sabato 28 aprile 2012

Prima dell’ultima guerra - 29 maggio 2011

Purtroppo di una delle grandi, che le guerre continuano ad esserci, e neanche ce ne accorgiamo. Ma qui parliamo di romanzi e racconti scritti tra il 1910 ed il 1939 (anche se a volte pubblicati dopo). E di due autori che non vedranno la fine della guerra. Per scelte diverse e per situazioni diverse. Comunque due belle scritture, anche se l’allegria non è di queste righe. Speriamo in un migliore e radioso futuro.
Cominciamo con un doppio Némirovsky, con un sentimento alterno. Bello il primo, inutile il secondo.
Irène Némirovsky “Due” Adelphi s.p. (regalo di A.)
[in: 24/06/2010 – out: 22/11/2010]
Un’altra bella prova della Némirovsky (si dice il suo migliore dopo David Golder) ma pieno (scusate il gioco di parole) di una mancanza di speranza che sicuramente riflette gli anni cupi in cui viene scritto (1939) ma è anche una disperazione fuori dal tempo. Irene, profuga dalla Russia negli anni 20, nata in Ucraina nel 1903, proprio intorno ai venti anni, come scrissi in altre trame, comincia a scrivere, ritraendo in genere il mondo di profughi che lei ben conosce. Per una ventina d’anni diventa una figura nota nel mondo artistico parigino, con buone prove, mai troppo eccelse, comunque con dei tocchi stilistici che mi sono sempre piaciuti. Qui si imbarca in una prova ben ardua, seguendo per un decennio le vicende di alcuni giovani parigini (niente ex - russi qui) scampati alla Grande Guerra. Voglia di vivere, feste, vino e belle donne. Ed anche le belle donne hanno voglia di vivere. Comincia un po’ come un carosello alla Schnitzler, dove seguiamo alcuni di questi giovani uomini e donne, senza all’inizio fissare un centro. Che poi verrà, fermandosi su Antoine e Marianne. Prima amanti, poi sposati, poi con prole, poi adulteri, poi, anche serenamente, due. Così come dice il titolo. Sì, ci sono momenti di felicità, in cui una coppia può sentirsi (si sente) unita e unisona. Ma poi ci si ritrova comunque due. Ognuno c’è, ma ognuno, in un certo senso, è solo. Si fa un cammino comune, poi ognuno cerca nei viottoli qualcosa che la strada sembra non dare. E poi? Antoine e Marianne, poi, decidono di riprendere la strada, con affetto, anche con un’amicizia che la gioventù non aveva dato. Certo non con amore. Che c’era, fra loro. Che c’era fra loro ed altri. Poi… poi non c’era più, non è durato. O forse le scelte da fare erano troppo ardue perché potesse durare ed essere altro. Le convenienze, il mondo, il modo di stare al mondo (siamo comunque negli anni Venti) non è che suggeriscono molto altro come soluzione. La bravura della Némirovsky è poi anche in molte figure di contorno. La madre di Antoine e la sua durezza. L’ingenuità della bella Solange. L’irruenza di Evelyne. La solidità dei fratelli di Antoine, che all’inizio li allontana, per poi farli ritrovare, una volta avviati alla quarantina, in sodalizi di sangue che ci sono, anche se non sempre sono al meglio. Ma anche la metamorfosi di Antoine, da giovane spensierato uscito dalla guerra, a piccolo imprenditore perché c’è una famiglia da mantenere, alla sbandata quasi fatale, sino al ritorno sulla grigia strada del quotidiano. Perché, poi, ci sono i figli che devono crescere. E quella di Marianne, spensierata, bella, centro mondano nelle notti del Bois de Boulogne, e poi madre consapevole, preoccupata, ingrigita, e poi rifiorita in amori nuovi, fino al rendersi conto della vanità e degli anni che passano. È lei che fa quelle disperate considerazioni sul due inteso come uno più uno e non come coppia. È lei che decide, coscientemente, che questa è la vita meno peggiore che si possa vivere. C’è tutta la metafora della Francia come nazione dalla spensieratezza del dopoguerra alla consapevolezza della crisi economica, dall’ubriacatura del Fronte Popolare al cupo avvicinarsi della Seconda Guerra. Che senso di tristezza alla fine. L’ho finito a notte fonda, e non sono riuscito a dormire per un bel pezzo. Cercavo un sorriso prima di chiudere gli occhi. Cosa che consiglio di fare a chi si accinge a leggere il libro. Armarsi di buon umore, capire che se la vita è triste bisogna sempre cercare di trovare elementi positivi. Non è facile. Ma ognuno di noi è più forte di quello che pensa, ne sono sicuro. E con questo vi lascio, pensando ad una bella cioccolata calda, davanti ad un camino acceso.
“Quanta maturità ci vuole per scoprire aspetti umani nei nostri genitori.” (123)
“Tra i venticinque e i quaranta anni ogni uomo modella il proprio monumento.” (129)
“La felicità coniugale non somiglia alla felicità più di quanto l’amore coniugale non somigli all’amore.” (191)
“Il giovane predilige la realtà; l’uomo maturo, la subisce; e il vecchio, più saggio, la evita.” (213)
Irène Némirovsky “Ida” Folio 2,20
[in: 27/01/2011 – out: 07/03/2011]
[tit. originale; ling. or.: francese; anno 1934]
Due raccontini estratti dalla raccolta (che non mi risulta ancora tradotta) “Film parlés”, che mi sembra un bel titolo, molto adatto agli anni ’30 della scrittura, anni in cui da poco i film non erano più muti. Detto anche dell’ottima iniziativa dell’editore Folio di pubblicare libri agili (questo ha poco più di 100 pagine), a prezzo veramente irrisorio, ma con la confezione standard delle edizioni Folio, parliamo ora del contenuto che, invece, rispetto ad altre prove, mi è piaciuto meno. Dicevamo due i racconti. Entrambi incentrati su di una figura femminile. Al solito, colma di tutta la disperazione che sapeva infondere la Némirovsky nelle sue pagine. Il primo, Ida, è tutto luci e paillettes. Racconta in controluce le vicende di Ida Sconin, signora del varietà parigino. Quello del Moulin Rouge e del Lido, quello delle 20 ragazze 20. Lì, padrona della scena ormai da dieci, quindici anni, Ida sta salendo gli ultimi gradini di quel Viale del Tramonto così magistralmente filmato negli anni cinquanta da Billy Wilder. Ma qui siamo negli anni Trenta, e, ricordo dopo ricordo, mentre sale la stella della giovane Cynthia, Ida ripensa a tutti i passi della sua vita, la giovinezza in Russia (specchio della stessa Irène), il matrimonio, gli amanti, le morti, la fatica di rimanere bella, anche se non giovane. E soprattutto, non accettarlo. Fare di tutto per evitare l’inevitabile fine. Ci riuscirà o sarà travolta? Il secondo si intitola “La comédie bourgeoise” ed è una specie di microcosmo che rispecchia, visto dalla parte piccola del cannocchiale, il mondo rigido di cui da poco lessi della Wharton. Qui siamo in provincia. La giovane Madeleine suona il piano, viene fatta sposare ad un giovane che praticamente non conosce, che entra nell’industria del padre, che la tradisce con tutte le donne possibili, con cui fa due figli, che a loro volta si sposano e le danno nipoti, che si innamora fugacemente di un parigino, e poi muoiono in tanti, anche il marito, e l’anziana Madeleine si ritrova ancora a camminare per la strada di paese … Lascio puntini di sospensione perché avrete capito. Una desolazione, una tristezza infinita, senza speranza. Gli unici momenti di interesse sono sulla scrittura, perché qui, proprio come in un film, sembra di leggere la sceneggiatura. L’autrice ci conduce per mano, ci fa vedere le scene salienti, ci descrive le dissolvenze, ci porta avanti nel tempo, ci fa vedere qualcosa dietro le quinte, poi ci riporta sulla scena maestra. E quel camminare di cui dicevo, sarebbe perfetto ripreso con tecniche moderne, con un bel piano sequenza all’indietro, che si allontana dal centro della scena per poi richiudersi lontano, sul nulla. Ecco, due storie disperate, due storie che distruggono alla base tutte le possibili illusioni. Ma non hanno la forza di stroncare. Non danno la stoccata definitiva. Alla fine, mi viene quasi da dire: tutto qui? E non viene neanche la voglia di seguitare a fare rivivere i personaggi nella memoria, come in altri romanzi mi succede. Quel chiedermi, e poi che farà lui? Che farà lei? Che succederà alla principessa incantata quando dovrà lavare i piatti? Qui non viene da chiederselo. Viene solo da cercare di trovare subito, in libreria, un libro non dico comico, ma che tolga dall’animo un po’ di questa tristezza bagnata. Sarà meglio un’altra volta, Irène.
Passiamo ora all’austriaco di cui poco ho letto, che sicuramente scrive e riesce a recepire umori e situazioni molto in profondità. Certo, l’allegria la rimandiamo alle prossime trame.
Stefan Zweig “Storia di una caduta” Adelphi euro 10
[in: 27/11/2010 – out: 09/03/2011]
[tit. or.: Geschichte eines Untergangs. War er es?; ling. or.: tedesco; anno 1910/2002]
Un piccolo Adelphi con due racconti dell’austriaco non notissimo, che accosto subito con l’Iréne sia per il tema del primo racconto (ed il rapporto tra le due cadute) sia per l’epoca vissuta ed infine per la morte. Lei scomparsa ad Auschwitz, lui suicida lo stesso anno nell’esilio brasiliano per la disperazione delle speranze ormai cadute. Zweig è una figura ormai poco nota, ma che tra le due guerre fu uno scrittore di spicco (e cominciò con il primo romanzo nel 1910 quando già stava sulla trentina), poi dovuto scappare dall’Austria natia in quanto ebreo, e, dopo aver scritto una mirabile biografia che tratteggiava con acume il percorso dalla decadenza della Bella Epoque all’avvento della barbarie nazista, rifugiatosi in Brasile si  uccide insieme alla moglie. Qui, un po’ casualmente, troviamo accostati due racconti. Uno ben noto, dei suoi primi tempi (pubblicato sempre intorno al ’10), l’altro rimasto inedito, e pubblicato solo pochi anni or sono. Ma questo secondo, intitolato in originale “Era lì?” e tradotto con un banale “Legittimo sospetto”, è un racconto finto borghese, che cerca di far l’occhietto anche al giallo (ma non è un giallo), narrando di pacifici inglesi viventi in campagna, la cui vita è sconvolta dall’arrivo di un cane. Sconvolta e lacerata, con un finale un po’ troppo noir. Ma forse è solo un pretesto, per far vedere in controluce dove possa portare un entusiasmo senza intelletto. Un raccontino a tema, ma leggero, molto leggero. Mi è piaciuto di più il forte racconto del titolo, quello che riesce a tinteggiare con pagine sapienti, la caduta di una Marchesa della Corte francese. Che per qualche motivo (probabilmente si è appropriata indebitamente di qualche somma reale) viene esiliata in campagna. E lì, con lei ripercorriamo le sue vicende, in flash-back di ricordi, forse di sensazioni. E lì, sì, esce fuori con forza, il ritratto di un mondo vacuo, dedito all’esteriorità, ai riti dell’esserci (e del tramare). Quando la Marchesa si trova sola in campagna si perde e si sperde. Cerca di ritrovare ancillarmente qualche vecchio fasto, ma non può che rotolare, gradino dopo gradino, verso un non ritorno inevitabile. Ricordo il tema di “Ida”, da poco letto. Lì c’era una persona che non voleva rassegnarsi allo scorrere del tempo, e questo, inevitabilmente, la porterà alla disfatta. Qui c’è una persona che non si rassegna all’ostracismo, perché non lo capisce. Non capisce che regole ha infranto. È tanto presa dal suo sistema (così come lo era Ida) da non accorgersi di condotte eticamente giudicabili. Ma qui, le pagine di Zweig, sono forti, sono macigni contro chi non accetta sé stesso. Sembra che si voglia scagliare contro chi ha cacciato la bella Marchesa. Ma alla fine è tutto il sistema che Zweig manda a monte: la Marchesa, i fatui bellimbusti di corte, i contadinotti finto astuti. Niente e nessuno si salva, in questa cupa dolenza. E se la Marchesa ha un gesto di sussulto che per lei ha un forte significato di rivincita, cadrà anche’esso in un vuoto totale e doloroso. Non vi dirò del gesto, né delle sue conseguenze (un minimo di interesse per leggere le ultime di queste brevi 70 pagine). Ripeto, Zweig vede tutto senza ottimismo e senza speranza. E non ci sorprendono le scelte che farà trenta anni dopo.
Giorni di febbrile lavoro, che come sapete il progetto europeo è alla fine, ma sto lavorando al viaggio attraverso il Sudamerica. Ancora molto da lavorarci, sperando che gli amici cileni trovino qualche scorciatoia tra le Ande e il Deserto. E forse qualche altra idea, magari per aumentare ancora il tasso viaggiatore. Ma soprattutto, un po’ di letture di relax, che la testa s’è impegnata un po’ troppo…

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