venerdì 15 giugno 2012

Misticanza - 22 aprile 2012

Perché questa settimana è come un’insalata italiana, fatta di un po’ di verdure diverse. Un racconto di chi in genere leggiamo saggi, due romanzi, uno dolce e uno amaro, di una verdura che in genere ci piace, ed un po’ di peperoncino per sorridere un po’, anche se non molto forte (c’è chi poco sopporta il piccante). Una settimana italiana e di avvicinamento.
Roberto Saviano “Super Santos” Corriere della Sera euro 1
[in: 27/11/2011 – out: 29/12/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Avevo lisciato la prima uscita degli “Inediti” del Corriere della Sera (ma poi ho preso tutte le 32 le altre) ed avevo cercato il Saviano per mesi presso i miei soliti fornitori. Una volta abbandonata la ricerca, ecco che finalmente, in un anonimo giornalaio di Piazza Armellini ho colmato il buco, e posso dedicarmi, in ultimo, a questo primo pezzo del puzzle del Corriere. In ogni caso, ne ero curioso, che della scrittura di Saviano conoscevo solo Gomorra, e qualche articolo sui quotidiani. Qui, con abile maestria, fonda il piano del racconto (e del ricordo) con un fondo di denuncia di stampo “gomorriano”. In effetti, nella seconda parte del racconto sembra si legga un capitolo omesso del Libro. Uno che tratta di malavitosi minori e che forse non era congruente con la saga maggiore. Sempre dolente, partecipato/partecipante. Ma in un certo senso, quasi scontato. Una volta inseritisi negli ingranaggi della camorra, i nostri possibili eroi hanno poche vie d’uscita. Fermarsi prima di mettere il piede sulla soglia, come fa Dino. O entrare. Ed allora accettare tutto. Ed una volta dentro, essendo pesci piccoli, non poterne uscire che in malo modo. Più fluida, invece, la prima parte sul filo del ricordo, legata al mitico pallone che solo poche volte si riusciva ad ottenere, dato il costo elevato per i ragazzi di strada. Il mitico Super Santos delle sfide a pallone (bella la descrizione della partita “all’americana”, che si faceva anche noi, ma si chiamava “tutti contro tutti”). Lì, con i ragazzi che vanno su e giù per i campi improbabili. Lì, quando si fa la conta per le squadre. E dove i più imbranati finivano sempre in porta (indovinate qual’era il mio ruolo in quelle sfide!). Lì c’è della poesia e del bello scrivere. Che forse poi riprende il Saviano televisivo, quello del sodalizio con Fazio. Questa parte ha un bel respiro, ed uno sguardo su Napoli che sempre affascina. Poi, come detto, si torna a Gomorra, ed ai suoi nefasti esiti. Sono contento di averlo letto e di constatare che Saviano può avere anche altre corde ai suoi archi. A volte è stretto dall’urgenza dolorosa della denuncia. Lo capisco, e lo ammiro. E speriamo serva! Ed un plauso complessivo a questa trentina di opere inedite, che, pur con alti e bassi (di cui alcuni molto, ma molto bassi), fornisce un interessante panorama della scrittura italica.
Erri De Luca “I pesci non chiudono gli occhi” Feltrinelli s.p. (regalo natalino di Paola)
[A: 01/01/2012 – I: 04/01/2012 – T: 05/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 115; anno: 2011]
Innanzi tutto, ho deciso che i libri regalati vanno posti fuori dall’ordine “normale” delle letture. Altrimenti si perde il senso ed il gusto del dono. Per questo, leggo l’ultimo libro di De Luca solo pochi giorni dopo averlo ricevuto. Tuttavia devo confessare che mi ha un po’ deluso, o almeno, siamo tornati in molti punti al De Luca degli inizi, e che non mi piaceva tanto (almeno fino ai Tre cavalli). Certo, altre parti, ed in particolare tutta la storia, direi il racconto, che fa da ossatura al testo è gradevole e mi è piaciuto. Con gli anni la scrittura di De Luca, un po’ come la sua figura almeno dalle foto, si è andata asciugando, riducendosi quasi all’essenziale. Per questo i suoi libri hanno sempre un numero contenuto di pagine. Ognuna piena di parole che non sono cascate di sillabe, ma centellinato di cibo da gustare. Può non piacere tutto, come questa volta a me. Ma rimane interessante. Almeno rimane interessante l’ossatura del testo, quella che come dicevo mi è piaciuta. Quel riandare al se stesso di dieci anni, momento strano della propria vita. Quando si passa a due cifre, e per la maggior parte di noi rimarrà fino alla morte. Quell’inizio di crescita del proprio cervello cui non corrisponde, ancora, la crescita del proprio corpo. De Luca ci riporta a questa estate dei suoi dieci anni, al solito passata nell’isola napoletana. Questa volta solo con la madre, i suoi libri, le parole crociate. La difficoltà di sentirsi nella propria pelle. La conoscenza con la ragazzina del Nord, e tutto l’incrociarsi di possibili storie intorno a questi parametri. Ma storie sue, che De Luca è sempre De Luca. Quindi pensieri, osservazioni, incomprensioni. E parole. Sconosciute anche se spesso incontrate nei libri. Come la parola amore. Cui girerà a lungo intorno e forse finirà per intravederne il senso. Ora solo per capire meglio le letture, che altro non ci può ancora essere. O conosciute ed amate. Come mantenere, cioè tenere per mano, tenere in mano, tenere con la mano. Tenere per mano la ragazzina. Tenere in mano il filaccione per pescare. Tenere con la mano una penna, un libro. E non far cadere nulla, la ragazzina, il filo, il libro, che una volta toccati acquistano un sapore speciale. Questa parte mi è piaciuta, rimandandomi alle mie estati analoghe e di poco posteriori. Anche se io sono io, e le mie esperienze diverse, che a dieci anni ancora pensavo alle corse ed ai salti, e cercavo di occultare dolori allora recenti. Non c’erano ancora libri. Non c’erano ancora ragazzine. Ed è bello seguire il percorso del ragazzo che, tenendo fede a se stesso, senza deroghe, otterrà più di quello che vuole. Meno coinvolgenti per me le continue digressioni, l’andare su e giù nel tempo. E non tanto nel tempo familiare, che i bocconi della vita della famiglia sono comunque piccoli assaggi interessanti. È sul suo personale e politico che mi sembra regredire. Perché vuol dire e non dire. Accenna, per pudore, forse. O perché non è ancora passato il tempo giusto per dirlo con altre parole. Ma questi accenni vengono fuori che sembrano voler dire più di quello che esprimono. Con quel tantino di presupponenza (forse non è la parola giusta ma non ne escono altre dalla testa, ora), quell’accenno da “superiore” di chi ha fatto molte scelte, non tutte giuste, che ha provato molte cose, non sempre comprendendole (come comprendeva il pescatore sull’isola), che ha fatto molti mestieri, quasi a voler mortificare un se stesso non accettato. Spero che De Luca prima o poi trovi parole migliori per esprimere questi passaggi, per condividere con noi lettori qualcosa anche di questo se, ma al nostro stesso livello, facendocene partecipi. La sensazione complessiva quindi risente molto di queste parti, e mi ha fatto scendere un po’ il giudizio sul libro. Che comunque sono contento di aver letto. E di averlo letto ora, e non tra un po’. Continuerò a guardare con simpatia gli altri suoi scritti, che l’incontro con due parole oneste vale tutte le letture del mondo.
“Si incontrano, leggendo, frasi sismiche.” (37)
“Esistono ragioni che sono peggiori dei fatti.” (53)
“Sono la più forte contraddizione delle sbarre, i libri. Al prigioniero steso sulla branda spalancano il soffitto.” (91)
Massimo Vitali “Se son rose” Fernandel s.p. (regalo natalino di Silvia)
[A: 01/01/2012 – I: 14/01/2012 – T: 16/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 172; anno: 2011]
L’inizio (i primi due capitoli, direi) era promettente. Poi si è perso di molto, rimanendo in un’aurea mediocritas. L’autore, trentacinquenne bolognese impiegato all’Ikea, è alla sua seconda prova. La prima non l’ho ancora letta benché acquistata, ma incuriosisce il modo e il tema. Titolo “L’amore non si dice”. Contenuto: lettere di lui a lei che non parlano d’amore, perché lei glielo ha vietato. Ma questo sarà oggetto di altro, mentre qui la storia del lui ha una costrizione diversa. Perché Roversi (questo il nome del protagonista) dopo essere stato licenziato dall’industria di patatine dove lavora e dopo che l’Emilia (la moglie, non la regione) gli chiede una pausa di riflessione che il loro rapporto si sta esaurendo, si ritrova rinchiuso lui nolente nella toilette femminile del cinema Corallo. Decide allora di restarci e da questa costrizione fisica nasce l’agglomerato della storia. Così, su e giù per la narrazione, da un lato ci troviamo a ripercorrere la storia personale di Roversi, da quando era solo il bambino Gregorio, poi il sodalizio con Pancaldi, sodalizio ancora in voga trenta anni dopo, l’innamoramento a dieci anni dell’Emilia, che prende, lascia, viene lasciato, e poi chiede in moglie durante una festa in maschera vestito da sirena. E le varie tappe della vita coniugale, in cui vediamo tutto il suo NON esserci nel rapporto (vestiti buttati, piatti non lavati, e altro e altro). E non si capisce cosa ci trovi Emilia in questo ragazzone che sta sui trentacinque (anni) e sui centodieci (chili). Sempre ben serrato nella toilette, trova modo anche di continuare la vita. Riporta alla vita un cane apatico, si fa assumere come orecchio dalla titolare del cinema, vince la lotteria di un centro commerciale, cerca di riportare alla ragione l’innamorato Pancaldi. E continua a scontrarsi con i suoi genitori. E tanti lo vanno a cercare, da vecchiette sorde a pervertiti sessuali, da cineasti tedeschi a psicanalisti. Ma poi sempre con Emilia si va a scontrare, per capire se lui la ama, se lei lo ama, se si debbono lasciare o se devono tornare insieme. Non vi dirò come va a finire (ovvio, anche se scontato) né se uscirà dalla toilette (dove ormai sono quasi sei mesi che vive). La storia, devo dire, diventa un po’ ripetitiva alla fine (forse andava accorciata). Ed il tono oscilla tra un Licalzi tipo “C’è posta per te” al Morozzi delle migliori pagine di “Blackout”, con una netta prevalenza del secondo (forse dovuta alla bolognitudine di entrambi). Però proprio per questo, non riesce a volare in modo autonomo, non riesce a dare una propria impronta alla vicenda. Si susseguono macchiette e battutine, tutto in corti capitoli (quasi fosse scritto a raccontini e poi ricucito in romanzo) che dopo il primo sorriso non prendono più tanto. Si ridacchia, come ai racconti di quattro amici intorno ad un tavolo e ad una bottiglia di vino. Ma poi c’è bisogno, come loro sanno e fanno, di andare in profondità, su un tema, un pensiero, un’idea. Anche un litigio. Vitali rimane sospeso e leggero, non affonda i colpi, che restano lì a sorridere. Per questo non ci appassioniamo né alle vicende di Pancaldi che ogni tanto lo va a trovare, né ai tentativi frustrati di farlo uscire, blandendolo o prendendolo per la gola (come è facile supporre per un peso Massimo del suo calibro, ah ah che battuta). E le sue riflessioni, oltre alla tenerezza del ricordo dei baci con l’apparecchio odontoiatrico, o il nervosismo per le fisime ordinatorie di Emilia, non vanno mai a nessuno punto cruciale. Che vuole fare della sua vita? Del suo lavoro? Del rapporto con gli altri? Del rapporto con Emilia? Nessuna idea, e nessun sorriso da questo lato. Riconosco che affabula discretamente, e che qualche idea la tira fuori. Un po’ poco, vedremo se funziona meglio altrove. Finiamo con un plauso alla casa editrice Fernandel che continua a pubblicare giovani autori italiani. Bravi!
Erri De Luca “In alto a sinistra” Feltrinelli euro 7 (in realtà, scontato 5,25 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 27/01/2012 – T: 30/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127; anno: 1994]
Decisamente, non mi è piaciuto. Anzi lo trovo il punto più basso degli scritti di De Luca che ho letto. Fortunatamente non ho cominciato da questi, ma da “Tre cavalli”, che mi è sembrato di tutta altra pasta. Qui siamo ancora nella prima parte della scrittura, che dopo il bel “Non ora, non qui”, si è andata rarefacendo in modo che, per i miei gusti, per le mie corde, risultava poco leggibile e sopportabile. Inoltre, in questo libro c’è l’aggravante (per me) che sono racconti, tra l’altro scritti in varie occasioni e per varie testate. Già il racconto poco mi si addice (o è molto bello o non è). E De Luca ci mette del suo, utilizzando una lingua contorta, piena di soprassalti, di involuzioni. Con quelle frasi che vogliono ammiccare, che fanno capire che si è studiato, che si è stati bravi. Poi, è vero, alcune scelte hanno portato a riflessioni e circonvoluzioni varie, segnando e tanto il percorso dell’autore. Ma ancora non le ha tutte depurate da quel senso di superiorità che ancora qui traspare. Come fare a sopportare benignamente una frase congeniata come: “Sarà la sua iniziale … in un remoto prima”? Da brivido. Ed i 12 racconti scivolano via, rimanendo nell’occhio solo alcune immagini, al di là delle parole usate. Saltare la scuola ed andare a rifugiarsi allo zoo. La bramosia di leggere, che porta il padre a girare sempre le pagine di un libro, ed a cercarne altri, di libri, per poter leggere e ricominciare la frase, lì, in alto a sinistra. Qualche lavoro di cantiere, qualche immagine di fabbrica torinese, qualche incomprensione di lingua. La lettura di Céline nel Metro. Ma poco altro. Quando cerca di trasfigurare la sua esperienza in altro contesto, per dire, mascherare, ferirsi dentro, come non poco possono aver ferito duri anni di lotta e di pensiero. Non mi ha convinto la confessione del terrorista. Non mi ha coinvolto il ritorno ad una persona amata. Ancora privi di fascino i rimandi biblici. Deve ancora passare per lo studio di molto ed altro prima di ritornarci pagine dolenti e leggibili, anche se non sempre condivisibili, come “In nome della madre” o “Penultime notizie su Gesù”. Peccato poi che a volte l’involuzione ritorni, come ho fatto notare nel da poco letto e commentato “I pesci non hanno occhi”. De Luca è sempre abile con le parole, e spesso fa comunque piacere leggerlo. Ma lo preferisco quando con tutta la modestia che può tirare fuori, scende in mezzo a noi, parla le nostre lingue. Con gli errori, con gli sbagli. E senza dover sempre dimostrare qualcosa. Cosa dimostrava “Il peso della farfalla”? Tutto e nulla, ma era un canto. Alla natura, alla presa di coscienza, al qui, ora e allora. Se poi si ha anche l’ardire di leggere il suo commento di quarta di copertina, si è decisamente tentati di neanche acquistare il libro. Quella sbrodolata sui pronomi, io, tu, noi, parole trasfigurate, immagini abbozzate, fili di fumo che nascondono quarti di luna messi ad illuminare colline che non scalammo (sto facendo il verso, non copiando, eh). Poi, mi rimane sempre il mistero di quest’uomo nato sul mare che non smette di amare le montagne. Insomma, 12 racconti da tralasciare, segnalare di averli letti, sconsigliarli a chi li voglia leggere. E pur tuttavia qualche brandello di frase non può che rimanere. Che la penna sa scorrere sul foglio. Ed anche noi, continuiamo a cercare la nuova frase, in alto a sinistra.
“Quando si è in un vicolo stretto della propria vita, per cavarsela si bussa a risorse alle quali in quel momento non si chiede da dove provengano.” (52)
“Ancora, ancora, erano i giorni ancora, io li scambiavo per i giorni sempre.” (72)
“È povero un uomo senza donna, perché smette di crescere.” (124)
“I libri siamo noi … Sono a immagine della nostra vita. Ama … i libri del tuo tempo, ama un poco i tuoi anni che sono quelli che passano e non quelli che ti restano.” (126)
Sempre consigliando di tener d’occhio i GARSS, come vi dissi la settimana scorsa, una nuova settimana di lavoro è passata. Ahi quanta fatica. Anche se ci sono soddisfazioni e riconoscimenti. Si farà presto un bilancio degli uno e degli altri. Per ora rammarico solo si aver poco tempo da dedicare ad altro, svaghi e amici in primis.

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