Come molti sanno, il bel viaggio
asiatico è ben terminato, mentre si prospetta (incrociamo tutte le dita
possibili) un viaggio sudamericano un po’ sulle ali del Che (anche senza
Patagonia). Allora torniamo ai viaggi letti e scritti. Cominciamo con uno dei
pochi Chatwin che non avevo ancora letto. Ed in sintonia con lui, anch’io sento
molta irrequietezza. E poi con un altro interessante Kapuscinski, mentre con
lui ripeto che solo in viaggio mi sento me stesso (anche se non sono un
reporter). Finendo con Canetti e la sua (ma anche mia) Marrakech (e dolorandosi
del vile attentato del mese scorso…).
Bruce Chatwin “Anatomia dell’irrequietezza”
Adelphi euro 10
[in: 10/10/2010 – out: 21/11/2010]
Un
libro all’insegna del 10, che non delude. Certo ha anche le sue pecche, e per
questo siamo sul buono e non sull’eccellente. Ma Bruce non si discute, si ama.
Innanzi tutto è postumo, quindi una scelta (ottima ma sempre soggettiva) da
parte dei curatori di un percorso nel mondo di Chatwin. Il filo conduttore è il
titolo, ovvio, quell’irrequietezza che da un certo punto della sua vita in poi
ha manifestato e praticato. Forse era da sempre, dagli anni londinesi. Poi
congiunture, malattie e passioni, l’hanno portato a sentire sempre il bisogno
di andare altrove. Per questo, non ha un suo luogo da scrittore (ma belle le
case descritte, dove, di tempo in tempo, si può posare l’anima, ricaricarsi,
forse scrivere, ma mai stare). E per questo, in questi frammenti, le cose
migliori sono dedicate a quella che lui chiama “l’alternativa nomade”. Alcune
pagine che passano a volo i passaggi dal nomadismo pastorale alla civiltà
sedentaria, ed al bisogno dell’uomo di muoversi. Sempre alla sua altezza le
descrizioni dei luoghi, siano esse sperdute vallate patagoniche che ville
incastrate nelle scogliere di Capri. Riesce sempre a far volare la penna,
saltando qua e là, prendendo scorciatoie, e, soprattutto, riuscendo a rendere
vive le persone che incontra. Sia essa una madre che allatta un figlio sulle
soglie del deserto, sia Curzio Malaparte che si aggira con fare da dandy per le
stradine di Capri. Una scoperta, poi, le recensioni. Belle, appassionate, e,
come ci si può aspettare dal suo stile, sempre in cerca di legare persone e
luoghi. Mi piace il percorso che ci fa fare seguendo una biografia su Stevenson
che non sembra gli sia piaciuta molto, ma con il grande RLS ci porta da
Edimburgo alle isole Samoa, tenendo sempre a mente il grande motto dello
scozzese (“Io non viaggio per arrivare, io viaggio per viaggiare”). Ma ci sono
punti bassi, alcuni, per me, molto. I racconti, ad esempio. Non sembrano essere
il suo forte, si dice, fa intravedere situazioni (anche lì legate alla sua
passione, deserti, beduini, steppe argentine, ghiacciai) ma non prendono, sono
frammenti. Frammenti di scritture, con un interesse più filologico che reale
(forse io non li avrei messi). Poi si posa un po’ il libro, e quando lo si
riprende l’occhio corre subito alle pagine nomadiche, all’andare, al vedere, al
curiosar domandando. Lì si vedono prodromi ed epigoni di altri scritti, meglio
compiuti. Si vedono gli aborigeni delle “Vie dei canti”, gli anarchici di “In
Patagonia”, i beduini ed i deserti degli scritti africani. L’elemento in più
che mi è piaciuto, se poi devo essere sincero, è proprio, invece, quel
descrivere situazioni europee. La campagna toscana, il sud della Francia, la
sua casa di Londra. Lì dove non saprebbe stare fermo, ma lì dove ritorna a
“ricaricare le batterie”. Non si può sempre andare, ogni tanto bisogna tornare
e stare, per poi andare di nuovo, che noi irrequieti non ci si ferma mai. E
fermi si soffre. E magari, quando si riparte, si porta con sé qualcosa di
nuovo, un oggetto, un libro, una parola, un bacio. E via, a seguir dantescamente
la strada iniziata da lo maggior corno della fiamma antica.
“Casa, dopotutto, è dove sono i tuoi amici”
(31)
“Cambiare ambiente e avvertire il passaggio delle stagioni nel corso
dell’anno stimola i ritmi cerebrali e contribuisce a un senso di benessere, di
iniziativa e di motivazione vitale. Monotonia di situazioni e tediosa
regolarità di impegni tessono una trama che produce fatica, disturbi nervosi,
apatia, disgusto di sé e reazioni violente” (121)
“Passiamo troppo tempo in stanze chiuse”
(122)
“Montaigne: [in viaggio] la mente è
stimolata di continuo dall’osservazione di cose nuove e sconosciute” (122)
“Ibn Battuta: chi non viaggia non conosce il valore degli uomini” (122)
“Tutte le nostre attività sono legate all’idea del viaggio … I giochi
agonistici sono anch’essi pellegrinaggi. In sanscrito una stessa parola designa
il giocatore di scacchi e il pellegrino ‘colui che raggiunge la sponda
opposta’. I calciatori non sanno di essere anch’essi dei pellegrini. La palla
che calciano simboleggia un uccello migratore” (127)
“L’educazione … è l’arte di gettare perle false a porci autentici”
(201)
“L’universo … è sessuato. … Montagne, rocce e promontori sono in
prevalenza maschili; grotte, crepacci e baie, femminili. Il cielo … che copre
la terra è sempre maschile. La Terra è sempre la Madre. [Solo] del sole non si
può predire il sesso. Per Luigi XIV il Sole era maschio e simboleggiava la
forza, la luce sulle tenebre, l’ordine sul caos, il potere e la gloria. Per il
beduino rawla d’Arabia il sole è una vecchia megera malvagia e distruttiva, che
costringe il bell’astro lunare a dormire con lei una volta al mese e lo
sfinisce a tal punto che esso ha bisogno di un altro mese per riprendersi”
(207)
Ryszard Kapuscinski “In viaggio con
Erodoto” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà, scontato 5,62 euro)
[in: 25/07/2010 – out:
27/02/2011]
[tit. or.: Podróze z Herodotem; ling. or.: polacco; anno 2004]
Magistrale, anche se nella prima
parte mi stavo perdendo. È, infatti, uno spaccato autobiografico che narra
trasversalmente un po’della vita da reporter dell’ottimo polacco, prendendo a
spunto il suo rapporto, costante negli anni, con il capolavoro del grande
greco. Perché Erodoto, come dimostra con dovizia di citazioni lungo tutto
l’arco del libro, è stato, in effetti, il primo grande reporter della storia.
Una persona curiosa, come sanno esserlo i reporter ed i veri viaggiatori, che
decide di tener traccia degli avvenimenti, grandi e pieni di conseguenze, che
lo hanno preceduto di pochi anni. Ed è questo che Erodoto fa, tracciando le
gesta che hanno portato il mondo ellenistico a quello che è fino alla sua (di
Erodoto) giovinezza. Narra le gesta dell’ascesa al potere dei grandi persiani,
di Ciro il Grande e di Dario, fino a quel Serse che muore quando Erodoto ha
circa 20 anni. E delle scorrerie dei Persiani fino al Nord Europa, e poi alla
loro sconfitta con i greci, passando dalle Termopili a Salamina, e via
narrando. Erodoto, curioso come riporto nella bella citazione sotto, va, si
aggira per il mondo conosciuto, chiede, mette da parte, e poi rielabora e ci
consegna una storia, o meglio, un’inchiesta sull’ascesa e la caduta dell’Impero
Persiano. Mettendo dentro questo reportage, fatti, notizie, curiosità, tanto da
farlo citare come il padre dell’etnografia. E Kapuscinski, avuto in regalo il
libro in occasione del suo primo viaggio all’estero come reporter, nell’India
del non allineato Nehru della metà degli anni cinquanta, se lo porta appresso
in tutti i suoi spostamenti. Ed in particolare, in tutte le sue scorribande fra
i tumulti africani, dalle rivolte in Congo alla caduta di Ben Bella fino
all’ascesa al potere di Leopold Senghor ed alla consacrazione della negritudine
in quello che viene ricordato come il fulgore delle rassegne mondiali, quella
Rassegna delle Arti Africane organizzata nel Senegal da poco indipendente.
All’inizio, dicevo, mi ero un po’ perso, che Kapuscinski, di ricordo in
ricordo, vagava ancora in Asia, tra l’India e la Cina, ed i legami con le
storie di Erodoto si facevano molto flebili. Ma quando piomba in Africa, lì il
cerchio si salda. Lì vediamo la sua capacità di saltare 2000 anni su e giù per
la Storia, senza perdere il filo. Facendoci vedere analogie e metodi similari
tra il grande greco ed il mondo attuale. Facendoci in un certo senso apprezzare
la sua modernità. Inframmezzando il tutto, con le sue esperienze quotidiane.
Con lo strano concerto di Louis Armstrong a Kinshasa. Con l’incontro quasi
fatale con i militari ubriachi. Con il capirsi a gesti con il suo autista
eritreo (che sapeva dire solo 2 parole in inglese: Problem o No Problem,
magistrale!). E con la voglia sua, la voglia di Erodoto, la voglia mia, di
muoversi, di capire, di non dare per scontato, di vedere flussi che si
intrecciano, di trovare fili da cui nascono cose ed altre cose. Intrecciando financo
gossip d’annata (come la turpe vicenda delle uccisioni incrociate che portarono
alla fine del regno di Serse). Leggendo infine le brame di potere e le crudeltà
dei satrapi di cinquecento anni prima di Cristo, leggiamo in controluce le
stesse brame dei satrapi attuali. Quelli che stanno cadendo ad uno ad uno. E
che speriamo continuino a cadere.
“L’India rappresentò … un incontro straordinario e affascinante, ma
anche una grande lezione di umiltà. Il mondo ci insegna ad essere umili.
Ritornai da quel viaggio vergognandomi di non aver letto abbastanza e di essere
ignorante. Avevo scoperto che una cultura estranea non si svela a comando e
che, per capirla, occorre una lunga e solida preparazione” (43)
“Scoprivo che un medesimo viaggio si poteva prolungare, ripetere e
moltiplicare attraverso la lettura di libri, lo studio delle mappe,
l’osservazione delle immagini e delle fotografie.” (51)
“Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel
momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non
finisce mai… è il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile.” (77)
“Erodoto: la peggiore delle pene umane è .. comprendere molte cose e
non avere alcun potere.” (214)
“Solo in viaggio [un reporter] si sente se stesso e a casa propria.”
(237)
“Che cosa lo aveva indotto a muoversi? … Probabilmente la curiosità del
mondo, il desiderio di esserci, di vedere e sperimentare tutto di persona. Una
passione del genere è rara a trovarsi… Ma come era venuta [a Erodoto] quella
passione? … Che cosa lo guida quando, impavido e instancabile si lancia nella
sua grande avventura? Forse l’ottimistica convinzione, in cui noi moderni non
crediamo più, che il mondo si possa descrivere.” (237)
Elias Canetti “Le voci di Marrakech”
Adelphi euro 9
[in: 29/12/2010 – out: 28/02/2011]
[tit. or.: Die Stimmen von Marrakesch. Aufzeichnungen nach
einer Reise; ling. or.: tedesco; anno 1968]
Delle bellissime “Note di viaggio”
come recita il sottotitolo. Note che ci fanno sentire quei rumori, quelle voci,
quei suoni, che ricreano intorno alla pagina stampata l’illusione di leggerla
là, sui tavolini del Café de France, nella terrazza che domina Djemaa el Fnaa.
Elias Canetti è un grande conoscitore delle parole, dei loro suoni e della loro
potenza evocativa. Profugo rumeno, naturalizzato inglese dopo la seconda
guerra, nel mezzo della scrittura del suo bellissimo “Masse e potere” si trova
in un momento di difficoltà: non sa come andare avanti. Allora si concede una
pausa, e con degli amici americani si reca per un buon periodo a Marrakech.
Siamo alla metà degli anni Cinquanta, il Marocco è ancora una terra strana, in
cui convivono anche isole ebraiche nel mezzo della più pura arabità. E Canetti,
anche lui è di origini non solo ebraiche, ma anche spagnole, si immerge in
questo mondo di suoni (ma anche di colori) per riprendere a macinare le parole.
Redige delle note, che solo più di dieci anni dopo, dopo aver finalmente chiuso
il grande libro, riprende, riordina e dà alle stampe. Noi ora le leggiamo,
cercando di renderle avulse dal tempo, e per fortuna Marrakech ce lo consente.
Capitoli più o meno lunghi, piccole narrazioni, ma leggiamo e siamo di nuovo
là, come dicevo all’inizio. Al mercato dei cammelli, sentendo le strazianti
grida degli animali che sentono di essere condotti al macello. Cammelli che
hanno quelle facce buffe, che ci ricordano parenti strambi, la zia con il neo,
il cugino con il tic. Poi la Mellah, il quartiere ebreo, con il bellissimo,
straziante cimitero, che sembra desolato, quasi in abbandono, mentre è proprio
così che sono, piccole pietre senza iscrizioni, e tanta polvere (e chi poi li
vedrà a Gerusalemme non potrà che ricordarne l’omogeneità). La scuola con i
bambini salmodianti il corano (o la torah, o altrove il vangelo). La fortuna di
entrare in una casa, perché solo così si capisce il Marocco (ed anche la
Spagna): niente di fuori, mura, barriere; poi dentro, giardini, stanze
arieggiate, profumi e quiete. L’arabo che ti si appiccica addosso, che vuole
qualcosa da te, che non ti lascia mai, che tu non capisci come aiutare (né come
togliertelo di torno senza ferirlo). Il suk, con quella sua concezione strana
del venditore e delle sue merci. Il suk a settori, che sai che qui c’è il
cuoio, lì le spezie, più giù l’orafo, in fondo a destra la seta, dopo la
salitella i tappeti, e nel mezzo un caffè per riposarsi fumando la sciscia. Con
il venditore al centro, tra tutti i suoi oggetti, tutti a portata di mano, e
tutti senza prezzo. Il prezzo viene fatto a seconda dell’acquirente, valutando
quanto può spendere, quanto è interessato, ed altri parametri di marketing
volante. Talmente volante e volatile, che non si può fare a meno di
contrattare, che è senz’altro metà dell’acquisto. Per poi concludere tutto con
un bel tè molto dolce. Poi si esce dal suk, e ci si ritrova, sempre, a Djemaa
el Fnaa, con le immancabili spremute d’arancia, i cantastorie (ah, bello il
pezzo sul griot), i dottori, i serpenti, ed i poveri. Fino a quell’ultimo
mendicante, che biascica il nome di Allah, ma con problemi fonemici, per cui
rimane una lunga, lunghissima a-a-a-a che ci accompagna per gli ultimi passi,
prima di voltarci e tornare a casa. Mi ha messo ancora una volta la grande
voglia di tornare laggiù, di guardare dietro le palme, di mangiare un dolce da
Mik-Mik. Alla fine Canetti è stato solo un pretesto, e forse mi aspettavo
qualche parola in più, qualche chiave di lettura in più. Ma il pretesto va
bene, ed il mio viaggio (alla Kapuscinski) è già ricominciato.
E
sì, come concludo con Canetti, il mio viaggio è già ricominciato. Si
prospettano pampe argentine, deserti cileni, missioni paraguaiane, altipiani
boliviani, ma anche renne lapponi, fiordi norvegesi ed altro ancora
all’insaziabile voglia di vedere molto (tutto non sarà mai possibile) prima che
il non vedere cali su di noi. E spero di avervi ancora e ancora non solo amici,
ma compagni di viaggio e più.
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