Niente India, niente Brasile. Ed
ora, tertium non datur, ancora sub-continente indiano. Intanto auguri a chi
parte per la Giordania. E visto che si parla ancora di viaggi, rimaniamo
all’estero. In quel di Parigi per lo più, con un pensiero alla cara Luana
sperando che, prima o poi, si organizzi una visita. Autori francesi, si è
detto. Infatti, si ritorna con Manchette, l’inventore del nuovo giallo francese,
sempre violento, ma con un occhio al sociale (che tanta parte riavrà nei gialli
scandinavi). Da confrontare con l’ultimo, l’inventore del Rififi, di quello che
era prima il giallo francese, duri, spari, e poca ironia. Ironia che invece non
può mancare nel ritorno alla Vargas, di cui ho aspettato a lungo l’economica
prima di parlarne.
Jean-Patrick Manchette « Ô dingos, ô châteaux ! » Folio
euro 6,30
[in : 17/03/2010 – out :
03/10/2010]
Un
altro dei « classici » di Manchette, anche se non ha la forza del precedente
e del seguente (che conosco anche se non ho ancora letto) che sono più
direttamente politici. Qui c’è un po’ di tutto, ma più che altro torna quel
disagio del primo (quel fulminante “Lasciate che i cadaveri si abbronzino”) di
essere, di stare in un mondo complicato, e di non capirne le regole. Il filo
conduttore è la caccia ad una bambinaia ed al ragazzotto (che lei deve accudire
e che è figlio di un miliardario) da parte di un assassino psicopatico e dei
suoi complici. E qui ci sono tanti elementi contestuali che si scatenano.
Perché il miliardario è divenuto tale in seguito alla morte del fratello, lui
essendo uno scalcinato architetto, che cercava di farsi progettare la
costruzione di un castello (o del titolo?). Castello che costruirà il suo socio,
quando lui (ricco) lo caccia in malo modo. Divenendo tutore del nipote, vero
ereditiere alla maggiore età. Ed in tanto il miliardario (rosso di capelli)
riempie la sua casa di diversamente abili per la gestione della sua vita
quotidiana. Cuoche sciancate, autisti ubriaconi, maggiordomi caratteriali. La
chicca è scegliere poi Julie, la bambinaia, in un manicomio criminale. Certo la
ragazza è guarita, ma un po’ pazza (o del titolo!) rimane. Irrompe sulla scena
poi quest’assassino psicopatico, che da un lato gode nell’uccidere, dall’altro
se non uccide viene preso da gastriti fulminanti, che lo fanno rinchiudere ore
nel primo bagno a disposizione. Ed in una delle scene dei sotto finali, quando
spara e vomita Manchette supera sé stesso. Ed un’altra scena fantasticamente
realizzata è tutto l’inseguimento di Julie e Peter all’interno di un grande
magazzino, con spari, grida, fuoco, reparti distrutti, morti innocenti e non,
che da modo all’autore di intramezzare una grande scena da hard-boiled
americano con la critica (a lui cara) della società dei consumi e delle sue
degenerazioni (certo negli anni ’70 ancora all’inizio, ma già promettenti). E
come tutti i Manchette che conosco, poco spazio a soluzioni di comodo ed altri
“happy end” troppo facili. Se c’è un buon finale, ed i cattivi (ma quali sono
realmente) avranno fio per le loro colpe, ci si butta dentro, anche a costo di
lasciare scontenti i buonisti. Ma la vita non sempre è buona, basta leggere le
cronache nere attuali. Un punto di merito al titolo, che recita “O pazzi! O
castelli!”, evocando atmosfere dello scritto. Un punto di demerito alla lontana
traduzione italiana che, non sapendo come risolvere il problema, lo ribattezza
“Pazza da uccidere”. Al solito non ci siamo (vero Eco, e i
traduttori/traditori?). Nel 1973 comunque ottiene il “ Grand prix de
littérature policière“, un premio che in Francia incorona dal ’48 ad oggi il
miglior poliziesco dell’anno (francese e straniero). Un premio che cominciò con
Léo Malet e che ricevette anche un ottimo Scerbanenco. Detto tutto ciò (e forse
troppo) ritengo che non sia all’altezza di altre prove dell’autore, e, in fondo
in fondo, mi ha un po’ non dico deluso, ma lasciato perplesso. Comunque, anche
qui, quando c’è l’amore, si sobbarcano tante peripezie (ed a volte anche quando
c’è soltanto un volersi bene profondo). Ah, un bel bicchiere di vino rosso!
Fred Vargas « Un lieu incertain »
J’ai lu euro 7,60
[in : 21/10/2010 – out :
12/11/2010]
Andamento
misto. Bell’inizio, centro in discesa, bel finale. Ma poi c’è Adamsberg, e
tutto va bene. Da più di un anno aspettavo l’uscita dell’ultimo romanzo della
Vargas in economica francese, e finalmente, nell’ultimo viaggio belga, eccolo
là. Preso e fortunatamente uscito quasi subito sulla ruota di lettura. Ed
altrettanto in fretta, abbastanza divorato. Dico abbastanza perché, come da
inizio accennato, la parte centrale l’ho trovata un po’ faticosa, quasi che si
avesse (e c’era) una bella trovata iniziale e si sapesse come si deve
comportare il finale, ma è l’unione dei due che lascia un po’ perplessi.
Intanto, sottolineiamo che, rispetto alla solita scrittura, c’è un po’ più di
sangue del normale, quasi che i nostri poliziotti della Brigade decidano di
immergersi nel nero quotidiana. A proposito, qui son le parti migliori, dove, romanzo
via romanzo, i vari eponimi poliziotteschi escano fuori. Ormai conosciamo e
vogliamo bene al buon Danglard (soprattutto alla sua onniscienza). Ed abbiamo
imparato a rispettare la Retancourt. Qui escono un po’ meglio la Froissy e la
sua bulimia e Estalère con la sua innocenza (come direbbe Adamsberg) o
stupidità (come sottolinea Danglard). E quando la Vargas è in vena, ci regala
nuovi passaggi della mente d’Adamsberg, che salta di qua e di là, che non
ritiene nomi (a volte) o ne ritiene troppi, e questi passaggi mi regalano i
momenti migliori del godimento di scrittura (uno per tutti, quando Danglard
comincia ad avere un debole per la signorina del convegno, quella che fa i
sunti degli interventi, e che sul cartellino porta quindi, in inglese che siamo
a Londra, il termine Abstract, e Adamsberg per tutto il romanzo ci delizierà
con il gioco di parole sull’amore astratto di Danglard, abstraite in francese
con facile assonanza). La storia poi comincia forte con una ventina di piedi
mozzati che si trovano al cimitero di Highgate, un morto ridotto in 427 pezzi a
Parigi, e la ricerca delle connessioni tra i due fatti, ed una morte in
Austria, e la sensazione che Adamsberg c’entri più di quanto sembri (o che ce
lo si voglia far entrare, quasi ad incastrarlo). Poi ci si perde in Serbia per
troppe pagine, che son funzionali alla storia nel complesso, e ci fanno
conoscere fino in fondo quel luogo incerto del titolo (infondo un titolo deve
avere una ragione). Questa è la parte che mi ha trascinato un po’ (ma si sa che
gli slavi in genere mi lasciano freddo) per poi riprendere quota e vigore
tornati a Parigi e finalmente sciolti tutti i misteri. Si trova l’assassino, si
mette in grado di non nuocere chi vuole del male ad Adamsberg, e Danglard si
prende una settimana di astrazione. La beltà della scrittura della mia amata
archeologa francese è anche quella di innescare altri racconti e molte
tematiche all’interno del flusso principale. Qui si ritorna più volte sul
rapporto padri – figli, presenza – educazione, tra la progenie del brigadiere
Mordant e quella in aumento di Adamsberg (questa forse è un po’ una pecca, il
fatto che ad ogni nuovo romanzo sembra uscir fuori un nuovo figlio del
commissario, che pare ne sparga a piene mani per tutta la Francia e magari
anche fuori…). Il rapporto potere – corruzione, dove seguiamo l’inchiesta
parallela dell’ex-commissario Weill. Certo, un po’ “a forza” ritroviamo anche
Veyrenc di cui ci mancavano le poesie. Ma va bene anche così. Certo dispiace la
lontananza di Tom e di Camille, nonché l’assenza dei “tre evangelisti” che a me
piacciono sempre. Ma come dicevo altrove, mi piace questo piccolo mondo che si
va costruendo e fortificando sulle rive della Senna. Così si può andare tutti
insieme a bere un buon bordeaux profumato alla “Cloche des Halles”.
“Toute
chose très belle ou très laide abandonne un fragment d’elle dans le yeux de
ceux qui la regardent. … - et qu’est-ce
qu’in en fait après ? – On les range … dans un grand carton qui s’appelle
la mémoire. – Et on ne peut pas les jeter ? – Non, c’est impossible. La
mémoire n’a pas de poubelle » [Ogni cosa molto bella o molto brutta lascia
un frammento di sè negli occhi di chi la guarda. … - E dopo, che se ne fa? – La
si riordina … in una grande scatola chiamata memoria. – E la possiamo gettar
via? – No, è impossibile. La memoria non è spazzatura] (46)
Auguste Le Breton “Rififi” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2004 – out: 30/01/2011]
[tit. Orig. Du Rififi chez les hommes; ling. or.: francese; anno
1953]
Ha
la mia età, e sembra un giovincello. No, non Auguste Montfort detto Le Breton
(che purtroppo è morto 10 anni fa), ma il libro, questo Rififi, che introdusse
il gergo della mala nella letteratura (e viceversa). Un termine, appunto,
intraducibile, che sta ad indicare tutta una serie di situazioni pericolose:
rissa, zizzania, ma anche seminare il panico, scatenare una lotta senza
esclusione di colpi. E già solo per questo il bretone Auguste meriterebbe un
posto nell’Olimpo dei benemeriti. Orfano, scapestrato, fuggiasco, ma (come i
suoi personaggi) uomo d’onore. E quando a 34 anni gli nasce una figlia, memore
di un giuramento di gioventù, decide di scrivere le sue memorie per passarle
alla sua erede. Dalle memorie all’idea di descrivere il mondo con cui ha vissuto
e convissuto per anni il passo è breve. Butta così giù di botto il suo primo
romanzo, dove introduce il termine Rififi, ed al quale, data la fortuna,
seguiranno un'altra dozzina di Rififi, in giro per il mondo. La fortuna di
questo spaccato della mala, è poi dovuta al film che poco dopo ne trae il
profugo americano Jules Dassin, fuggito in Francia per sfuggire al maccartismo
imperante negli anni cinquanta. Francia dove incontra Melina Mercouri, che
sposerà dieci anni dopo. E Dassin accentuerà anche i toni neri dello scritto di
Le Breton, ma anche esaltando il cameratismo e l’onore. Purtroppo, facendo
anche qualche “censura” sull’origine dei cattivi. Ma questo primo Rififi rimane
una pietra miliare. Infatti, leggendolo, pur non ricordando che il ruolo di
Tony aveva la faccia belga di Jean Servais, già mi vedevo intorno a Pigalle,
con Jean Gabin e Lino Ventura, guardar cantare nelle bettole una Magali Noël di
felliniana memoria. E qui ci sono le altre pietre miliari: la mala che fa
sodalizio nella vecchia guardia. C’è Tony il Lionese (anche se nell’originale
era “le Stéphanois”) ed il suo grande amico Jo lo Svedese (che si assonava
nell’originale come “le Suédois”). I due fanno un gran colpo in una
gioielleria, aiutati da due oriundi Mario l'Italiano e Cesare il Milanese (che
nel film sarà interpretato dallo stesso regista). Sembra andare tutto bene, ma
Cesare ha la malaugurata idea di incapricciarsi di Viviane, la donna del franco
algerino Pierre Sora. Allora Pierre intuisce l’affare, e con i suoi due fratelli,
Ahmed e Alì, comincia a cercare di fregare il bottino a Tony e Jo. Comincia
così la mattanza. Con i soliti momenti epici alla francese (come quando, dato
il tradimento di Cesare, Tony lo apostrofa: “Tu mi piaci, Maccaroni, ma consoci
le regole”). Con gli inseguimenti. E con lo sgarro che fanno gli algerini
decidendo di rapire il figlio di Jo. Questo non si fa. Non si immischiano
(siamo nel 1953) i ragazzi nelle cose da adulti. E tutta la mala si metterà
all’opera per aiutare Tony nella difficile (praticamente impossibile) opera di
recupero del bottino e del fanciullo. E mentre tutto va verso l’aspettato fine,
intorno muoiono anche un po’ delle signorine che si aggirano per Rue St. Denis.
Ma nonostante tutto, ed anche considerata l’età, continua a scorrere come un
fiume in piena. E mi ha travolto la sua cruda efficacia. Confessione finale:
anni fa lo avevo acquistato in lingua, ma, nonostante non sia proprio l’ultimo
arrivato, l’uso spinto dell’argot da parte di Le Breton mi aveva sempre
bloccato. Non ero mai riuscito a terminarlo, impantanandomi in pagine di cui
riuscivo a decifrare una frase su quindici. Chissà se adesso, conoscendolo
meglio, lo riprenderò. Come direbbe il nostro caro Lucio, lo scopriremo solo
vivendo.
Allora, pare che ci sia
qualche numero in più nelle prenotazioni srilanko-maldiviane, e questo è un
bene. Certo si dovrà aspettare quasi un mese per partire, ma vediamo di
farcela. Vediamo soprattutto di riuscire a navigare in queste procellose acque,
che (anche senza tsunami giapponese) sono piene di insidie ad ogni volger di
passo. Come quando, nel mare in tempesta, si vede la riva dall’alto dell’onda e
sembra che ce l’abbiamo fatta. Ma poi si scivola a mezzo, e la costa si
allontana. Un abbraccio a Ferdinando
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