lunedì 23 aprile 2012

Ancora sul giallo sociale - 17 aprile 2011

Essendo già con un piede sull’aereo, butto giù al volo queste righe che per due settimane non ci si sente. Visto che si parte per un viaggio che si preannuncia rilassante (sarà vero?) qualche giallo ci sta bene, soprattutto se, bene o male, c’è qualche risvolto. Forte negli ormai quasi esauriti svedesi, fortissimo nella storica francese (di professione non di lettura), di passaggio e molto più “critica dello status quo”, nell’americana che ingleseggia.
Cominciamo quindi con i coniugi svedesi, di cui ci manca ormai solo l’ultimo libro.
Maj Sjowall & Per Wahloo “La camera chiusa” Sellerio euro 14 (regalato a Mamma)
[in: 10/10/2010 – out: 06/01/2011]
[tit. or.: Det slutna rummet; ling. or.: svedese; anno 1972]
Regalato a Mamma per il suo compleanno ed acquistato un bel giorno “matematico”. Nel disordinato mondo selleriano, continuano ad uscire le inchieste dell’amato commissario Beck in ordine sparso. Ora questa, cronologicamente, è l’ottava inchiesta, quella che inaugura la trilogia finale dei nostri svedesi, che (in modo speculare) rispetto alle prime tre inchieste che erano tutte sul filone giallo, qui siamo sul filone “critica della socialdemocrazia impazzita”. Certo, l’elemento giallo è presente, ma “annacquanito” in pagine e pagine di critica sociale e di evidenziazione dei guasti dell’ordine nordico, nonché del compiacimento verso quegli atteggiamenti diremmo borderline che, seppur non rivoluzionari, tendono a (tentano di) minare la quiete della penisola scandinava. Da un lato c’è il ritorno di Beck al lavoro dopo 15 mesi di convalescenza rispetto alla pallottola che aveva preso nel settimo (ma noi sapevamo già che era tornato e cosa avrebbe fatto con Rhea, visto che il nono romanzo l’ho letto esattamente 3 anni fa, nel dicembre 2007!). Prende in mano un’inchiesta sbilenca, di un omicidio in una stanza ermeticamente chiusa, e con la tenacia e la perseveranza e l’intelligenza di chi sa guardare al di là delle apparenze (holemesianamente diremo), e tassello dopo tassello, riesce a ricostruire la personalità della vittima, per risalire, faticosamente, ma con successo all’identità dell’assassasino. In parallelo, si svolge tutto il mondo di attività della sezione speciale della polizia svedese, che tenta di arginare la violenza (senza riuscirvi) e di trovare e/o prevenire l’ondata di rapine alle banche, che stravolge questa estate del ’72. Qui i due autori si sbizzarriscono, infierendo sempre più sui personaggi-poliziotti, enfatizzando le macchiette di tutti, e sottolineando (con cattiveria, anche se con realismo) le idiozie dei mono-maniaci detentori del potere. Da questo lato, nulla andrà risolto, e tutto si svolgerà a favore sia dei delinquenti incalliti, sia degli emarginati svedesotti ridotti a vivere della sussistenza statale (ed a mangiare cibo per cani, che è il più economico). Alla fine, una certa giustizia verrà fuori, al culmine delle più che 400 pagine del libro. Ma sarà una giustizia stramba. E certo non favorirà l’unica persona corretta in questo mondo corrotto: il nostro commissario, appunto. Che tuttavia, già comincia a pensare (rispetto alle rodomontate delle prime puntate) che forse se qualcosa si può salvare, lo si può salvare solo nel piccolo, e nel personale. Il resto, il grande politico, non sarà intaccato da tutte le nostre rette intenzioni. Lasciando intravedere in controluce la critica marxista molto in voga in quegli anni (è più criminale fondare una banca che rapinarla). Ma questa parte, come tutta la parte “sociale” è molto datata, anche un po’ scontata. Certo un bel documento d’epoca. Ma più si apprezza Martin quando mette su un bel disco, beve un bel bicchiere di rosso, e si mette in cucina con Rhea a bere del tè. Anche qui, con molta tristezza, che si spera in un mondo migliore. Come diceva qualcuno (un po’ alla comunità di Barbiana) incominciamo da uno. Da noi, senz’altro. Da chi c’è vicino. Ed almeno speriamo che queste piccole paglie, possano produrre qualche valanga possibile. Se non sarà così, almeno si cercherà di stare un pochino meglio. E quando io sto meglio, riesco a capire cosa posso fare per far star meglio l’altro (direbbe padre Bianchi).
“Non aveva mai avuto difficoltà ad isolarsi, e adesso sembrava definitivamente sulla strada buona per diventare un solitario, senza alcun rimpianto per le amicizie e senza una reale volontà di uscire dal vuoto che lo circondava” (212)
“-Chi era? – Un certo dottor Berglund…” (318)
“Forse, nonostante tutto, quello che succedeva nella sua vita non era completamente privo di senso” (335)
Passiamo all’americana, che non è un caso sia un forte toro (2 maggio).
Martha Grimes “La morte ha i capelli lunghi” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2005 – out: 16/01/2011]
[tit. or.: I am the only Running Footman; ling. or.: inglese; anno 1986]
Come credo di aver scritto per questo inizio di anno, oltre alle solite letture dei “miei” libri, sto recuperando parte della biblioteca che ho presso mia madre, che aveva comprato negli ultimi anni prima della morte di mio padre, libri delle collane di Repubblica. Questo appartiene al filone “Le strade del giallo”. La Grimes è un’interessante scrittrice americana, che devo dire non conoscevo prima di questo libro. La inserisco tra i “serial crime”, perché ha scritto una ventina di titolo con protagonista l’ispettore Richard Jury, vincendo anche qualche bel premio. Le caratteristiche della Grimes sono l’utilizzo di un giallo che viene definito “cozy” (tradurremmo con “intimo”?), dove ad una base di giallo si unisce un fondo ironico – umoristico, un po’ alla Agatha Christie. La Grimes, tra l’altro, pur essendo americano ambienta i suoi romanzi in Inghilterra. Il lato cozy, per esempio, viene fuori dall’alter ego dell’ispettore Jury, il suo amico Melrose Plant, un aristocratico inglese che ha deciso di rinunciare ai suoi titoli nobiliari. Detto ciò per introduzione, il primo elemento negativo di questa (e di altre che ho visto in giro su Internet) traduzioni della Grimes viene proprio dal titolo. Ogni romanzo, infatti, fa perno intorno ad un pub inglese che, per qualche motivo, si collega al crimine. Qui il pub ha il lungo nome di “I am the only Running Footman” (tipo “Sono l’originale Domestico che corre”) e da noi viene presentato come la morte con i capelli lunghi. Ora, è pur vero che le vittime hanno i capelli lunghi (e biondi e sono donne), ma il dato è che il delitto centrale viene perpetrato vicino al pub del titolo. Il secondo elemento che mi ha non poco disturbato, è il continuo passaggio (non so se già nell’originale) tra nomi e nomignoli e/o soprannomi e/o cognomi. Ora, se ci si concentra si può tenere il filo di Lucinde che diventano Lucy, Suzanne che diventano Suzy, ma Edward che diventano Ned, o Macalvie, che ad un certo punto scopro si chiama Brian, ma lo ricollego al precedente quando si presenta come Brian Macalvie? Ma qualche punto positivo invece la storia, anzi il romanzo lo ha. Per quell’aria appunto cozy, sia nei rapporti di Jury con le donne (l’ineffabile Carole, ad esempio) sia per la battaglia di Plant nella locanda del Mortal Man, alle prese con la disastrosa famiglia Warboys. Comunque, abbiamo due donne assassinate (forse si poteva intitolare “Le morte hanno i capelli lunghi”?) che solo la tenacia di Jury e la perspicacia di Plant riescono a collegare, per dar modo di debellare, almeno nelle intenzioni della pagina, un possibile serial killer. La parte centrale è, infatti, la più godibile e leggibile. Sottolineo nell’intenzione perché verso il finale si fa tutto affrettato e si arriva all’ultima pagina con qualche dubbio (almeno di coerenza). Insomma, non so se sia tutta colpa della Grimes o ci abbia messo del suo anche il traduttore Igor Longo. Mi farebbe piacere trovare qualche altro romanzo dell’ispettore Jury (ma non sono diffusi in Italia, se non in esaurite collane Mondadori). Peccato.
“Le fioche lucine ricordarono a Jury quando, da piccolo, leggeva sotto le coperte con l’aiuto di una torcia.” (124)
Finiamo con la francese mitterandiana.
Dominique Manotti “Il sentiero della speranza” Il Saggiatore euro 9 (in realtà, scontato 7,20 euro)
[in: 10/09/2010 – out: 23/01/2011]
[tit. orig. Sombre Sentier; lingua francese; anno 1995]
Un bell’esempio di quello che se fosse in tv, chiameremo docu-fiction. Dominique, storica come Luciano, e coeva del mio amico Carlo, comincia a scrivere romanzi in tarda età, già oltre i cinquanta. Ma in essi trasfonde tutte le sue passioni: di storica, di marxista, di militante civile. E le disillusioni del tramonto dell’epoca di Mitterand verso un futuro di “Chirac memoire”. Questo è il primo libro della trilogia dell’ispettore Daquin, ed è complesso e meritevole. Complesso perché non è solo un’inchiesta poliziesca (si comincia anche qui da un giallo), ma è tutto un mondo di vita della comunità turca, quasi tutta clandestina, nella Parigi del 1980. È un modo anche di raccontare un quartiere, quello del titolo francese, dove Sentier è maiuscolo e non è un sentiero qualunque, ma la zona che gravita intorno all’omonima fermata della Metropolitana, tra il II° e il X° Arrondissement (peccato che questo ed altri giochi di parola si perdano, ma ci si può stare, la traduzione di Francesco Bruno mi sembra efficace). Il quartiere è pieno di fabrichette clandestini, che lavorano il cuoio e che occupano immigrati turchi non regolari. Ma è anche vicino alla Rue St. Denis, una delle vie più … viziose della capitale. Tutto nasce dalla morte di una bambina tailandese duranti strani giochi erotici. E tutto si intreccia con la lotta dei sindacati per la regolarizzazione dei clandestini che lavorano (lotta dove la Manotti ebbe un suo ruolo), e con la corruzione che soffoca il quartiere. Non solo per la parte erotico – escort, ma per la droga che circola. E per la corruzione stessa, anche di parte della polizia. Il tutto poi trafitto dal filo nero della presenza ingombrante dei Lupi Grigi turchi e dei tentativi di un certo Ali Agça di organizzare un attentato durante la visita del papa nel maggio dell’80 (e auguri a Sara). Anche il personaggio motore delle storie, l’ispettore Daquin, non è proprio uno stinco di santo, ma i suoi vizietti sono privati e non oltrepassano mai questa sfera. Un po’ gay, un po’ etero, ma soprattutto innamorato del bel Soleiman, capo riconosciuto del sindacato turco per la regolarizzazione. Ed è Daquin che, pietra dopo pietra, riesce a srotolare quasi tutte le matasse che si intrecciano. Con un accenno alle vie dell’eroina che si dipartivano in quegli anni dall’Iran appena Khomeinizzato all’Afghanistan giustappunto occupato dai Russi. Mi è anche piaciuto il modo che ha Dominique di intrecciare la finzione con la storia attraverso non solo l’immersione della storia nel reale, ma anche con citazioni di giornali ed altri documenti d’epoca originali (per questo parlavo all’inizio di docu-fiction). Insomma, Daquin ha tutta l’aria di poter essere seguito nelle altre sue due avventure in cui la Manotti lo fa recitare da protagonista. C’è solo un appunto che mi lascia apprensione. Nel suo blog, l’autrice sottolinea la presenza di un certo ottimismo (che a me pare veramente scarso, se non nella vittoria dei clandestini che si comincia a regolarizzare, anche se tutta la comunità sarà ben presto più presa dal colpo di stato militare turco), quasi a farci vedere che nelle altre vicende di Daquin ci sia solo del nero, piuttosto che del noir. Ma essendo io ottimista di fondo, penso che, anche sofferenze e guai, non possono che portare ad un miglioramento del nostro essere presente. E allora, via con la prossima…
Allora, auguri a tutti di Buona Pasqua, ed a risentirci a Maggio.

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