Paola Mastrocola “La gallina volante” TEA euro 8 (in realtà, scontato
5,60 euro)
[in: 29/07/2011 – out:
18/12/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2000]
Finalmente il primo libro della
Mastrocola, quello che all’uscita dieci anni fa vinse il Premio Calvino per gli
inediti. E, un po’ delusi dai suoi racconti, ci siamo subito riconciliati con
l’insegnante di Torino, che abbiamo cominciato ad amare ai tempi della Barca
nel Bosco. Un bel libro (non bellissimo) che parte da sé (la protagonista Carla
è un insegnante di lettere) ma non è né auto-biografico referenziale alla Starnone
né un tentativo di mettere in luce ignoranze dei poveri alunni (anche se ci
sono accenni, ma non cadano mai nel didascalico). Cronaca di un anno
scolastico, un anno come tanti altri. Professori che tirano avanti più per la
pensione che per altro. Precari alla ricerca di una cattedra fissa. Altri
professori delusi - disillusi che cercano i bandoli dei buoni propositi persi
per strada. Madri apprensive che soffocano i figli. Madri che si ricordano dei
figli solo durante i colloqui con i professori. Alunni che stanno in classe per
non stare altrove, che non sono capaci, neanche in seconda liceo, di mettere le
virgole ai posti giusti. Alunni che studiano e non capiscono. Alunni che non
studiano e capiscono. E poi c’è casa. Una casa praticamente in campagna, con i
conseguenti lunghi tragitto in macchina per andare a scuola a Torino (ma forse
in periferia). Una casa con il marito Mario, professore di matematica alle
prese con i nuovi computer, e soprattutto con quel mostro appena uscito (il
libro è di 10 anni fa) del sistema operativo Windows ed i suoi menu ed i suoi
click. Una casa con i due figli Laura e Marcello, che ci stanno ma non sono al
centro della sua vicenda. Con il vicino contadino Isidoro, quello che ha un
buon rapporto con la terra e gli animali. E soprattutto con il pollaio. Perché
Carla è un’insegnante che non avrebbe voluto fare l’insegnante, e decide, ad un
certo punto, di allevare galline. E di coltivare un sogno: farne volare una. In
questa ricerca di “vivere un sogno”, certo sarà aiutata da Isidoro, ma
soprattutto troverà solidarietà da Tanni, la più intelligente e problematiche
delle sue alunne. Ma anche questo rapporto non è trattato “con il buonismo dei
professori”, ma per quello che è e che potrebbe essere. Perché Carla è anche
una donna, un essere umano. Ed anche Tanni. Ognuna con i propri problemi, e con
i propri modi di uscirne fuori. Ma tanto faranno, che riusciranno a portare una
gallina al concorso italiano di galline campioni. Non vi dirò come finirà,
nessuno dei tanti problemi che certamente vi sarete posti ora: vincerà il
premio la gallina? Riusciranno a comunicare Carla e Tanni? Come andrà a finire
con il preside rompino? E con le madri, le professoresse, il marito, Isidoro?
Non sono questi gli elementi importanti. È importante il messaggio, di avere un
sogno, pur se pazzesco, ma per quello lavorare, lottare. Certo, senza
dimenticare il contesto. Questo mi è piaciuto, il fatto di non inventarsi
soluzioni estreme. Tipo buttare tutto all’aria, lasciare tutto, mollare qua e
là. No, Carla cerca di tenere in piedi quello che si può. Perché lei è il suo
sogno, ma è anche Mario, che cerca sempre i suoi pinoli che invece sono
pistacchi, è l’insegnamento (e sono interessanti i tagli che fa sui suoi modi
di interpretare la missione di professore; tipo quel perdere quasi tutta la
prima ora del primo giorno di scuola per fare un appello intelligente e vedere
chi sono questi venti ragazzi e ragazze che ci troviamo davanti per tutto un
anno), è il rapporto con Isidoro. Insomma, noi siamo molte cose, e la nostra
unità si trova solo non dimenticandocene pezzi per strada. Potremmo vincere,
potremmo essere sconfitti, ma in un caso e nell’altro ci saranno sempre momenti
da ricordare. E per quelli viviamo ed andiamo avanti. Certo, alcune parti sono
lente, ogni tanto parte un po’ la testa (un po’ come nella seconda parte della
Barca nel bosco), ma è un libro che mi ha scaldato queste prime notti
invernali.
“Sono bravi gli studenti anni Novanta… puoi venire a dirgli qualsiasi
cosa, se la bevono come niente…. Santa passività!” (50)
“Mia madre mi diceva sempre che i giovani vanno aiutati perché non sono
stupidi, sono solo giovani.” (150)
Michela Murgia “Accabadora” Einaudi s.p. (regalo natalino di Nicoletta)
[A: 01/01/2012 – I: 12/01/2012 – T: 13/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 164;
anno: 2009]
Ho fatto bene ad insistere sulla
Murgia. Dopo aver letto il racconto inedito del Corriere, che mi era
discretamente piaciuto, ho chiesto la conversione del regalo di Nico nel libro
della sarda. Ed ha confermato le prime sensazioni. A parte che la quarantenne
di Cabras ha anche scritto quel delizioso libretto (“Il mondo deve sapere”) che
non ho letto ma di cui ho visto il film che ne fu tratto da Virzì (“Tutta la
vita davanti”, altrettanto delizioso ed ahi quanto amaro), e già questo me la
mette in buona prospettiva. Qui, come nel racconto, torna alle sue radici, alla
sua terra. E nonostante le paure che confessa alla fine sull’uso dei termini
dialettali che a volte non sono immediatamente chiari (ma d’altra parte chi è
aduso a Camilleri ha fatto il callo), avendola vinta (la paura), il risultato è
di buon livello (e senz’altro superiore alle ultime deludenti coeve letture).
La storia di Maria (ma quante ce ne sono nei libri che leggo) che la madre
“vende” ala zia Bonaria (zia in senso di rispetto, che non sono parenti) e che
quest’ultima alleva e cura come e più di una figlia, ci prende fin dalle prime
pagine, e ad un certo punto non mi ha più mollato, tanto che sono andato avanti
a leggere per molta parte della notte. Perché l’interesse sulla sorte e la
storia di Maria cresce man mano che si intrecciano le storie della cittadina di
Sereni. Della scoperta, ma fin ad un certo punto mai palese, dello strano
mestiere della zia, l’accabadora, quella che accompagna la fine (e capirete
leggendolo che bell’ossimoro con zia Bonaria). Delle meschinità della famiglia
d’origine di Maria, delle sorelle grandi che la mortificano, della madre che la
prende anche in giro perché studia (per poi rivendersi come sue le spiegazioni
che le da Maria). Dell’iniziale ingenuità di Andrìa, che però alla fine capisce
e cresce. Dell’intemperanza pericolosa e distruttiva di Nicola, che lo porterà
a quella fine che segna una chiave di volta della vicenda. Che darà un senso al
prima, che spiegherà il poi, e che servirà a Maria, alla fine, a riconciliarsi
ed a capire fino in fondo l’umanità dolente di zia Bonaria. Certamente una
svolta all’inizio drammatica, ma che alla fine farà crescere tutti (ed in fondo
la crescita è sempre un dramma). Della dolcezza e dei timori del sedicenne
torinese Piergiorgio, che consentirà a Maria di vedere dentro sé stessa e
dentro il suo rapporto con la zia. Due cose, sulle altre, mi hanno più preso
nel romanzo. La capacità di Michela Murgia di raccontare storie inanellate
nella storia (come avevo intuito nel racconto del Corriere). Che sono tutti
piccoli racconti, quelli che si intrecciano. I racconti contadini della
vendemmia e delle faide. I racconti delle veglie per i morti. I racconti degli
emigranti sardi, quelli che vanno per guerre e quelli che vanno per lavoro.
L’altra è la mancanza di giudizi che l’autrice riesce a comunicare con il suo
modo di raccontare e di farci partecipi. Sarebbe stato facile, ma deleterio per
la bellezza del narrato, metterci dentro giudizi su tutto. Sulla signora Listru
che vende la figlia. Sull’accabadora Bonaria. Perfino su Piergiorgio. Invece
tutto scorre, gli avvenimenti, i “fatti” oserei dire, ci vengono davanti, li
guardiamo. E cerchiamo di capirli. Come cerchiamo di capire perché hanno
spostato il muro in pietra per aver più terra. E perché la famiglia di Andrìa
non si ribella. Perché Bonaria si ribella alla richiesta di uno e non alla
richiesta di un altro. A proposito, racconto nel romanzo, anche la storia di
Raffaele e Bonaria è ben situata. Ma dicevamo dei giudizi. Sarebbe stato
facile. Ma apprezzo invece lo sforzo di Michela di farci vedere le cose, di
capire i motivi, anche se non si riescono a spiegare. Uno sforzo di empatia che
sarebbe utile fare in molti per capire cose su cui, a volte, si preferisce
emettere giudizi. Che in un certo senso è più facile, e certamente molto più
distante. Capire non è mai facile.
Giuseppina Torregrossa “Il conto delle minne” Mondadori euro 9,50 (in
realtà, scontato 6,65 euro)
[A: 29/07/2011 – I: 22/01/2012 – T: 24/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 315;
anno: 2009]
Un’altra
interessante “prima”. Bene (e molto) la prima metà, mi ha lasciato freddo da lì
per un'altra metà, e di nuovo bene con lode l’ultimo quarto. Comunque pieno di
note positive e di una scrittura che a me è risultata piacevole. Intanto si
svolge a Palermo, almeno per la maggior parte del tempo. Una città che ho
riscoperto da qualche anno e che trovo sempre più interessante. Quando le due
Agate, nonna e nipote, girano per la città, mi sembra di stare anch’io con
loro. Al Piazzale della Marina, al giardino Garibaldi con gli alberi dalle
radici volanti. Tra palazzo Abatellis e Palazzo Steri. Giù nella Kalsa e dentro
la chiesa della Gancia. Ci mancava solo che passavano per S. Maria alla Catena,
ed avrei fatto follie. Sicuramente follie golose, che, benché in Palermo, la
famiglia di Agata (soprattutto le donne, o almeno buona parte) è devota appunto
alla Santa di Catania, la Santuzza, e per festeggiarla, ogni anno, il 5
febbraio preparano le “minne di S. Agata”. Certo un dolcetto dolce, dato che
sono cassatine di ricotta con cioccolato e canditi, ricoperte di glassa e con
una ciliegina in cima. In cima che, ovviamente sono a forma di seno, come non
può che essere data la Santa. E se ne devono fare e mangiare sempre in numero
pari, che altrimenti il seno ne risente. E tutta la prima parte è pervasa da
questo senso siciliano – lirico – goloso, dove la scrittrice, tra ricordi di
anziane e sé stessa che cresce tratteggia un bel ritratto a tutto tondo di una
grande (nel senso di articolata) famiglia siciliana. Certo, come ribadisce in
nota, non è un’autobiografia, ma, ed è ovvio, non può che contenere anche
rimandi personali. Uno scrittore non può alienarsi da sé e sicuramente ci sarà
sempre, più o meno palese, del sé in quello che scrive. Quindi vediamo Palermo,
ma anche la campagna dove Agata per un certo periodo va a vivere con i nonni
paterni. Vediamo la debole madre, che non sarà mai capace di capire la figlia.
Ma vediamo anche la forte bisnonna, che, pur proprietaria di terre, le lavora
con i contadini. Ed il nonno Sebastiano, medico di campagna perché rifiutò la
sottomissione alle mafie palermitane. E le zie gemelle, che, parallelamente,
avranno ognuna la loro mastectomia. Altra cifra ricorrente, che Sant’Agata è
anche protettrice delle donne con tumore al seno. Poi Agata cresce, rompe con
la madre, definitivamente. E va in continente con il padre magistrato, si
laurea in medicina e si specializza in ginecologia (questa altra congiunzione
con la scrittrice). Ma decide ad un certo punto di tornare a Palermo. Da qui,
il romanzo affronta la parte più difficile. Le losche tresche del maschio
siciliano che irretiscono Agata e la fanno piombare in un vortice di abbandoni
e di esaltazioni. E qui viene un po’ meno la fluidità del racconto, che si fa
intricato, in un crescendo, anche erotico a volte, ma sembra quasi con un
malessere, un disagio di fondo che ne avvelena la vita. Agata non riesce a
razionalizzare i suoi impulsi e cede sempre più al “macho” Santino, benché
senza speranze e viepiù sposato. Si scende sempre più in basso ed in buio,
finché anche Agata subirà la botta della santa. Da qui riparte una narrazione
più agile. Sento più empatia con lei. Con i suoi tentativi di avere altre
storie, e le difficoltà di essere accettata e di accettarsi. Ma torneranno le
minne di Sant’Agata. E la prua della barca in balia delle onde volgerà verso
momenti diversi e… Ma non voglio dire tutto, che anche il finale mi è piaciuto,
l’ho trovato ben conseguente al resto. Un libro insomma che, con i suoi alti e
bassi, celebra la vita in tutte le sue forme, che omaggia il seno come ‘fonte
di nutrimento per i bambini, fonte di passione per gli adulti, fonte di morte
per molte (troppe) donne, fonte di ispirazione per uno dei dolci tipici della
tradizione siciliana’. Buona cassatella a tutti.
“A un certo punto della vita il tempo corre
veloce e la maturità sta in attesa dietro l’angolo. Io non mi sono accorta di
essere diventata adulta. Il ricordo della mia infanzia è così vivido e presente
che non sono ancora pronta.” (197)
Chiara Gamberale “La zona cieca” Bompiani euro 8,90 (in realtà,
scontato 6,68 euro)
[A: 02/06/2011 – I: 26/01/2012 – T: 28/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 258;
anno: 2006]
Ci sono, a volte, elementi
marginali che ti mettono in una disposizione d’animo da accogliere con
benevolenza anche cose non eccelse. Questo mi è successo con questo primo
romanzo letto di Chiara Gamberale. Ne avevo letto racconti, e la loro
scorrevolezza mi ha portato ai suoi romanzi. Qui, l’imprevedibile. Che la prima
pagina del romanzo è occupata dalla descrizione della finestra di Johari. Una
finestra che per due anni ha accompagnato settimanalmente il mio percorso psicologico
sulle tracce di me stesso. Ed una simile coincidenza mi ha fatto leggere con un
occhio comunque di piacere un libro che, devo purtroppo confessare, non mi è
piaciuto come i racconti. E che ovviamente, invece, piacque al pubblico tanto
da prendere un Campiello nel 2008. Inciso, per chi non la conoscesse, la
finestra di Johari è una rappresentazione grafica della conoscenza e della
conoscibilità. È l’intersezione di diversi piani: quello che so e che non so di
me stesso, quello che gli altri sanno e non sanno di me. Alla fine troviamo noi
stessi espansi in quattro zone: la zona conosciuta, la zona privata, la zona
inconscia e la zona cieca. Ecco proprio su questa lavorammo molto. E su questa
lavora il testo della Gamberale. La parte di noi che noi stessi non conosciamo
ma che è visibile agli altri e che gli altri ci rimandano. Saltando ora dal
personale (cui non ritorno) al testo, da queste premesse si sviluppa comunque
un interessante intreccio romanzesco. Incentrato principalmente su Lidia,
trentenne conduttrice radiofonica di un programma intitolato “Sentimentalisti
Anonimi”, e sul suo percorso di vita. Durante lo svolgimento ne apprendiamo
brani, anche non organici, sul suo difficile rapporto con il cibo e sul suo
ricovero in un ospedale psichiatrico a seguito di una lunga crisi. Ora ne è
fuori, anche perché si aggrappa al suo rapporto con il quarantenne scrittore
Lorenzo. E questo è l’altro corno del romanzo. Che si incentra e si concentra
sul loro rapporto e su loro due. Soprattutto su chi sia questo Lorenzo che
sfugge a tutto, non affronta responsabilità, esce da un matrimonio dove la
ex-moglie lo lascia per un’altra donna, e lui risponde ad ogni loro richiamo.
Ogni volta che Lidia può (sembra poter) avere un problema, lui si nega. Va con
tutte le donne possibili, pur dicendo di avere un rapporto speciale con Lidia.
Ma è poi la realtà? Oppure sono le sue fantasie di uomo che non sa affrontarsi?
È vero che la tradisce, ma così spesso come vuol far credere? Lidia, in un
momento di sincerità verso di se, si domanda impaurita se tutto questo male che
le viene da Lorenzo (tradimenti, inaffidabilità e altro) sia compensato da qualcosa.
E trova una struggente pagina di elenchi di cose che non esisterebbero senza
Lorenzo. Viaggi, scoperte, libri, musiche, pensieri. Lorenzo è un vulcano, ma
un vulcano – giullare che salta qua e là, fermandosi solo quando si trova di
fronte alle sue angosce. Che affronta solo usando sostanze alteranti (canne,
coca, alcool). All’ennesimo tradimento di Lorenzo, Lidia decide di staccare la
spina di questo amore da spirale funesta. Ma sarà breve lo spazio di libertà,
che il loro gioco di attrazione li porterà di nuovo ad orbitare nello stesso
cielo. Lidia prova a svelare a Lorenzo quella zona cieca di Lorenzo stesso. Ma
commette l’errore di voler fare da demiurgo a Lorenzo, quando sappiamo che quel
percorso va sì portato avanti con gli altri. Ma bisogna volerlo ed accettarlo
(ahi, quanto ci si mise per un piccolo passo!). Il finale (che non svelo) mi è
piaciuto con quei risvolti allegro – amari ma anche possibili e ribaltabili. Un
finale aperto, forse; ma forse no. Non mi è piaciuta invece l’idea
dell’intervento di un tal Brian (vero? finto? entrambi?) che si installa nel
romanzo e cerca di tirarne fuori una parte raziocinante, anche se dice di
scrivere le sue mail da un monastero tibetano della campagna toscana. Interessanti
gli intarsi con le trasmissioni radiofoniche di Lidia e gli interventi dei
radioascoltatori (che ricalcano l’esperienza soggettiva della scrittrice a
Radio24). Meno intrigante il linguaggio, volutamente piano, colloquiale, forse
troppo. Ma l’ho letto bene, scorrevole. Mi ha fatto arrabbiare quando i
personaggi continuavano a fare cose stupide. E soprattutto, forse al di là
delle intenzioni, mi ha fatto pensare. E questo non si può dire di tutte le
cose che si leggono. Un ultimo appunto. Alla fine mi accorgo che la trama è
praticamente uguale al racconto degli inediti di Federica Bosco intitolato
“L’artista”, tanto che prevedo lo sviluppo del romanzo della Gamberale, e che
puntualmente indovino. Poi guardo le date e vedo che l’impagabile Federica
scrive tre anni dopo l’ottima Chiara. Ne scrive con più sciatteria. Ma è un
plagio, totale!
“Nel lavandino erano accumulati
tutti i piatti e le stoviglie di casa. Li aveva usati finché ce n’erano a
disposizione … poi era passato a quelli di plastica. Che formavano una pila,
assieme a giornali vecchi, … l’edizione originale di Malone muore, un numero di
Diabolik … il manuale di storia dell’arte di Winckelmann.” (34)
“Io penso alle persone solo quando ce le ho davanti agli occhi. Quando
non ci sono è come se si spegnessero.” (51)
“Anche se pensiamo che nessuno può capire quello che stiamo passando
perché nessuno è speciale come noi.” (101)
“È colpa mia se vorrei portare a
letto tutte le donne che vedo?” (190)
Una nuova settimana di passione,
una consegna di lavoro che si preannuncia complicata, e poco tempo da dedicare
ad altro. Però vi penso sempre forte, e continuo a rigirarmi le parole di
Carlo, a cui non ho risposto solo perché mi fanno ancora riflettere.
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