Cesare Pavese “La luna e i falò” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out:
09/12/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 1950]
Un
poco meno di bello, ma sicuramente interessante. Certo è pieno dell’atmosfera
di più di 60 anni fa, quando Pavese lo scrisse. Ma letto oggi, pochi giorni
dopo il libro di ricordi di Bianchi, ritrovo atmosfere e sensazioni e moderna
eticità. Pavese fin dalle prime righe ci fa ritrovare nelle Langhe piemontesi,
tra viti e campi. E non con l’occhio del ricordo dopo cinquanta anni, come
Bianchi, ma con l’immediatezza della contemporaneità. Certo, anche Pavese fa
un’operazione di memoria, saltando su e giù per il tempo. Ma lo fa per dar
corpo e voce ad un discorso più ampio. Un discorso che parte dalla terra, vola
per il mondo, toccando anche l’America. E poi ritorna lì alle radici. Quelle di
uno che radici non ha, perché l’io narrante è, come si diceva un tempo, figlio
di NN. Accolto da contadini, vive la vita della terra fino ai dodici anni,
quando per alterne fortune i contadini devono tornare in città. Lui allora va a
fare il servo alla Mora, il maniero dell’epoca. Quello dei signori. E delle
signorine. Irene e Silvia, che fanno il bello ed il cattivo tempo (sono più
grandi di 7-8 anni). Vanno con i maschi, e combinano guai. Lui si accompagna
con Nuto, che ha 3 anni più di lui e suona il clarino. Poi anche la Mora andrà
in rovina, per scialacquature varie. Ma lui è già soldato, a Genova. Poi prende
il piroscafo per l’America. Arriverà, sempre spinto dal fuoco interno, fino in
California. Farà fortuna, almeno sembra. E sentirà l’urgenza di tornare. Alle
radici, a ritrovare cosa non si sa, ma a provarci. E riviene tra i bricchi e le
gaggie. Trovando il cresciuto Nuto, che abbandonato il clarino, ora lavora il
legno. E gli fa da mentore per le terre di allora. E per le persone di allora,
che sono morte, che sono cambiate. La sua vecchia terra ora è di uno
sciamannato contadino, rozzo ed ignorante. Che ad un certo punto va fuori di
testa, bruciando tutto ed impiccandosi. Lasciando solo il povero Cinto, bambino
e storpio. Lui, Anguilla come lo chiamavano da giovane, lo prende a ben volere,
e convince Nuto a prenderlo a bottega. E dove le feste ed i falò di San Giovanni,
tornerà verso Genova dove esercita i suoi mestieri finanziari. Ma prima avrà un
ultimo lungo insight con Nuto, che darà modo al sodale di tanti discorsi di
fare un salto di pochi anni indietro. Alla guerra che lì c’è stata davvero, e
non sui giornali come chi stava in America. E gli racconta barbarie e ripicche,
fascismi e brigate partigiane. Fino alla morte di Santina, forse repubblichina
o … Lasciamo i punti di sospensione per darvi qualche voglia di leggere. Non
come i curatori (barbari!) della collana, che mettono l’ultima frase del libro
nella quarta di copertina. Una cosa “sempia” direbbe la Ginzburg. Tornando al
testo ed all’autore, alla fine viene fuori, per me, una grande Odissea, dove
Pavese, mutandosi nell’io narrante, va per il mondo a seguire “virtude e
conoscenza”. Poi torna e con Nuto (un po’ Penelope, un po’ Virgilio) guarda il
mondo che è lì. Nuto è la versione “etica e corretta” del sì che vorrebbe
essere. Non senza peccato, ma con un’interna dirittura morale che porta Nuto a
traversare il mondo, ad agire e ad indignarsi per le cose storte. Pavese si
indigna, ma poi molla. Non trova il modo di essere, di agire. Si sente la sua
mancanza. Si sente che è stanco. E sappiamo che da lì a poco, questa stanchezza,
questa impossibilità lo travolgerà fino a togliersi la vita. Ma rimane il
messaggio, quello che poi me lo fa ricollegare agli scritti di Enzo Bianchi: se
non si può aggiustare il mondo - come vorrebbe la coscienza sociale di Nuto,
che infine si scopre propria anche del protagonista -, almeno bisogna conoscere
i ritmi, la terra, gli uomini e le loro storie, più spesso disperate, sempre
inquiete. Sono contento, al fine, di avere avuto la costanza di leggerlo, anche
dopo tanti anni.
“Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima
costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare
le montagne.” (18)
“Nuto disse ai ragazzi di lasciare la
lucertola. – Lasciale vivere le bestie – aveva detto – si comincia così e si
finisce con scannarsi e bruciare i paesi.” (22)
“Sono libri. Leggici dentro fin che puoi.
Sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.” (98)
“I ragazzi, le donne, il mondo, non sono
mica cambiati. [Fanno cose diverse] eppure la vita è la stessa, e non sanno che
un giorno si guarderanno in giro, e anche per loro sarà tutto passato.” (125)
Giorgio Bassani “Il giardino dei Finzi-Contini” Repubblica Novecento
euro 4,90
[A: 2004 – I: 10/01/2012 – T: 12/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 252;
anno: 1962]
Non mi ricordo (ma non credo) se
lo avevo letto in gioventù sulla scia del film, che non ricordo particolarmente
bello, se non per una rimembranza di Dominique Sanda (mentre avevo del tutto
rimosso i personaggi maschili, sia il protagonista Lino Capolicchio, che le due
‘spalle’ Helmut Berger e Fabio Testi). Comunque ora, letto o riletto, non ne ho
avuto un’impressione travolgente. Certo, si sentono i cinquanta anni trascorsi
sulla scrittura. Ma il tono e la penna di Bassani sono sufficientemente senza
età da non risultare (troppo) pesanti. È una storia, se vogliamo una bella
storia, con due piani di lettura distinti, ed entrambi di interesse. Si legge anche
in maniera scorrevole, che non ci si arena sulla pagina, come in altre
scritture. Prende un po’ di testa, ma poco di più. Prende di testa uno dei
piani di lettura, quello mi viene da dire esterno e di contorno. La fotografia
di un momento di una generazione che, di lì a poco, sarà pesantemente
falcidiata. I giovani che giocano a tennis nel giardino della grande famiglia
ebrea ferrarese del Finzi-Contini, di lì a poco saranno travolti (come
generazione, anche se non come singolo caso). Chi, come gli ebrei finirà
dolentemente nei campi di sterminio. Chi verrà preso dalla guerra, mondiale o
civile che sia. E tutti quei giovani nati durante la prima guerra mondiale tra
il ’15 e il ’20 saranno segnati per sempre da queste vicende. Questa la parte,
la lettura che più mi è rimasta, che ancora mi fa pensare a momenti quando si
chiudevano gli occhi per non vedere. E quando si decise ad aprirli, era ormai
tardi. Speriamo che sia una lezione appresa, anche se mi guardo intorno ora e
mi sembra che in gran parte siamo sempre lì, a far finta di non vedere ed a
seguire il pifferaio per gettarci giù dalla rupe. L’altro, il livello di
lettura di formazione mi rende meno partecipe. Forse perché oltre i 50 anni di
scrittura, sono anche passati altri 25 anni di comportamenti. Ed allora cerco
di capire il comportamento e le interazioni tra questi giovani tra i 22 ed i 25
anni, ma non entro in sintonia. Vedo il protagonista muoversi tra la casa
paterna e la casa dei Finzi-Contini. Vedo il patriarca Ermanno studioso di
ebraicità veneta e ferrarese. Vedo Alberto con la sua omosessualità latente e
la malattia che si profila all’orizzonte. Vedo Giampi tecnico chimico infatuato
di Stalin. E soprattutto Micol, la bella, la bionda, l’anima che muove il
piccolo mondo dei giovani intorno al campo da tennis, e nel grande giardino
avito, al telefono e per lettera, a casa ed a Venezia. Ma non coinvolgono.
Sembrano da un lato tanti ‘perditempo’ danarosi che non sanno di andare al
macello. Poi sembrano pensosi e consci del loro ruolo. Ma perché Micol prima
sfarfalleggia, poi fugge, poi rimbecca. Perché, cosa vuole dal protagonista,
cosa si attende? 200 pagine che ad un certo punto girano e rigirano intorno ad
un bacio dato, o rubato, e ad un altro da dare. La penna di Bassani ha certo la
grande capacità di dipingere le figura con pochi tratti. Non a caso ha quasi
sempre scritto racconti, ed anche questo si inserisce nel grande filone delle
sue storie ferraresi (ad esempio, verso la fine c’è un passaggio – citazione
del suo precedente romanzo “Gli occhiali d’oro”). Ecco, ora scrivendone ne
recupero questo tratto che mi sembra sfuggire. Alla fine c’è l’affresco della
provincia italiana, con una grossa punta d’affetto per Ferrara, per i suoi
viali, la sua storia (e come non rimanere colpiti dalle cinque lettere che il
Carducci scrive a nonna Josette sulla salama da sugo!). Ma ogni tanto verrebbe
voglia di prendere il protagonista e sbatacchiarlo un po’. Si lascia troppo
vivere, quasi galleggiando, mentre ogni tanto ci vorrebbero delle belle
bracciate nel mare dell’umanità. Ma è un bel racconto, e merita di essere
letto, per sé ed anche per la figura comunque interessante che è stata Giorgio
Bassani (non a caso per anni presidente di ‘Italia nostra’).
“Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose
di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora … meglio morire da
giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e
risuscitare… Capire da vecchi è brutto … non c’è più tempo per ricominciare da
zero.” (242)
Alberto Moravia “Gli indifferenti” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 15/03/2012 – T: 21/03/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 287;
anno: 1929]
Non mi ero mai cimentato in un
romanzo di Moravia (solo qualche racconto e resoconto di viaggio). E devo dire
che avrei fatto bene a continuare con la mia crassa ignoranza. Ma si sa, quando
ci si mette in testa che ci sono libri che vanno letti, noi testardi
tori, difficilmente ci tiriamo indietro. Ma dopo aver letto quello che viene
considerato una pietra miliare della sua produzione (e poi ci torneremo sui
perché di tutto ciò) capisco e concordo con le motivazioni dell’Accademia
svedese che mai volle concedere il Nobel al nostro (che etichetta le opere di
Moravia come pervase da una generale monotonia). Ed in effetti, mi sono
decisamente annoiato a seguire le vicende di Mariagrazia e dei suoi due figli
Michele e Carla, nonché del suo amante Leo e della sua amica Lisa. Certo sono
passati più di ottanta anni, e la vicenda è funzionale al momento storico in
cui è stata scritta ed ambientata. Ed inoltre Moravia ha 22 anni quando la
scrive, nel pieno del giovanile ardore. Ma mi fa l’effetto come credo farà
verso la fine di questo secolo se qualcuno si mettesse a leggere 3MSC.
Monotono, scontato, pieno di descrizioni inutili, pesanti, tanto per riempire
la pagina. Con personaggi che sì sono “indifferenti”, ma tuttavia lo sono anche
per me. Non mi hanno mai coinvolto, in nessun sentimento. Perfino di odio, che
almeno è un sentimento forte. I tormenti di Michele mi sono altamente
indifferenti, così come il suo modo di incartarsi intorno alle parole ed alle
azioni che pensa di compiere e non compie. Le angosce stralunate di Carla che
per noia, per indifferenza finirà (forse) per far del male alla madre, ma che
lo fa senza dubbio a se stessa. La paura di invecchiare delle signore di una
cera età, che in modo diverso cercano di esorcizzarla: Lisa pensando che un amante
giovane possa ringiovanire la sua carne e Mariagrazia cercando i modi per
tenere legato a se l’amante vecchio. In un certo senso, è quasi più
comprensibile il personaggio, tutto in negativo, di Leo. Che si abbarbica come
una cozza gigante alla famiglia della sua amante, ne succhia i soldi e le
proprietà, finendo per divorare anche la giovane Carla, quella che “potrebbe
essere sua figlia”, che ha visto crescere, e che ora vuol far preda della sua
cupidigia. Questi sono i cinque personaggi, che in una Roma senza tempo, ma ben
collocato nel tempo dello scrivere, riempiono di nulla le quasi trecento
pagine. Dall’intreccio così tipicamente “alla Invernizio”: Leo era l’amante di
Lisa, che però non è particolarmente ricca; Lisa è amica dall’agiata
Mariagrazia; Leo lascia Lisa per Mariagrazia, ne foraggia la vita, prendendo
pian piano in cambio i possedimenti, la casa, insomma tutto, tanto che in una
decina di anni si ritrova padrone di tutto; talmente padrone (e stufo
dell’ormai cotta amante) che decide per la carne fresca della di lei figlia
Carla; Carla che aspetta un inopinato principe, ma che decide di darsi a Leo
“tanto per vedere se succede qualcosa”; e Michele che osserva tutto questo
disfarsi, pensando dentro di se di ribellarsi, riempiendosi di parole, di fatti
non fatti, ma finendo (forse) solo nel letto di Lisa. E il girotondo continua
(anche se Schnitzler è ben altra cosa). Su queste dieci righe il nostro Moccia
d’antan costruisce pagine su pagine di un nulla monotono. Privo anche di quella
pulsione erotica che almeno darà un senso alle sue opere successive (ma anche
qui di un erotismo vacuo che non incide né in se stessi né sulla società, come
in altre righe commentano sempre gli Accademici svedesi). Certo, se lo si
colloca nel tempo della scrittura, forse ha più frecce al suo arco. Il ritratto
della vuota borghesia fascista che corre verso il nulla (o forse cammina, che
già correre è un’attività propositiva) potrebbe dare un senso allo scritto. Ma
per essere degno di ricordo e lettura, deve possedere qualità che lo rendono
vivo e fruibile, anche al di là del tempo dello scritto (così come il poco
successivo temporalmente e contemporaneamente letto libro della cripta dei
cappuccini di Roth). Non si può leggere uno scritto e reputarlo degno di nota
soltanto in una prospettiva storica. È ovvio che questo può dare un piacere
intellettuale. Ma privo del sostegno di una scrittura affascinante, rimane
nella testa, senza scendere in nessuno dei cinque umani sensi che ci fanno
apprezzare ed amare la scrittura. Quella che, quando succede, si colloca fuori
dal tempo e dentro il nostro cuore. Non così Moravia. E penso che non ci
ritornerò più.
Dino Buzzati “Il deserto dei Tartari” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 25/03/2012 – T: 27/03/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 192;
anno: 1940]
Fino ad ora avevo letto solo
racconti o raccolti di racconti del milanese d’adozione Dino Buzzati. E si era
sempre sentito parlare, quasi come un eponimo, di questo deserto. Un titolo
diventato emblema di stati fisici e psichici. Ora, letto, ha una sua
ambivalenza. Da un lato conferma la forza interna dell’idea che diviene
simbolo. Dall’altra è comunque un romanzo tutto di testa, che ci fa riflettere
sulla vita (sulla nostra vita) ma non ha la forza di prendere altri sentimenti.
Niente moti, niente tatto, niente gusto, e soprattutto, e men che mai, niente
amore e sentimento. Anche la vicenda, se così possiamo chiamarla, è lineare ed
asciutto. Giovanni Drogo nominato tenente a venti anni, viene destinato alla
famosa (famigerata) Fortezza Bastiani. L’ultimo baluardo di una civiltà, al di
là del quale c’è una grande e desolata pianura, chiamata deserto, da dove si
favoleggia che un tempo ci fu un’invasione di tartari. Fortezza piena di militari,
ognuno con il suo compito, la sua routine, che aspettano succeda qualcosa.
Essendo militari, aspettano una guerra (ma non è un romanzo guerrafondaio). Ed
in quell’attesa, sperata e voluta, passano il tempo, aggrappandosi alla routine
quotidiana. Drogo non lascia grandi affetti o amicizie in città, si accorge
della desolazione del luogo, pensa di poter andare via. Ma dove? A poco a poco,
con piccoli moti dell’anima, piccoli spostamenti progressivi del dispiacere, si
incarta nel tempo della Fortezza. Si accende di volontà quando sembra che ci
sia realmente un nemico. Ma prima sono solo gente che mette pali di confine.
Poi un cavallo. Infine, operai che asfaltano e costruiscono una strada, che si
arresta a pochi chilometri della fortezza. Il tempo trascorre, e mentre Drogo
pensa sempre che ci sia il modo, la possibilità di fare, anche se non muove un
dito in quella direzione, ecco che sono passati più di trenta anni. Ormai è il
comandante in seconda, quasi tutti sono andati via. Drogo si ammala e si avvia
nella china verso la morte, e mentre pensa di rassegnarsi anche a questo, ecco
che in effetti, arriva un nemico. Ma non è più il suo tempo, ha mancato anche
questo, come ha mancato tutti i possibili appuntamenti della vita. E mentre
altri ne saranno beneficiari, lui viene rimandato, incurabilmente malato, a
casa. Perché non è un libro guerrafondaio? Perché Buzzati utilizza la metafora
della vita militare per rappresentare qualcosa ben ordinato, con delle regole,
cui è facile adagiarsi senza domandare. Poteva scegliere altre vicende, altri
scenari, ma questo, in realtà, è proprio il più desolante che si possa avere.
Poteva rifarsi alla vita di uno scrivano che continua a scrivere e ricopiare
pagine su pagine, senza capire cosa siano e perché. Penso alla prima parte di
Bartleby di Melville o a Demetrio Pianelli (in quella magistrale
interpretazione televisiva che ne diede Paolo Stoppa). Ma non è la storia che
importa. Quello che importa è il simbolo. La routine cui aggrapparsi per uscire
dal proprio nulla. Un nemico da inventare per darsi qualcosa cui sperare. La
chiusura degli occhi e di tutti gli altri sensi di fronte alla vita, che per
Buzzati è solitudine e priva di scopo. Talmente priva, che non vale la pena di
sforzarsi per modificare il lento binario che porta fino alla morte. Una
desolazione infinta. Trenta anni nella fortezza, senza neanche aver letto un
libro, soltanto magari qualche partita a carte o a scacchi con gli altri tenenti.
E chissà di cosa vivono poi quei soldati, che neanche hanno avuto un passato di
cultura elementare come gli ufficiali. Come un sogno, vedo passare i settanta
anni dalla scrittura di questo deserto, e vedo Drago e gli altri davanti ad un
televisore a “godersi” Grandi Fratelli, Isole dei Famosi ed altre amenità. Per
fortuna, c’è altro nella vita. Forse la solitudine rimane, ma non si può (non
si deve) fermare le rotelle del proprio cervello. Non dico che tutti, e sempre,
abbiamo dei bei sogni davanti, e la voglia di rischiare per metterli in
pratica. Ma tutti, tutti abbiamo la necessità, interiore, impellente, di dire
fuori dal nostro sé. Non fosse altro, che per essere noi stessi. E non mi
ribattete che spesso ci troviamo davanti muri invalicabili. E non è detto che
si abbia la forza di scalarli, o di aggirarli. Non è quello che importa. È
importante, per il proprio io, capire di essere davanti ad un muro e non far
finta che ci sia sempre qualcuno (magari un tartaro del Nord) che ci viene a
salvare. Tutto, ma non l’ignavia. Mi accorgo di aver fatto un lungo pistolone e
forse anche fuori contesto, ma che volete, questo mi ha ispirato Buzzati. E
questo vi ripropone il vostro narratore di trame.
“Si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono
sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro
può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per
questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la
solitudine della vita.” (160)
“Ha quindici anni da vivere in meno. Purtroppo egli non si sente gran
che cambiato, il tempo è fuggito tanto velocemente che l’animo non è riuscito
ad invecchiare.” (164)
È
tardi, e scrivo solo ora che oggi è stata una giornata, anzi l’ultima di alcune
giornate, importanti per le iniziative di spettacolo solidale organizzate
presso il Nuovo Cinema Palazzo in Roma. Le prove pubbliche dello spettacolo “Ho
sete” delle mie amiche Rosa e Donatella con le musiche di Tommaso, una serie
bravissima di attori e lavoratori dello spettacolo che sarebbe troppo lungo
citare. E non si poteva mancare.
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