia di vivere, feste, vino e belle donne. Ed anche le
belle donne hanno voglia di vivere. Comincia un po’ come un carosello alla
Schnitzler, dove seguiamo alcuni di questi giovani uomini e donne, senza
all’inizio fissare un centro. Che poi verrà, fermandosi su Antoine e Marianne.
Prima amanti, poi sposati, poi con prole, poi adulteri, poi, anche serenamente,
due. Così come dice il titolo. Sì, ci sono momenti di felicità, in cui una
coppia può sentirsi (si sente) unita e unisona. Ma poi ci si ritrova comunque
due. Ognuno c’è, ma ognuno, in un certo senso, è solo. Si fa un cammino comune,
poi ognuno cerca nei viottoli qualcosa che la strada sembra non dare. E poi?
Antoine e Marianne, poi, decidono di riprendere la strada, con affetto, anche
con un’amicizia che la gioventù non aveva dato. Certo non con amore. Che c’era,
fra loro. Che c’era fra loro ed altri. Poi… poi non c’era più, non è durato. O
forse le scelte da fare erano troppo ardue perché potesse durare ed essere
altro. Le convenienze, il mondo, il modo di stare al mondo (siamo comunque negli
anni Venti) non è che suggeriscono molto altro come soluzione. La bravura della
Némirovsky è poi anche in molte figure di contorno. La madre di Antoine e la
sua durezza. L’ingenuità della bella Solange. L’irruenza di Evelyne. La
solidità dei fratelli di Antoine, che all’inizio li allontana, per poi farli
ritrovare, una volta avviati alla quarantina, in sodalizi di sangue che ci
sono, anche se non sempre sono al meglio. Ma anche la metamorfosi di Antoine,
da giovane spensierato uscito dalla guerra, a piccolo imprenditore perché c’è
una famiglia da mantenere, alla sbandata quasi fatale, sino al ritorno sulla
grigia strada del quotidiano. Perché, poi, ci sono i figli che devono crescere.
E quella di Marianne, spensierata, bella, centro mondano nelle notti del Bois
de Boulogne, e poi madre consapevole, preoccupata, ingrigita, e poi rifiorita
in amori nuovi, fino al rendersi conto della vanità e degli anni che passano. È
lei che fa quelle disperate considerazioni sul due inteso come uno più uno e
non come coppia. È lei che decide, coscientemente, che questa è la vita meno
peggiore che si possa vivere. C’è tutta la metafora della Francia come nazione
dalla spensieratezza del dopoguerra alla consapevolezza della crisi economica,
dall’ubriacatura del Fronte Popolare al cupo avvicinarsi della Seconda Guerra.
Che senso di tristezza alla fine. L’ho finito a notte fonda, e non sono
riuscito a dormire per un bel pezzo. Cercavo un sorriso prima di chiudere gli
occhi. Cosa che consiglio di fare a chi si accinge a leggere il libro. Armarsi
di buon umore, capire che se la vita è triste bisogna sempre cercare di trovare
elementi positivi. Non è facile. Ma ognuno di noi è più forte di quello che
pensa, ne sono sicuro. E con questo vi lascio, pensando ad una bella cioccolata
calda, davanti ad un camino acceso.
“Quanta maturità ci vuole per scoprire
aspetti umani nei nostri genitori.” (123)
“Tra i venticinque e i quaranta anni ogni
uomo modella il proprio monumento.” (129)
“La felicità coniugale non somiglia alla
felicità più di quanto l’amore coniugale non somigli all’amore.” (191)
“Il giovane predilige la realtà; l’uomo
maturo, la subisce; e il vecchio, più saggio, la evita.” (213)
Irène Némirovsky “Ida” Folio 2,20
[in: 27/01/2011 – out: 07/03/2011]
[tit. originale; ling. or.: francese; anno 1934]
Due
raccontini estratti dalla raccolta (che non mi risulta ancora tradotta) “Film
parlés”, che mi sembra un bel titolo, molto adatto agli anni ’30 della
scrittura, anni in cui da poco i film non erano più muti. Detto anche
dell’ottima iniziativa dell’editore Folio di pubblicare libri agili (questo ha
poco più di 100 pagine), a prezzo veramente irrisorio, ma con la confezione
standard delle edizioni Folio, parliamo ora del contenuto che, invece, rispetto
ad altre prove, mi è piaciuto meno. Dicevamo due i racconti. Entrambi
incentrati su di una figura femminile. Al solito, colma di tutta la
disperazione che sapeva infondere la Némirovsky nelle sue pagine. Il primo,
Ida, è tutto luci e paillettes. Racconta in controluce le vicende di Ida Sconin,
signora del varietà parigino. Quello del Moulin Rouge e del Lido, quello delle
20 ragazze 20. Lì, padrona della scena ormai da dieci, quindici anni, Ida sta
salendo gli ultimi gradini di quel Viale del Tramonto così magistralmente
filmato negli anni cinquanta da Billy Wilder. Ma qui siamo negli anni Trenta,
e, ricordo dopo ricordo, mentre sale la stella della giovane Cynthia, Ida
ripensa a tutti i passi della sua vita, la giovinezza in Russia (specchio della
stessa Irène), il matrimonio, gli amanti, le morti, la fatica di rimanere
bella, anche se non giovane. E soprattutto, non accettarlo. Fare di tutto per
evitare l’inevitabile fine. Ci riuscirà o sarà travolta? Il secondo si intitola
“La comédie bourgeoise” ed è una specie di microcosmo che rispecchia, visto
dalla parte piccola del cannocchiale, il mondo rigido di cui da poco lessi
della Wharton. Qui siamo in provincia. La giovane Madeleine suona il piano,
viene fatta sposare ad un giovane che praticamente non conosce, che entra
nell’industria del padre, che la tradisce con tutte le donne possibili, con cui
fa due figli, che a loro volta si sposano e le danno nipoti, che si innamora
fugacemente di un parigino, e poi muoiono in tanti, anche il marito, e
l’anziana Madeleine si ritrova ancora a camminare per la strada di paese …
Lascio puntini di sospensione perché avrete capito. Una desolazione, una
tristezza infinita, senza speranza. Gli unici momenti di interesse sono sulla
scrittura, perché qui, proprio come in un film, sembra di leggere la
sceneggiatura. L’autrice ci conduce per mano, ci fa vedere le scene salienti,
ci descrive le dissolvenze, ci porta avanti nel tempo, ci fa vedere qualcosa
dietro le quinte, poi ci riporta sulla scena maestra. E quel camminare di cui
dicevo, sarebbe perfetto ripreso con tecniche moderne, con un bel piano
sequenza all’indietro, che si allontana dal centro della scena per poi
richiudersi lontano, sul nulla. Ecco, due storie disperate, due storie che
distruggono alla base tutte le possibili illusioni. Ma non hanno la forza di stroncare.
Non danno la stoccata definitiva. Alla fine, mi viene quasi da dire: tutto qui?
E non viene neanche la voglia di seguitare a fare rivivere i personaggi nella
memoria, come in altri romanzi mi succede. Quel chiedermi, e poi che farà lui?
Che farà lei? Che succederà alla principessa incantata quando dovrà lavare i
piatti? Qui non viene da chiederselo. Viene solo da cercare di trovare subito,
in libreria, un libro non dico comico, ma che tolga dall’animo un po’ di questa
tristezza bagnata. Sarà meglio un’altra volta, Irène.
Passiamo
ora all’austriaco di cui poco ho letto, che sicuramente scrive e riesce a
recepire umori e situazioni molto in profondità. Certo, l’allegria la
rimandiamo alle prossime trame.
Stefan Zweig “Storia di una caduta” Adelphi
euro 10
[in: 27/11/2010 – out: 09/03/2011]
[tit. or.: Geschichte eines Untergangs. War er es?; ling. or.: tedesco; anno
1910/2002]
Un piccolo Adelphi con due
racconti dell’austriaco non notissimo, che accosto subito con l’Iréne sia per
il tema del primo racconto (ed il rapporto tra le due cadute) sia per l’epoca
vissuta ed infine per la morte. Lei scomparsa ad Auschwitz, lui suicida lo
stesso anno nell’esilio brasiliano per la disperazione delle speranze ormai
cadute. Zweig è una figura ormai poco nota, ma che tra le due guerre fu uno
scrittore di spicco (e cominciò con il primo romanzo nel 1910 quando già stava
sulla trentina), poi dovuto scappare dall’Austria natia in quanto ebreo, e,
dopo aver scritto una mirabile biografia che tratteggiava con acume il percorso
dalla decadenza della Bella Epoque all’avvento della barbarie nazista,
rifugiatosi in Brasile si uccide insieme
alla moglie. Qui, un po’ casualmente, troviamo accostati due racconti. Uno ben
noto, dei suoi primi tempi (pubblicato sempre intorno al ’10), l’altro rimasto
inedito, e pubblicato solo pochi anni or sono. Ma questo secondo, intitolato in
originale “Era lì?” e tradotto con un banale “Legittimo sospetto”, è un
racconto finto borghese, che cerca di far l’occhietto anche al giallo (ma non è
un giallo), narrando di pacifici inglesi viventi in campagna, la cui vita è
sconvolta dall’arrivo di un cane. Sconvolta e lacerata, con un finale un po’
troppo noir. Ma forse è solo un pretesto, per far vedere in controluce dove
possa portare un entusiasmo senza intelletto. Un raccontino a tema, ma leggero,
molto leggero. Mi è piaciuto di più il forte racconto del titolo, quello che
riesce a tinteggiare con pagine sapienti, la caduta di una Marchesa della Corte
francese. Che per qualche motivo (probabilmente si è appropriata indebitamente
di qualche somma reale) viene esiliata in campagna. E lì, con lei ripercorriamo
le sue vicende, in flash-back di ricordi, forse di sensazioni. E lì, sì, esce
fuori con forza, il ritratto di un mondo vacuo, dedito all’esteriorità, ai riti
dell’esserci (e del tramare). Quando la Marchesa si trova sola in campagna si
perde e si sperde. Cerca di ritrovare ancillarmente qualche vecchio fasto, ma
non può che rotolare, gradino dopo gradino, verso un non ritorno inevitabile.
Ricordo il tema di “Ida”, da poco letto. Lì c’era una persona che non voleva
rassegnarsi allo scorrere del tempo, e questo, inevitabilmente, la porterà alla
disfatta. Qui c’è una persona che non si rassegna all’ostracismo, perché non lo
capisce. Non capisce che regole ha infranto. È tanto presa dal suo sistema
(così come lo era Ida) da non accorgersi di condotte eticamente giudicabili. Ma
qui, le pagine di Zweig, sono forti, sono macigni contro chi non accetta sé
stesso. Sembra che si voglia scagliare contro chi ha cacciato la bella
Marchesa. Ma alla fine è tutto il sistema che Zweig manda a monte: la Marchesa,
i fatui bellimbusti di corte, i contadinotti finto astuti. Niente e nessuno si
salva, in questa cupa dolenza. E se la Marchesa ha un gesto di sussulto che per
lei ha un forte significato di rivincita, cadrà anche’esso in un vuoto totale e
doloroso. Non vi dirò del gesto, né delle sue conseguenze (un minimo di
interesse per leggere le ultime di queste brevi 70 pagine). Ripeto, Zweig vede
tutto senza ottimismo e senza speranza. E non ci sorprendono le scelte che farà
trenta anni dopo.
Giorni di febbrile lavoro, che
come sapete il progetto europeo è alla fine, ma sto lavorando al viaggio
attraverso il Sudamerica. Ancora molto da lavorarci, sperando che gli amici
cileni trovino qualche scorciatoia tra le Ande e il Deserto. E forse qualche
altra idea, magari per aumentare ancora il tasso viaggiatore. Ma soprattutto,
un po’ di letture di relax, che la testa s’è impegnata un po’ troppo…
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