mercoledì 11 aprile 2012

Ah, la France… - 23 gennaio 2011

Questa settimana, invece, torniamo a parlare francese, sperando sia un buon augurio per riprendere il movimento che si è un po’ fermato. E parliamo di due autori, che per diversi e differenti versi, mi sono cari. Nei confronti del primo, il buon Fermine (come dico anche sotto), ho una specie di debito di riconoscenza. Il primo libro, quello magico dell’apicoltore, ha idealmente iniziato cinque anni fa l’accumulo di libri e trame. Da lui presi lo spunto e la voglia di comunicare e condividere. E qui ne parlo peri due libri, anche se il secondo, in forma di racconti, mi è sempre più ostico della forma romanzo. Il secondo, Orsenna, dal francese rotondo, mi ha incantato con i libri sulla grammatica, per cui ne ho iniziato a leggere anche di altro.
Ma non divaghiamo, come diceva la mia insegnante “revenons à nos moutons”, ed a Maxence che dalla romita Albertville, ormai superati i quaranta, ci regala qualche bella immagine lontana.
Maxence Fermine « Opium » Livre de Poche euro 5,60
[in : 07/05/2010 – out : 21/09/2010]

Facendo forza al debito di riconoscenza verso Fermine che in un certo senso ha inaugurato queste trame ormai tanto tempo fa, solo dopo molto pensiero ne ho ripreso un altro. Il quarto. E mi si è illuminato un paragone: mi sembra la scrittura di un Baricco in minore (qui, mentre altrove era in maggiore). Avevo la paura di rimanere deluso, ma in fondo, non è stato così. Certo, non è un bel romanzo. Anzi direi che sta a metà tra un racconto ed un apologo (un po’ anche alla Erri De Luca), narra poco e con tono lieve. Ci mettiamo comunque sulla pista di Charles Stowe, inglese, che nel 1838 cerca di penetrare nei segreti della produzione del tè, allora monopolio esclusivo dei cinesi. Vediamo con gli occhi della meraviglia luoghi che allora erano incontaminati (come la sorgente del Fiume Verde). Vediamo (con lievità) la tremenda lotta di potere tra l’arrembante potenza industriale inglese e la roccaforte “medioevale” dei potentati cinesi. Vediamo come utilizzando l’oppio l’industria riesce a scardinare il potere ancestrale della produzione artigianale. E vediamo Charles innamorarsi dell’impareggiabile Loan. Ci sono momenti in cui sembra che tutto debba precipitare, ma non è questo quello cui interessa Fermine (perché noi, ora, sappiamo che gli inglesi rubarono piante di tè, le esportarono in India e da lì costruirono un nuovo ed alternativo impero di spezie e profumi). Ciò che interessa l’autore è (anche qui, come nel molto più bello “L’apicoltore”) l’uomo che insegue per tutta la vita un ideale. Forse non lo si raggiungerà mai, forse è bene ad un certo punto fermarsi e chiedersi fino a che punto si può arrivare. E forse è bene, accogliere quanto di bello e buono si è potuto ottenere e coltivarlo nella propria memoria, tenerlo per sé, e vivere. Forse ci metto qualche significativo più mio che suo (troppi dubitativi in queste righe…). Certo, ripeto, scrive in modo scorrevole, piacevole, “barricchevole”, ma, come detto all’inizio, qui in un tono minore, senza troppo mordente. Una lettura piacevole, e qualche bel ricordo.
“Cependant, s’il se trouvait bien partout, il n’était nulle part chez lui. Et cela ne faisait qu’accentuer son besoin de poursuivre encore et toujours son voyage.” [Tuttavia, benché si trovasse bene ovunque, non era in nessun luogo a casa sua. E ciò non faceva che accentuare la sua necessità di proseguire ancora e sempre il suo viaggio.] (29)
“Un secret reste un secret. Et, parfois, il est préférable d’en savoir le moins possible.” [Un segreto resta un segreto. E, a volte, è preferibile saperne il meno possibile.] (40)
“Il savait très bien que les plus belles promesses, même si elles finissent par devenir poussières de souvenir, ne passent jamais le sablier du temps.” [Sapeva molto bene che le più belle promesse, anche se finiscono per diventare polveri di ricordo, non passano mai la clessidra del tempo.] (181)
“Son long voyage … lui avait fait comprendre que la vie est un opium dont on ne se lasse jamais.” [Il suo lungo viaggio… gli aveva fatto capire che la vita è un oppio di cui non ci si stanca mai.] (187)

Orsenna è Accademico di Francia dove ha preso il posto di Jacques Cousteau, ed a suo tempo stretto collaboratore di Mitterand. Nonostante sia un ariete, si può sopportare.
Érik Orsenna « Deux étés » Le livre de Poche euro 4,50
[in : 13/02/2010 – out : 08/10/2010]

Il solito grande libro per celebrare ancora una volta in poche pagine i grandi amori di Orsenna: il mare, la lingua, la letteratura. Non mi ha incantato come il primo che ho letto dell’Accademico francese, quello sulla grammatica narrata come un racconto di fiabe per giovani adulti. Ma anche qui ci sono momenti che mi legano alla pagina e da quella mi fanno volare. Cosa chiedere di più ad un libro, se non di regalarti momenti che poi sono soltanto tuoi? La storia, esile, forse anche vera (seppur con ovvi punti di lirismo) ci porta in un microcosmo vivente in un’isola della Bretagna. Il filo narrante è Gilles, un traduttore di libri che lì si è rintanato. L’elemento scatenante è la decisione, da parte di Gilles, di accettare di tradurre un libro intraducibile, Ada di Nabokov. Sul versante letterario, a questi fili già potenti si intrecciano un possibile rapporto di gioventù che legava Gilles a Jean Cocteau, la presenza discreta, esile ma forte, di una nipote di Saint-Exupery, e la presenza forse dello stesso Orsenna. E dover tradurre impone tutta una serie di riverenze alla lingua: a quella di chi ha scritto il libro (con dei belli intarsi dell’originale scrittura di Nabokov), a quella di chi scrive la storia (e qui Orsenna ogni tanto si fa prendere la mano, ed accumula pagine, fortunatamente non tutte vicine, in cui agglutina descrizioni, sensazioni, momenti, usando un francese classico, ma riversandoci miriadi di parole che non fanno parte del “basic french”; ed è una gioia, scoprire tanti modi di descrivere oggetti, di parlare d’amore, ed altre gentilezze, forse estetiche ma belle e coinvolgenti), a quella di chi viveva espatriato, come il señor Fernandez (un fotografo argentino che ha immortalato Borges). Per finire il mare. Che tiene lontani gli ugualmente odiati parigini ed inglesi, che ha i suoi ritmi, che consente di festeggiare la festa di San Giovanni con un’orgia di gamberetti. Due estati, trascorriamo con tutti questi personaggi (ed altri ancora, ma sarebbe lungo elencarne i felici bozzetti) e con buona parte degli abitanti estivi dell’isola, tutti tesi in un’ardua impresa: aiutare Gilles a rispettare l’impegno di tradurre Nabokov entro la scadenza di settembre, in attesa che il russo riceva l’atteso Nobel. Che piacere immaginare tutte queste persone, unite dal fatto di stare sull’isola, dedicarsi all’impresa folle di riportare in altra lingua il volteggiare della prosa inglese del russo, non a caso lieve ed impalpabile come le sue amate farfalle (ricordo che Nabokov era anche uno stimato entomologo). Certo alla fine il libro non ha una grande trama, si avvolge intorno ai brevi capitoli senza grandi passioni, e senza grandi drammi. Ma la vita è il più sovente così, piena di tanti trattini d’unione, che alla fine come nelle vecchie Settimane Enigmistiche, fanno uscire un delicato disegno (o come lavorare al mezzo punto per ricamare fiori). Non sempre si scala l’Everest. Ma non per questo meno bella è la vita. E poi non posso non rivolgere un pensiero delicato al ricordo della mia estate in Bretagna di quarant’’anni fa, dove i nipoti di Odile mi insegnarono il francese più di ore ed ore passati sui libri. E l’odore dei boschi che si avvicinano al mare. E le sue grandi spiagge. Qui si cade nel sentimentalismo. Alla prossima, Érik, magari davanti ad una “tarte tatin” …
“- Les traducteurs sont des corsaires … [- ??] – Quel est le travail du corsaire? Quand un bateau étranger lui plaît, il l’arraisonne. Jette l’équipage à la mer et le remplace par des amis. Puis hisse ses couleurs au sommet du plus haut mât. Ainsi fait le traducteur. Il capture un livre, en change tout le langage et le baptise français. Vous n’avez jamais pensé que les livres étaient des bateaux et les mots leur équipage ? » ["- I traduttori sono pirati ... [-??] - Qual è il lavoro del pirata? Quando una nave straniera gli piace, la assalta. Getta l'equipaggio in mare e lo sostituisce con i suoi amici. Poi innalza i suoi personali colori al vertice del più alto pennone. Così il traduttore. Cattura un libro, cambia tutto il linguaggio e lo battezza francese. Hai mai pensato che i libri sono battelli e le parole il loro equipaggio?] (26)
« Les mariages aussi sont des îles. Il faut un bateau pour s’échapper » [Anche i matrimoni sono delle isole. C’è bisogno di una nave per allontanarsene.] (87)

Finiamo ancora con Fermine ed i suoi racconti.
Maxence Fermine « Billard Blues » Le Livre de Poche euro 4,50
[in: 26/09/2010 – out: 14/11/2010]

Ancora un Barric(que)co? Anche qui il modo di scrivere del buon Maxence me lo avvicina molto all’amato torinese. Questo modo di raccontare una piccola cosa, delineando bene i contorni, i personaggi, e rendendo palese in modo onesto quello che si vuole dire, dove si vuole arrivare. Qui siamo non su un breve romanzo, come altrove mi ha abituato, ma su tre racconti, uniti dal filo rosso di rappresentare alcuni aspetti di una certa cultura americana. Il primo, basato su una partita di biliardo. Il secondo, su di un concerto jazz. Il terzo, sul mondo del Poker. Diciamo subito che il terzo mi è sembrato meno riuscito degli altri: da un lato è un po’ scontato (una serie di bozzetti di una coppia di giocatori di poker, per avvicinarci alla grande partita ed a seguirne lo sviluppo e gli epiloghi, ma pensiamo di sapere già il finale, ed almeno uno lo prendiamo, mentre qualche rivolo ci sfugge, e forse sono i più interessanti) e dall’altro il poker è sempre stato un gioco che non mi ha mai appassionato. Forse perché, nel fondo, non ho proprio un’anima scommettitrice, e quindi non ne vedo la bellezza. Gli altri due, invece li trovo più riusciti. Il biliardo è una bellissima ballata che si srotola all’interno di un club di biliardo, ed al suo più nutrito animale, un bravissimo cinquanta volte campione del mondo. Ed alla partita che viene obbligato a giocare contro Al Capone, non solo gangster ma anche appassionato giocatore della stecca. Assistiamo così ad una partita senza esclusione di colpi che porterà fino a tentare (ma riuscirà o no lo lascio a chi lo vorrà leggere) il leggendario colpo “Diamond Drink”. Il tutto accompagnati da un misterioso suonatore di chitarra, che allieta le serate nel locale con le sue bellissime ballate blues. E non a caso il locale si chiama “Billard Blues”. Il Jazz è un altro tentativo di descrivere una situazione tipicamente americana. Il suonatore di sax bravissimo ma, per sua sfortuna, bianco. Che vive in un perenne stato alcolico, ma che tuttavia riesce ad incantare con le sue note. Il gangster che vuole a tutti i costi sentir suonare la bella Diana. E Diana, l’eterea suonatrice di piano, che ci regala una memorabile serata di suoni ed altro. Max, l’uomo del sax, non potrà che innamorarsi della pianista. E non si potrà non arrivare ad uno scontro tra le tre posizioni, che non sarà cruento nello svolgimento, ma forte e duro nell’anima dei protagonisti. In questi due racconti Maxence riesce, con il suo stile asciutto, a portarci lì in America con lui. Nella fumosa sala da biliardo. Nella cantina dove i bianchi suonano la musica negra. Ed ogni storia ha sempre due protagonisti principali, almeno ai miei occhi, il grande giocatore di biliardo ed il suonatore di blues, il sassofonista e la pianista, i due giocatori di poker. Alla fine delle storie uno dei due sarà sempre sconfitto (a volte forse tutti e due?), ma la penna di Maxence li lascia liberi, e siamo poi noi ad immaginarci cosa faranno dopo l’ultima pagina. Anche Maxence mi piace, ha i suoi alti e bassi, ma mi lascia dentro un senso di pace, anche quando (come in altri suoi libri) non vi sono ottimismi da festeggiare. Come un vino liquoroso che ben sanno fare lì in fondo alle campagne francesi, cogliendo chicco a chicco, con delicatezza. Ma quando viene fuori, il vino ha una sua potenza niente affatto delicata.
“Quand tu possèdes la musique, tu possèdes tout” [Quando hai la musica, hai tutto.] (12)
« Ça reste tout de même la plus belle histoire d’amour manquée de ma vie » [In ogni modo, rimane la più bella storia d’amore mancata della mia vita.] (83)
« N’oublie pas ceci : jouer du jazz, c’est comme raconter une histoire. Une fois la musique envolée e le morceau terminé, il ne doit rester que du bonheur … Sinon ça ne sert à rien. » [Non dimenticarlo mai: suonare jazz è come raccontare una storia. Una volta finito il brano e volata via la musica, non deve restare che felicità … Altrimenti è inutile.] (86)

Ma ora son troppe settimane che si grida al lupo, al lupo. Sarebbe ora di passare oltre: o arriva il lupo o lo si uccide. Speriamo di non dover trovare soluzioni cruente. Bonne semaine à tout le monde.

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