mercoledì 18 aprile 2012

Parigi e un po’ di Francia - 13 marzo 2011

Niente India, niente Brasile. Ed ora, tertium non datur, ancora sub-continente indiano. Intanto auguri a chi parte per la Giordania. E visto che si parla ancora di viaggi, rimaniamo all’estero. In quel di Parigi per lo più, con un pensiero alla cara Luana sperando che, prima o poi, si organizzi una visita. Autori francesi, si è detto. Infatti, si ritorna con Manchette, l’inventore del nuovo giallo francese, sempre violento, ma con un occhio al sociale (che tanta parte riavrà nei gialli scandinavi). Da confrontare con l’ultimo, l’inventore del Rififi, di quello che era prima il giallo francese, duri, spari, e poca ironia. Ironia che invece non può mancare nel ritorno alla Vargas, di cui ho aspettato a lungo l’economica prima di parlarne.
Jean-Patrick Manchette « Ô dingos, ô châteaux ! » Folio euro 6,30
[in : 17/03/2010 – out : 03/10/2010]
Un altro dei « classici » di Manchette, anche se non ha la forza del precedente e del seguente (che conosco anche se non ho ancora letto) che sono più direttamente politici. Qui c’è un po’ di tutto, ma più che altro torna quel disagio del primo (quel fulminante “Lasciate che i cadaveri si abbronzino”) di essere, di stare in un mondo complicato, e di non capirne le regole. Il filo conduttore è la caccia ad una bambinaia ed al ragazzotto (che lei deve accudire e che è figlio di un miliardario) da parte di un assassino psicopatico e dei suoi complici. E qui ci sono tanti elementi contestuali che si scatenano. Perché il miliardario è divenuto tale in seguito alla morte del fratello, lui essendo uno scalcinato architetto, che cercava di farsi progettare la costruzione di un castello (o del titolo?). Castello che costruirà il suo socio, quando lui (ricco) lo caccia in malo modo. Divenendo tutore del nipote, vero ereditiere alla maggiore età. Ed in tanto il miliardario (rosso di capelli) riempie la sua casa di diversamente abili per la gestione della sua vita quotidiana. Cuoche sciancate, autisti ubriaconi, maggiordomi caratteriali. La chicca è scegliere poi Julie, la bambinaia, in un manicomio criminale. Certo la ragazza è guarita, ma un po’ pazza (o del titolo!) rimane. Irrompe sulla scena poi quest’assassino psicopatico, che da un lato gode nell’uccidere, dall’altro se non uccide viene preso da gastriti fulminanti, che lo fanno rinchiudere ore nel primo bagno a disposizione. Ed in una delle scene dei sotto finali, quando spara e vomita Manchette supera sé stesso. Ed un’altra scena fantasticamente realizzata è tutto l’inseguimento di Julie e Peter all’interno di un grande magazzino, con spari, grida, fuoco, reparti distrutti, morti innocenti e non, che da modo all’autore di intramezzare una grande scena da hard-boiled americano con la critica (a lui cara) della società dei consumi e delle sue degenerazioni (certo negli anni ’70 ancora all’inizio, ma già promettenti). E come tutti i Manchette che conosco, poco spazio a soluzioni di comodo ed altri “happy end” troppo facili. Se c’è un buon finale, ed i cattivi (ma quali sono realmente) avranno fio per le loro colpe, ci si butta dentro, anche a costo di lasciare scontenti i buonisti. Ma la vita non sempre è buona, basta leggere le cronache nere attuali. Un punto di merito al titolo, che recita “O pazzi! O castelli!”, evocando atmosfere dello scritto. Un punto di demerito alla lontana traduzione italiana che, non sapendo come risolvere il problema, lo ribattezza “Pazza da uccidere”. Al solito non ci siamo (vero Eco, e i traduttori/traditori?). Nel 1973 comunque ottiene il “ Grand prix de littérature policière“, un premio che in Francia incorona dal ’48 ad oggi il miglior poliziesco dell’anno (francese e straniero). Un premio che cominciò con Léo Malet e che ricevette anche un ottimo Scerbanenco. Detto tutto ciò (e forse troppo) ritengo che non sia all’altezza di altre prove dell’autore, e, in fondo in fondo, mi ha un po’ non dico deluso, ma lasciato perplesso. Comunque, anche qui, quando c’è l’amore, si sobbarcano tante peripezie (ed a volte anche quando c’è soltanto un volersi bene profondo). Ah, un bel bicchiere di vino rosso!
Fred Vargas « Un lieu incertain » J’ai lu euro 7,60
[in : 21/10/2010 – out : 12/11/2010]
Andamento misto. Bell’inizio, centro in discesa, bel finale. Ma poi c’è Adamsberg, e tutto va bene. Da più di un anno aspettavo l’uscita dell’ultimo romanzo della Vargas in economica francese, e finalmente, nell’ultimo viaggio belga, eccolo là. Preso e fortunatamente uscito quasi subito sulla ruota di lettura. Ed altrettanto in fretta, abbastanza divorato. Dico abbastanza perché, come da inizio accennato, la parte centrale l’ho trovata un po’ faticosa, quasi che si avesse (e c’era) una bella trovata iniziale e si sapesse come si deve comportare il finale, ma è l’unione dei due che lascia un po’ perplessi. Intanto, sottolineiamo che, rispetto alla solita scrittura, c’è un po’ più di sangue del normale, quasi che i nostri poliziotti della Brigade decidano di immergersi nel nero quotidiana. A proposito, qui son le parti migliori, dove, romanzo via romanzo, i vari eponimi poliziotteschi escano fuori. Ormai conosciamo e vogliamo bene al buon Danglard (soprattutto alla sua onniscienza). Ed abbiamo imparato a rispettare la Retancourt. Qui escono un po’ meglio la Froissy e la sua bulimia e Estalère con la sua innocenza (come direbbe Adamsberg) o stupidità (come sottolinea Danglard). E quando la Vargas è in vena, ci regala nuovi passaggi della mente d’Adamsberg, che salta di qua e di là, che non ritiene nomi (a volte) o ne ritiene troppi, e questi passaggi mi regalano i momenti migliori del godimento di scrittura (uno per tutti, quando Danglard comincia ad avere un debole per la signorina del convegno, quella che fa i sunti degli interventi, e che sul cartellino porta quindi, in inglese che siamo a Londra, il termine Abstract, e Adamsberg per tutto il romanzo ci delizierà con il gioco di parole sull’amore astratto di Danglard, abstraite in francese con facile assonanza). La storia poi comincia forte con una ventina di piedi mozzati che si trovano al cimitero di Highgate, un morto ridotto in 427 pezzi a Parigi, e la ricerca delle connessioni tra i due fatti, ed una morte in Austria, e la sensazione che Adamsberg c’entri più di quanto sembri (o che ce lo si voglia far entrare, quasi ad incastrarlo). Poi ci si perde in Serbia per troppe pagine, che son funzionali alla storia nel complesso, e ci fanno conoscere fino in fondo quel luogo incerto del titolo (infondo un titolo deve avere una ragione). Questa è la parte che mi ha trascinato un po’ (ma si sa che gli slavi in genere mi lasciano freddo) per poi riprendere quota e vigore tornati a Parigi e finalmente sciolti tutti i misteri. Si trova l’assassino, si mette in grado di non nuocere chi vuole del male ad Adamsberg, e Danglard si prende una settimana di astrazione. La beltà della scrittura della mia amata archeologa francese è anche quella di innescare altri racconti e molte tematiche all’interno del flusso principale. Qui si ritorna più volte sul rapporto padri – figli, presenza – educazione, tra la progenie del brigadiere Mordant e quella in aumento di Adamsberg (questa forse è un po’ una pecca, il fatto che ad ogni nuovo romanzo sembra uscir fuori un nuovo figlio del commissario, che pare ne sparga a piene mani per tutta la Francia e magari anche fuori…). Il rapporto potere – corruzione, dove seguiamo l’inchiesta parallela dell’ex-commissario Weill. Certo, un po’ “a forza” ritroviamo anche Veyrenc di cui ci mancavano le poesie. Ma va bene anche così. Certo dispiace la lontananza di Tom e di Camille, nonché l’assenza dei “tre evangelisti” che a me piacciono sempre. Ma come dicevo altrove, mi piace questo piccolo mondo che si va costruendo e fortificando sulle rive della Senna. Così si può andare tutti insieme a bere un buon bordeaux profumato alla “Cloche des Halles”.
“Toute chose très belle ou très laide abandonne un fragment d’elle dans le yeux de ceux qui la regardent.  … - et qu’est-ce qu’in en fait après ? – On les range … dans un grand carton qui s’appelle la mémoire. – Et on ne peut pas les jeter ? – Non, c’est impossible. La mémoire n’a pas de poubelle » [Ogni cosa molto bella o molto brutta lascia un frammento di sè negli occhi di chi la guarda. … - E dopo, che se ne fa? – La si riordina … in una grande scatola chiamata memoria. – E la possiamo gettar via? – No, è impossibile. La memoria non è spazzatura] (46)
Auguste Le Breton “Rififi” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2004 – out: 30/01/2011]
[tit. Orig. Du Rififi chez les hommes; ling. or.: francese; anno 1953]
Ha la mia età, e sembra un giovincello. No, non Auguste Montfort detto Le Breton (che purtroppo è morto 10 anni fa), ma il libro, questo Rififi, che introdusse il gergo della mala nella letteratura (e viceversa). Un termine, appunto, intraducibile, che sta ad indicare tutta una serie di situazioni pericolose: rissa, zizzania, ma anche seminare il panico, scatenare una lotta senza esclusione di colpi. E già solo per questo il bretone Auguste meriterebbe un posto nell’Olimpo dei benemeriti. Orfano, scapestrato, fuggiasco, ma (come i suoi personaggi) uomo d’onore. E quando a 34 anni gli nasce una figlia, memore di un giuramento di gioventù, decide di scrivere le sue memorie per passarle alla sua erede. Dalle memorie all’idea di descrivere il mondo con cui ha vissuto e convissuto per anni il passo è breve. Butta così giù di botto il suo primo romanzo, dove introduce il termine Rififi, ed al quale, data la fortuna, seguiranno un'altra dozzina di Rififi, in giro per il mondo. La fortuna di questo spaccato della mala, è poi dovuta al film che poco dopo ne trae il profugo americano Jules Dassin, fuggito in Francia per sfuggire al maccartismo imperante negli anni cinquanta. Francia dove incontra Melina Mercouri, che sposerà dieci anni dopo. E Dassin accentuerà anche i toni neri dello scritto di Le Breton, ma anche esaltando il cameratismo e l’onore. Purtroppo, facendo anche qualche “censura” sull’origine dei cattivi. Ma questo primo Rififi rimane una pietra miliare. Infatti, leggendolo, pur non ricordando che il ruolo di Tony aveva la faccia belga di Jean Servais, già mi vedevo intorno a Pigalle, con Jean Gabin e Lino Ventura, guardar cantare nelle bettole una Magali Noël di felliniana memoria. E qui ci sono le altre pietre miliari: la mala che fa sodalizio nella vecchia guardia. C’è Tony il Lionese (anche se nell’originale era “le Stéphanois”) ed il suo grande amico Jo lo Svedese (che si assonava nell’originale come “le Suédois”). I due fanno un gran colpo in una gioielleria, aiutati da due oriundi Mario l'Italiano e Cesare il Milanese (che nel film sarà interpretato dallo stesso regista). Sembra andare tutto bene, ma Cesare ha la malaugurata idea di incapricciarsi di Viviane, la donna del franco algerino Pierre Sora. Allora Pierre intuisce l’affare, e con i suoi due fratelli, Ahmed e Alì, comincia a cercare di fregare il bottino a Tony e Jo. Comincia così la mattanza. Con i soliti momenti epici alla francese (come quando, dato il tradimento di Cesare, Tony lo apostrofa: “Tu mi piaci, Maccaroni, ma consoci le regole”). Con gli inseguimenti. E con lo sgarro che fanno gli algerini decidendo di rapire il figlio di Jo. Questo non si fa. Non si immischiano (siamo nel 1953) i ragazzi nelle cose da adulti. E tutta la mala si metterà all’opera per aiutare Tony nella difficile (praticamente impossibile) opera di recupero del bottino e del fanciullo. E mentre tutto va verso l’aspettato fine, intorno muoiono anche un po’ delle signorine che si aggirano per Rue St. Denis. Ma nonostante tutto, ed anche considerata l’età, continua a scorrere come un fiume in piena. E mi ha travolto la sua cruda efficacia. Confessione finale: anni fa lo avevo acquistato in lingua, ma, nonostante non sia proprio l’ultimo arrivato, l’uso spinto dell’argot da parte di Le Breton mi aveva sempre bloccato. Non ero mai riuscito a terminarlo, impantanandomi in pagine di cui riuscivo a decifrare una frase su quindici. Chissà se adesso, conoscendolo meglio, lo riprenderò. Come direbbe il nostro caro Lucio, lo scopriremo solo vivendo.
Allora, pare che ci sia qualche numero in più nelle prenotazioni srilanko-maldiviane, e questo è un bene. Certo si dovrà aspettare quasi un mese per partire, ma vediamo di farcela. Vediamo soprattutto di riuscire a navigare in queste procellose acque, che (anche senza tsunami giapponese) sono piene di insidie ad ogni volger di passo. Come quando, nel mare in tempesta, si vede la riva dall’alto dell’onda e sembra che ce l’abbiamo fatta. Ma poi si scivola a mezzo, e la costa si allontana. Un abbraccio a Ferdinando

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