domenica 17 giugno 2012

Festa di donne - 25 aprile 2012

Per questa uscita infrasettimanale (quindi festiva) cosa meglio di un gruppo di donne con dei bei libri da proporre? Mentre, infatti, consiglio, a chi non lo conoscesse, il libro della da poco scomparsa Miriam Mafai, oggi in edicola (“Pane nero”), vado a parlare della buona insegnante di Torino, cui voglio bene al solito per motivi diversi dalla scrittura, così come l’ottima Chiara finale che mi ha fatto fare un bel salto all’indietro. In mezzo, la cantatrice dei call center in una prova interessante e la siciliana, anche lei che mi prende per mano e mi fa viaggiare in quei paesi incantati della Magna Grecia.
Paola Mastrocola “La gallina volante” TEA euro 8 (in realtà, scontato 5,60 euro)
[in: 29/07/2011 – out: 18/12/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2000]
Finalmente il primo libro della Mastrocola, quello che all’uscita dieci anni fa vinse il Premio Calvino per gli inediti. E, un po’ delusi dai suoi racconti, ci siamo subito riconciliati con l’insegnante di Torino, che abbiamo cominciato ad amare ai tempi della Barca nel Bosco. Un bel libro (non bellissimo) che parte da sé (la protagonista Carla è un insegnante di lettere) ma non è né auto-biografico referenziale alla Starnone né un tentativo di mettere in luce ignoranze dei poveri alunni (anche se ci sono accenni, ma non cadano mai nel didascalico). Cronaca di un anno scolastico, un anno come tanti altri. Professori che tirano avanti più per la pensione che per altro. Precari alla ricerca di una cattedra fissa. Altri professori delusi - disillusi che cercano i bandoli dei buoni propositi persi per strada. Madri apprensive che soffocano i figli. Madri che si ricordano dei figli solo durante i colloqui con i professori. Alunni che stanno in classe per non stare altrove, che non sono capaci, neanche in seconda liceo, di mettere le virgole ai posti giusti. Alunni che studiano e non capiscono. Alunni che non studiano e capiscono. E poi c’è casa. Una casa praticamente in campagna, con i conseguenti lunghi tragitto in macchina per andare a scuola a Torino (ma forse in periferia). Una casa con il marito Mario, professore di matematica alle prese con i nuovi computer, e soprattutto con quel mostro appena uscito (il libro è di 10 anni fa) del sistema operativo Windows ed i suoi menu ed i suoi click. Una casa con i due figli Laura e Marcello, che ci stanno ma non sono al centro della sua vicenda. Con il vicino contadino Isidoro, quello che ha un buon rapporto con la terra e gli animali. E soprattutto con il pollaio. Perché Carla è un’insegnante che non avrebbe voluto fare l’insegnante, e decide, ad un certo punto, di allevare galline. E di coltivare un sogno: farne volare una. In questa ricerca di “vivere un sogno”, certo sarà aiutata da Isidoro, ma soprattutto troverà solidarietà da Tanni, la più intelligente e problematiche delle sue alunne. Ma anche questo rapporto non è trattato “con il buonismo dei professori”, ma per quello che è e che potrebbe essere. Perché Carla è anche una donna, un essere umano. Ed anche Tanni. Ognuna con i propri problemi, e con i propri modi di uscirne fuori. Ma tanto faranno, che riusciranno a portare una gallina al concorso italiano di galline campioni. Non vi dirò come finirà, nessuno dei tanti problemi che certamente vi sarete posti ora: vincerà il premio la gallina? Riusciranno a comunicare Carla e Tanni? Come andrà a finire con il preside rompino? E con le madri, le professoresse, il marito, Isidoro? Non sono questi gli elementi importanti. È importante il messaggio, di avere un sogno, pur se pazzesco, ma per quello lavorare, lottare. Certo, senza dimenticare il contesto. Questo mi è piaciuto, il fatto di non inventarsi soluzioni estreme. Tipo buttare tutto all’aria, lasciare tutto, mollare qua e là. No, Carla cerca di tenere in piedi quello che si può. Perché lei è il suo sogno, ma è anche Mario, che cerca sempre i suoi pinoli che invece sono pistacchi, è l’insegnamento (e sono interessanti i tagli che fa sui suoi modi di interpretare la missione di professore; tipo quel perdere quasi tutta la prima ora del primo giorno di scuola per fare un appello intelligente e vedere chi sono questi venti ragazzi e ragazze che ci troviamo davanti per tutto un anno), è il rapporto con Isidoro. Insomma, noi siamo molte cose, e la nostra unità si trova solo non dimenticandocene pezzi per strada. Potremmo vincere, potremmo essere sconfitti, ma in un caso e nell’altro ci saranno sempre momenti da ricordare. E per quelli viviamo ed andiamo avanti. Certo, alcune parti sono lente, ogni tanto parte un po’ la testa (un po’ come nella seconda parte della Barca nel bosco), ma è un libro che mi ha scaldato queste prime notti invernali.
“Sono bravi gli studenti anni Novanta… puoi venire a dirgli qualsiasi cosa, se la bevono come niente…. Santa passività!” (50)
“Mia madre mi diceva sempre che i giovani vanno aiutati perché non sono stupidi, sono solo giovani.” (150)
Michela Murgia “Accabadora” Einaudi s.p. (regalo natalino di Nicoletta)
[A: 01/01/2012 – I: 12/01/2012 – T: 13/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 164; anno: 2009]
Ho fatto bene ad insistere sulla Murgia. Dopo aver letto il racconto inedito del Corriere, che mi era discretamente piaciuto, ho chiesto la conversione del regalo di Nico nel libro della sarda. Ed ha confermato le prime sensazioni. A parte che la quarantenne di Cabras ha anche scritto quel delizioso libretto (“Il mondo deve sapere”) che non ho letto ma di cui ho visto il film che ne fu tratto da Virzì (“Tutta la vita davanti”, altrettanto delizioso ed ahi quanto amaro), e già questo me la mette in buona prospettiva. Qui, come nel racconto, torna alle sue radici, alla sua terra. E nonostante le paure che confessa alla fine sull’uso dei termini dialettali che a volte non sono immediatamente chiari (ma d’altra parte chi è aduso a Camilleri ha fatto il callo), avendola vinta (la paura), il risultato è di buon livello (e senz’altro superiore alle ultime deludenti coeve letture). La storia di Maria (ma quante ce ne sono nei libri che leggo) che la madre “vende” ala zia Bonaria (zia in senso di rispetto, che non sono parenti) e che quest’ultima alleva e cura come e più di una figlia, ci prende fin dalle prime pagine, e ad un certo punto non mi ha più mollato, tanto che sono andato avanti a leggere per molta parte della notte. Perché l’interesse sulla sorte e la storia di Maria cresce man mano che si intrecciano le storie della cittadina di Sereni. Della scoperta, ma fin ad un certo punto mai palese, dello strano mestiere della zia, l’accabadora, quella che accompagna la fine (e capirete leggendolo che bell’ossimoro con zia Bonaria). Delle meschinità della famiglia d’origine di Maria, delle sorelle grandi che la mortificano, della madre che la prende anche in giro perché studia (per poi rivendersi come sue le spiegazioni che le da Maria). Dell’iniziale ingenuità di Andrìa, che però alla fine capisce e cresce. Dell’intemperanza pericolosa e distruttiva di Nicola, che lo porterà a quella fine che segna una chiave di volta della vicenda. Che darà un senso al prima, che spiegherà il poi, e che servirà a Maria, alla fine, a riconciliarsi ed a capire fino in fondo l’umanità dolente di zia Bonaria. Certamente una svolta all’inizio drammatica, ma che alla fine farà crescere tutti (ed in fondo la crescita è sempre un dramma). Della dolcezza e dei timori del sedicenne torinese Piergiorgio, che consentirà a Maria di vedere dentro sé stessa e dentro il suo rapporto con la zia. Due cose, sulle altre, mi hanno più preso nel romanzo. La capacità di Michela Murgia di raccontare storie inanellate nella storia (come avevo intuito nel racconto del Corriere). Che sono tutti piccoli racconti, quelli che si intrecciano. I racconti contadini della vendemmia e delle faide. I racconti delle veglie per i morti. I racconti degli emigranti sardi, quelli che vanno per guerre e quelli che vanno per lavoro. L’altra è la mancanza di giudizi che l’autrice riesce a comunicare con il suo modo di raccontare e di farci partecipi. Sarebbe stato facile, ma deleterio per la bellezza del narrato, metterci dentro giudizi su tutto. Sulla signora Listru che vende la figlia. Sull’accabadora Bonaria. Perfino su Piergiorgio. Invece tutto scorre, gli avvenimenti, i “fatti” oserei dire, ci vengono davanti, li guardiamo. E cerchiamo di capirli. Come cerchiamo di capire perché hanno spostato il muro in pietra per aver più terra. E perché la famiglia di Andrìa non si ribella. Perché Bonaria si ribella alla richiesta di uno e non alla richiesta di un altro. A proposito, racconto nel romanzo, anche la storia di Raffaele e Bonaria è ben situata. Ma dicevamo dei giudizi. Sarebbe stato facile. Ma apprezzo invece lo sforzo di Michela di farci vedere le cose, di capire i motivi, anche se non si riescono a spiegare. Uno sforzo di empatia che sarebbe utile fare in molti per capire cose su cui, a volte, si preferisce emettere giudizi. Che in un certo senso è più facile, e certamente molto più distante. Capire non è mai facile.
Giuseppina Torregrossa “Il conto delle minne” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato 6,65 euro)
[A: 29/07/2011 – I: 22/01/2012 – T: 24/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 315; anno: 2009]
Un’altra interessante “prima”. Bene (e molto) la prima metà, mi ha lasciato freddo da lì per un'altra metà, e di nuovo bene con lode l’ultimo quarto. Comunque pieno di note positive e di una scrittura che a me è risultata piacevole. Intanto si svolge a Palermo, almeno per la maggior parte del tempo. Una città che ho riscoperto da qualche anno e che trovo sempre più interessante. Quando le due Agate, nonna e nipote, girano per la città, mi sembra di stare anch’io con loro. Al Piazzale della Marina, al giardino Garibaldi con gli alberi dalle radici volanti. Tra palazzo Abatellis e Palazzo Steri. Giù nella Kalsa e dentro la chiesa della Gancia. Ci mancava solo che passavano per S. Maria alla Catena, ed avrei fatto follie. Sicuramente follie golose, che, benché in Palermo, la famiglia di Agata (soprattutto le donne, o almeno buona parte) è devota appunto alla Santa di Catania, la Santuzza, e per festeggiarla, ogni anno, il 5 febbraio preparano le “minne di S. Agata”. Certo un dolcetto dolce, dato che sono cassatine di ricotta con cioccolato e canditi, ricoperte di glassa e con una ciliegina in cima. In cima che, ovviamente sono a forma di seno, come non può che essere data la Santa. E se ne devono fare e mangiare sempre in numero pari, che altrimenti il seno ne risente. E tutta la prima parte è pervasa da questo senso siciliano – lirico – goloso, dove la scrittrice, tra ricordi di anziane e sé stessa che cresce tratteggia un bel ritratto a tutto tondo di una grande (nel senso di articolata) famiglia siciliana. Certo, come ribadisce in nota, non è un’autobiografia, ma, ed è ovvio, non può che contenere anche rimandi personali. Uno scrittore non può alienarsi da sé e sicuramente ci sarà sempre, più o meno palese, del sé in quello che scrive. Quindi vediamo Palermo, ma anche la campagna dove Agata per un certo periodo va a vivere con i nonni paterni. Vediamo la debole madre, che non sarà mai capace di capire la figlia. Ma vediamo anche la forte bisnonna, che, pur proprietaria di terre, le lavora con i contadini. Ed il nonno Sebastiano, medico di campagna perché rifiutò la sottomissione alle mafie palermitane. E le zie gemelle, che, parallelamente, avranno ognuna la loro mastectomia. Altra cifra ricorrente, che Sant’Agata è anche protettrice delle donne con tumore al seno. Poi Agata cresce, rompe con la madre, definitivamente. E va in continente con il padre magistrato, si laurea in medicina e si specializza in ginecologia (questa altra congiunzione con la scrittrice). Ma decide ad un certo punto di tornare a Palermo. Da qui, il romanzo affronta la parte più difficile. Le losche tresche del maschio siciliano che irretiscono Agata e la fanno piombare in un vortice di abbandoni e di esaltazioni. E qui viene un po’ meno la fluidità del racconto, che si fa intricato, in un crescendo, anche erotico a volte, ma sembra quasi con un malessere, un disagio di fondo che ne avvelena la vita. Agata non riesce a razionalizzare i suoi impulsi e cede sempre più al “macho” Santino, benché senza speranze e viepiù sposato. Si scende sempre più in basso ed in buio, finché anche Agata subirà la botta della santa. Da qui riparte una narrazione più agile. Sento più empatia con lei. Con i suoi tentativi di avere altre storie, e le difficoltà di essere accettata e di accettarsi. Ma torneranno le minne di Sant’Agata. E la prua della barca in balia delle onde volgerà verso momenti diversi e… Ma non voglio dire tutto, che anche il finale mi è piaciuto, l’ho trovato ben conseguente al resto. Un libro insomma che, con i suoi alti e bassi, celebra la vita in tutte le sue forme, che omaggia il seno come ‘fonte di nutrimento per i bambini, fonte di passione per gli adulti, fonte di morte per molte (troppe) donne, fonte di ispirazione per uno dei dolci tipici della tradizione siciliana’. Buona cassatella a tutti.
“A un certo punto della vita il tempo corre veloce e la maturità sta in attesa dietro l’angolo. Io non mi sono accorta di essere diventata adulta. Il ricordo della mia infanzia è così vivido e presente che non sono ancora pronta.” (197)
Chiara Gamberale “La zona cieca” Bompiani euro 8,90 (in realtà, scontato 6,68 euro)
[A: 02/06/2011 – I: 26/01/2012 – T: 28/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 258; anno: 2006]
Ci sono, a volte, elementi marginali che ti mettono in una disposizione d’animo da accogliere con benevolenza anche cose non eccelse. Questo mi è successo con questo primo romanzo letto di Chiara Gamberale. Ne avevo letto racconti, e la loro scorrevolezza mi ha portato ai suoi romanzi. Qui, l’imprevedibile. Che la prima pagina del romanzo è occupata dalla descrizione della finestra di Johari. Una finestra che per due anni ha accompagnato settimanalmente il mio percorso psicologico sulle tracce di me stesso. Ed una simile coincidenza mi ha fatto leggere con un occhio comunque di piacere un libro che, devo purtroppo confessare, non mi è piaciuto come i racconti. E che ovviamente, invece, piacque al pubblico tanto da prendere un Campiello nel 2008. Inciso, per chi non la conoscesse, la finestra di Johari è una rappresentazione grafica della conoscenza e della conoscibilità. È l’intersezione di diversi piani: quello che so e che non so di me stesso, quello che gli altri sanno e non sanno di me. Alla fine troviamo noi stessi espansi in quattro zone: la zona conosciuta, la zona privata, la zona inconscia e la zona cieca. Ecco proprio su questa lavorammo molto. E su questa lavora il testo della Gamberale. La parte di noi che noi stessi non conosciamo ma che è visibile agli altri e che gli altri ci rimandano. Saltando ora dal personale (cui non ritorno) al testo, da queste premesse si sviluppa comunque un interessante intreccio romanzesco. Incentrato principalmente su Lidia, trentenne conduttrice radiofonica di un programma intitolato “Sentimentalisti Anonimi”, e sul suo percorso di vita. Durante lo svolgimento ne apprendiamo brani, anche non organici, sul suo difficile rapporto con il cibo e sul suo ricovero in un ospedale psichiatrico a seguito di una lunga crisi. Ora ne è fuori, anche perché si aggrappa al suo rapporto con il quarantenne scrittore Lorenzo. E questo è l’altro corno del romanzo. Che si incentra e si concentra sul loro rapporto e su loro due. Soprattutto su chi sia questo Lorenzo che sfugge a tutto, non affronta responsabilità, esce da un matrimonio dove la ex-moglie lo lascia per un’altra donna, e lui risponde ad ogni loro richiamo. Ogni volta che Lidia può (sembra poter) avere un problema, lui si nega. Va con tutte le donne possibili, pur dicendo di avere un rapporto speciale con Lidia. Ma è poi la realtà? Oppure sono le sue fantasie di uomo che non sa affrontarsi? È vero che la tradisce, ma così spesso come vuol far credere? Lidia, in un momento di sincerità verso di se, si domanda impaurita se tutto questo male che le viene da Lorenzo (tradimenti, inaffidabilità e altro) sia compensato da qualcosa. E trova una struggente pagina di elenchi di cose che non esisterebbero senza Lorenzo. Viaggi, scoperte, libri, musiche, pensieri. Lorenzo è un vulcano, ma un vulcano – giullare che salta qua e là, fermandosi solo quando si trova di fronte alle sue angosce. Che affronta solo usando sostanze alteranti (canne, coca, alcool). All’ennesimo tradimento di Lorenzo, Lidia decide di staccare la spina di questo amore da spirale funesta. Ma sarà breve lo spazio di libertà, che il loro gioco di attrazione li porterà di nuovo ad orbitare nello stesso cielo. Lidia prova a svelare a Lorenzo quella zona cieca di Lorenzo stesso. Ma commette l’errore di voler fare da demiurgo a Lorenzo, quando sappiamo che quel percorso va sì portato avanti con gli altri. Ma bisogna volerlo ed accettarlo (ahi, quanto ci si mise per un piccolo passo!). Il finale (che non svelo) mi è piaciuto con quei risvolti allegro – amari ma anche possibili e ribaltabili. Un finale aperto, forse; ma forse no. Non mi è piaciuta invece l’idea dell’intervento di un tal Brian (vero? finto? entrambi?) che si installa nel romanzo e cerca di tirarne fuori una parte raziocinante, anche se dice di scrivere le sue mail da un monastero tibetano della campagna toscana. Interessanti gli intarsi con le trasmissioni radiofoniche di Lidia e gli interventi dei radioascoltatori (che ricalcano l’esperienza soggettiva della scrittrice a Radio24). Meno intrigante il linguaggio, volutamente piano, colloquiale, forse troppo. Ma l’ho letto bene, scorrevole. Mi ha fatto arrabbiare quando i personaggi continuavano a fare cose stupide. E soprattutto, forse al di là delle intenzioni, mi ha fatto pensare. E questo non si può dire di tutte le cose che si leggono. Un ultimo appunto. Alla fine mi accorgo che la trama è praticamente uguale al racconto degli inediti di Federica Bosco intitolato “L’artista”, tanto che prevedo lo sviluppo del romanzo della Gamberale, e che puntualmente indovino. Poi guardo le date e vedo che l’impagabile Federica scrive tre anni dopo l’ottima Chiara. Ne scrive con più sciatteria. Ma è un plagio, totale!
 “Nel lavandino erano accumulati tutti i piatti e le stoviglie di casa. Li aveva usati finché ce n’erano a disposizione … poi era passato a quelli di plastica. Che formavano una pila, assieme a giornali vecchi, … l’edizione originale di Malone muore, un numero di Diabolik … il manuale di storia dell’arte di Winckelmann.” (34)
“Io penso alle persone solo quando ce le ho davanti agli occhi. Quando non ci sono è come se si spegnessero.” (51)
“Anche se pensiamo che nessuno può capire quello che stiamo passando perché nessuno è speciale come noi.” (101)
“È  colpa mia se vorrei portare a letto tutte le donne che vedo?” (190)
Una nuova settimana di passione, una consegna di lavoro che si preannuncia complicata, e poco tempo da dedicare ad altro. Però vi penso sempre forte, e continuo a rigirarmi le parole di Carlo, a cui non ho risposto solo perché mi fanno ancora riflettere.

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