Francesco Piccolo “La separazione del maschio” Einaudi euro 11
[in: 05/01/2011 – out:
30/10/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2008]
Sono
molto combattuto da questo libro: mi piace Piccolo ed il suo modo di scrivere
(in genere), mi sono piaciuti dei momenti di questo libro, non mi ha convinto
né coinvolto tutta la parte erotica e/o sessualmente esplicita del libro. E non
perché io sia particolarmente bigotto o altro. Ho solo trovato quei momenti
poco organici allo sviluppo del racconto. Ma non perché non fossero importanti:
un narrare che gioca tutto intorno al sesso difficilmente poteva prescinderne.
È la maniera di esplicitarlo che mi ha staccato dal testo. Non è che non abbia
mai visto una foto porno o letto un racconto erotico. Ma in quei contesti mi
sembrava funzionassero. Qui, quando leggo le acrobazie amatorie del nostro
rimango distante ed un poco disturbato. È probabile (anzi praticamente certo)
che Piccolo volesse proprio creare momenti di antipatia verso il personaggio. O
momenti di allontanamento. Ed ha scelto un modo che è stato per me efficace. Ma
mi ha smontato anche il resto del testo, che alla fine mi risulta poco riuscito.
Anzi, con tutta una sospensione di domande e mancate risposte, che (e mi
dispiace) mi hanno abbassato e di molto il gradimento del testo. Peccato,
perché ci sono momenti di grandi intuizioni (anche se minimali, come nei
momenti di felicità recensito or son qualche mese) e momenti di interessante
riflessione, sopratutto nel rapporto tra il protagonista (direi il maschio) e
la donna (o le donne?). Ho trovato deliziosa la tirata, più volte poi ripresa,
sul cacao ed il cappuccino. Perché prima c’era il cappuccino. Poi qualcuno ha
cominciato a spruzzare del cacao sulla schiuma. Poi ti veniva chiesto se volevi
del cacao. Ora devi essere tu a chiedere un cappuccino “naturale, senza cacao,
grazie!”. E su questa trovata Piccolo da par suo sviluppa discussioni e commenti
interessanti. Come sul ritrovare, lui che per anni non ne aveva avuto bisogno,
in farmacia, come rimedi per dolori e brufoli, rimedi storici, della
giovinezza, ma che sono sempre validi: voltaren e topexan. Mitico! Il tutto
inserito in un lungo monologo da “flusso di coscienza”, dove il nostro si
racconta. E dove soprattutto racconta i suoi rapporti con le donne. Con la
figlia di otto anni Beatrice. Con la moglie compagna di vita Teresa. E con le
donne con cui si accompagna. Ce le svela a poco, a poco. Poi alla fine, viene
fuori un elenco da Casanova di città. Soprattutto con quei rapporti extra ma
stabili. Quello con Valeria, ad esempio, iniziato prima del matrimonio, e che
ancora continua, dopo il suo e il di lei matrimonio con altri. Con Francesca, Silvia,
eccetera, eccetera. Qui entra nel pieno della discussione su amore e sesso. Su
monogamia, poligamia e sensi di colpa. Qui nascerebbe quel fertile momento di
discussione di cui sopra. Noi potremmo riprenderlo, ma lui lo annega nella
mascolinità, nel suo essere più felice (e completo) se non si priva di nulla. E
poi lo sommerge di quelle scene di sesso, forse congeniali al contesto, ma che
mi sono sembrate il più delle volte una forzatura, un’aggiunta (così come avevo
criticato perché non mi sembrava utile quella scena di sesso di Nanni Moretti
in Caos Calmo, tra l’altro sceneggiato proprio da Piccolo). Se riusciamo a
prescinderne, e tornare al filo del romanzo, il protagonista ha molti rapporti.
E vanno bene per quelli saltuari. Lui non chiede molto e le sue donne chiedono
quello che a loro serve. Quello che viene a mancare, è invece, il momento di
rapporto con Teresa e Beatrice, che non possono essere messe sullo stesso piano
delle altre. Con la figlia è vero che ha un ottimo rapporto, che si parlano, ma
non è un caso che Beatrice comincia a denunciare lievi patologie psichiche
quando il rapporto tra lui e Teresa sembra andare in crisi. Questo, vuole dire
che non ci mette tutto il suo possibile. Idem con Teresa. Perché lui è sempre
lì, a prendere, prendere, prendere. Dice di dare, di rifondere con energia
anche verso Teresa, soprattutto dopo aver scopato (non importa se con Teresa,
Valeria, Francesca, eccetera, eccetera). Da come ne narra, mi sembra invece che
sia sempre sul versante egoista del maschio. Posso capire che ci sia bisogno di
una pluralità di stimoli, anche senza arrivare sempre al piano sessuale (e non
credo di star invecchiando se penso che il sesso sia una ma non la sola
componente della vita). Ma quello che è certo è che bisogna prendere, e poi
dare, dare. Dare sé stesso, senza remore. Far sì di essere presenti, senza
cambiare la propria natura. Accorgersi del tappo, o dell’anta, o della padella.
Senza mai cambiare sé stessi (perché è quel te stesso che l’altro ama), ma
facendo in modo di modellarlo come l’acqua nel fiume. Che sempre acqua è e
sarà, ma si accorge della riva, e ne prende la forma. Dopo tutte queste belle
metafore, facendo i salti tra gli autori moderni italici, da Veronesi a
Camilleri, torno a Piccolo sperando che riprenda presto i momenti
ilaro-riflessivi del suo scrivere, quelli che dal tempo di “Allegro
occidentale” (leggetelo se no lo avete fatto) mi fanno ridere e pensare.
“Non frequento le farmacie, per incuria e
pigrizia, forse anche per una sostanziale fortuna… di solito, quando mi ammalo
o soffro di un dolore fisico, aspetto che passi. Accetto il dolore e aspetto.”
(28)
”Chissà come succede che due persone si
scelgono.” (54)
“La sostanza di una convivenza lunga si basa
sul talento di risolvere in tempi brevi ogni litigio, ogni problema…. La
soluzione in tempi brevi comporta la capacità di aprire un baule e ficcarci
dentro i conti che un giorno ti sembrerà di dover fare, e che confidi di non
fare mai.” (130)
“Un tappo [di dentifricio] lasciato sul
lavabo ogni giorno [è] … un segnale della crisi di un rapporto, dicono tutti. E
forse hanno ragione. Ma c’è di più: non [è] un segnale, è un motivo … che può
minare l’amore di una persona quanto sesso, comunicazione, emozione,
complicità.” (133)
“Me
ne sono reso conto all’improvviso… io non ho mai lasciato nessuno. Mai. Tutte
le storie che sono finite, sono finite per volontà della persona con cui avevo
una relazione… se qualcuno ha avuto dei buoni motivi per smettere di avere una
relazione con me, la relazione è finita – altrimenti, è continuata.” (140)
“Tutti gli amori … sono fatti di cose buone
e cose cattive, di momenti belli, noiosi, sconfortanti, allegri, tristi. Sono
fatti di tutto.” (188)
Fabio Volo “Un posto al mondo” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato
euro 9,60)
[in: 01/11/2010 – out:
06/11/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2006]
Un
punto in basso della vena del nostro amico bresciano-barcellonese. È quello,
tra i suoi libri, che meno mi è piaciuto. Da un lato sembra “costruito” a tema,
per dimostrare che ci sono lati belli e buoni della vita, che c’è di tutto per
fare il mondo, che anche il dolore … E dall’altro, sembra riempito di
stereotipi, proprio quelli che ad un certo punto dice di voler evitare. Sì, non
fa più dire a Francesca che “smetterò di fumare quando sarà incinta”, ma il
nostro Michele riesce a rimettere in piedi vita, amore, lavoro ed altro, perché
decide di… pensarci, seguire sé stesso, guardare i fiori che spuntano. Bello
spunto, ma un po’ pochino per essere convincente ed avvincente. Pur essendo
stato scritto 5 anni fa l’ho letto solo ora (non usciva in economica, ed io
sono uno tenace che aspetta), e coincidenza l’ho letto poco dopo il libro di
Piccolo di cui co-tramo. Sono due libri diversi, ma, in un certo senso, sono
facce diverse di stesse medaglie. C’è sempre un uomo al centro, l’io narrante,
che ci partecipa i suoi pensieri. E cominciano con scene di maternità (qui
nasce Alice, lì Beatrice, notate la progressione alfabetica e la rima). Lì si
va in avanti, e succede quello che ho già narrato, ma illuminando in un certo
senso il lato “cattivo”. Qui si procede a ritroso. Volo ci fa ripercorrere la
strada che ha portato Michele a quel punto. Illustrando un po’ il lato buono.
Michele che perde il tempo ed i giorni. L’amico Federico che decide di cambiare
vita, parte e si ritrova altrove. Torna filosofeggiando in sedicesimo, ma
purtroppo ha un incidente di moto e muore. Questo scatena l’autocoscienza di
Michele. Molla tutto: la quasi fidanzata Francesca (ma si stavano lasciando),
il lavoro (che non sopportava per la tirannia del tempo), famiglia e amici. Si
rifugia a Capo Verde, dalla donna di Federico, assiste alla nascita della loro
figlia postuma. Poi torna e trova tutti i suoi equilibri: fa la pace con il
padre, si ri-fidanza con Francesca (e ci fa la figlia), scrive un libro che ha
un moderato successo, ma soprattutto gli da fiducia, aiuta Francesca a lasciare
il bar e mettere su una libreria con sala da tè, riprende saltuariamente a
lavorare (cioè lavora solo se gli servono i soldi, beato lui che non ha troppe
necessità…). Insomma, grazie allo shock di Federico si accorge che un’altra
vita è possibile. Se si capisce cosa se ne vuole fare. Non se si fa ciò che si
vuole ma se si vuole ciò che si fa. E tutta l’ultima parte è un po’ smielata,
tipo uccellini che cinguettano, fiori che sbocciano, tutti si comprendono e
molti si vogliono bene. Certo, non tutto il mondo è come Francesca e Michele, e
saranno sempre guardati come un po’ fuori le righe. Ma va bene così. Loro sono
buoni. Ecco, questa è la cifra che mi ha storto nel romanzo: tutto questo
buonismo, tutti questi rivoli di miele che colano da tutte la parti. E non dico
che sia di per sé sbagliata la filosofia di Fabio – Michele: se riusciamo a
capirci, vivremo sicuramente meglio. Il problema è che, non essendo soli, a
volte questo solipsismo sfocia in egoismo. Si può ed è anche bello stare da
soli. Ma stare con gli altri porta, inevitabilmente, a compromessi. Che a volte
ci portano anche al bivio: condividere quindi compromettere o non compromettere
e tagliare? Piccolo cerca una sua via mediana e nel suo libro fallisce un po’.
Volo no, ma non mi convince. Credo che tutte le tonalità di grigio che vediamo
intorno a noi abbiano un loro significato. È giusto e bello avere degli
occhiali che ci consentono di vedere il bianco ed il nero. Ma vederli,
significa per me apprezzare anche tutte le altre sfumature. Volo è sempre
capace, ogni tanto, di infiorare qualche ragionamento sul quotidiano che mi
piace e mi diverte. Tuttavia non regge l’impatto globale, ed alla fine, come
detto all’inizio, risulta il meno convincente dei libri che ha scritto ed ho
letto. In questi giorni esce un altro suo libro che balza subito in vetta alle
classifiche. Mi incuriosisce questo fenomeno, ma per ora ho “volato” troppo.
“Mi sentivo già innamorato, ma di
innamorarsi sono capaci tutti, e a tutti può accadere. Amare una persona è
un’altra cosa.” (39)
“Per viaggiare non ci vogliono i soldi. I
soldi servono per fare le vacanze. Quando viaggi ti adatti e fai un po’ di tutto
… e incontri un sacco di gente che ti aiuta.” (84)
“Ho imparato che il contrario dell’amore non
è l’odio. L’odio è assenza d’amore, così come il buio è assenza di luce.
L’opposto dell’amore è la paura.” (158)
“Io e lei condividiamo tutto ciò che abbiamo
in comune e tutto ciò che ci va, il resto no. Se uno vuole cambiare va bene, ma
nessuno dei due esercita pressioni sull’altro. Non è detto che stando sotto lo
stesso tetto una famiglia si possa dichiarare unita.” (226)
“Ci amiamo ma ognuno di noi appartiene a se
stesso, per questo ci desideriamo.” (227)
Lorenzo Licalzi “Vorrei che fosse lei” BUR euro 8,90 (in realtà,
scontato 6,68 euro)
[in: 29/07/2011 – out:
16/12/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2005]
E
questa volta Zanardi torna. Pensavo peggio, ma alla fine si può fare. Galleggia
onestamente. Certo, sconta il fatto che, in realtà, si colloca tra il penultimo
e l’ultimo capitolo del “Privilegio di essere un guru”. E se non lo si è letto,
si perde una parte della storia, nonostante il tentativo di prefazione che
cerca di salvare capra e cavoli. Perché senza il Guru, non si capisce che cosa
ci faccia Zanardi in Giappone. E senza il Guru, non si capisce cosa faccia
Zanardi dopo il Giappone. Ed in effetti, una parte del libro, che si srotola
alle pendici del monte Fuji lascia un po’ così, senza un vero perché. Con
qualche intarsio decisamente inutile, tra i colloqui con il maestro zen e la
disastrosa partita di pallone con i contadini giapponesi, che ricorda da vicino
le scene della partita di pallone di Aldo, Giovanni e Giacomo in “Tre uomini e
una gamba”. Tuttavia, fatta la tara a questa parte, e rivolto un doveroso
ringraziamento a Licalzi per aver dato al suo protagonista l’illustre nome di
Andrea Zanardi (un omaggio neanche tanto velato al grande personaggio dei
fumetti del grandissimo Pazienza) rimane il resto del libro. Che ha un suo
senso, perché non è altro che una specie di autobiografia dell’io-narrante,
autobiografia però tutta dedicata alla descrizione della sua vita nei confronti
con l’altro sesso (e siamo al terzo libro sul tema!). Una sorta di memoriale
sessuo-storiografico della nascita dell’uomo-Zanardi. Seguiamo così i suoi
rapporti con le altre dai primi timidi ed inconcludenti tentativi alle medie,
ai più maturi passaggi inizio giovanili, fino alla piena maturità sessuale (ed
immaturità mentale, forse). Sono, in effetti, una serie di macchiette, di
passaggi, di agnizioni, che il nostro autore cerca di legare e collegare, non
sempre riuscendoci a pieno. Il tentativo che dichiarava iniziando a scrivere di
voler capire perché, dalla timidezza ed incapacità adolescenziale, passi alla
maturità, ma anche alla fuga, non riesce a pieno. Fuga, perché poi, dalla Nina
in poi, il suo atteggiamento è una e poi basta. Non una donna, capisci a me. Ma
dopo aver fatto l’amore con una donna, Zanardi perde lo slancio e non la vuole
né vedere né sentire più. Ecco, questo tentativo di auto-analisi non riesce a
pieno. Certo, volendo tirare il romanzo per i capelli, si può comprendere un
certo suo atteggiamento verso l’altro sesso, quando incontra personaggi come
Giovanna o Alice. Le uniche, a suo dire, con cui ha pensato di rimanere per più
di una notte. Ma il ritratto che fa dell’iper-attiva Giovanna, che lo vuole trascinare
in tutto gli sport estremi del mondo, o dell’iper-remissiva Alice, che lo
vorrebbe sempre lì per casa, ci fanno capire che se anche noi si avesse donne
simili, forse l’unica soluzione sarebbe andare via. O rimanere soli. Per
fortuna, non tutte le donne sono così. Ma tornando ai racconti, certo qualche
sorriso e qualche risata, complice la vena sardonica di Licalzi, si fanno
ancora. Una su tutte, il primo bacio con Monica e soprattutto, con
l’apparecchio dei denti di Monica è veramente esilarante. Così come lo sono
alcuni suoi tentativi di sfuggire alle donne inventandosi megalitiche bugie. Ma
come sanno i più accorti, le bugie, che comunque sono il ripiego di chi non ha
la coscienza di se, meglio dirle piccole e vicine alla verità. Sono più facili
da ricordare. Si casca meno in contraddizioni. Meno esilarante è il passo, che
mostra tutta la corda del libro, dove una donna lo caccia per aver trovato il
diario su cui annotava tutte le sue avventure femminili. Senza parole.
Tuttavia, il percorso del buon Zanardi da timido ed impacciato non ancora
adolescente a uomo sfrontato è gustoso, anche se molto “iperbolato”. Insomma,
un libro che scorre con una velocità impressionante, che lascia qualche
sorriso, e che fa sperare in uno scrittore che ogni tanto comunque scrive dei
passi che mi piacciono. Anche se tutti nel libro precedente a questo. Speriamo
nel futuro.
“Fin dalla prima adolescenza, vuoi per il
naturale sviluppo ormonale, vuoi per una certa predisposizione genetica … le
donne e il sesso furono al centro dei miei pensieri, ma non fu per niente
facile far sì che i pensieri si trasformassero in azioni … Furono anni di
appostamenti e di approcci maldestri. Di sguardi obliqui o penetranti. Furono
anni di domande idiote o mutismi assoluti. Furono anni di brutte figure, di
situazioni imbarazzanti, di metaforiche ma dolorosissime bastonate.” (45)
Giuseppe Pontiggia “Nati due volte” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 08/01/2012 – T: 10/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 188;
anno: 2000]
Non avevo mai letto nulla
dell’esimio Pontiggia, che ci ha lasciato otto anni fa. Ne avevo sentito
parlare, come letterato, collaboratore di Vittorini ed altro, ma non c’era
stata occasione. Colmo questa lacuna con questo libro, premiato e ben considerato,
ma che, francamente, non mi è piaciuto. E lo dico con difficoltà, che non è
facile dire non mi piace di un libro che, comunque, molte corde ha smosso
durante la lettura. Perché l’argomento che tratta è forte esso stesso, e di
certo non facile. Una cavalcata di appunti della storia (personale) di un padre
cui nasce un figlio disabile. Seguiamo quindi il narratore che ci comunica, in
agili capitoli, quasi fogli di appunti, questo percorso, su e giù per il tempo,
scandito comunque e sempre (e lo immaginiamo bene) da un dolore forte e neanche
tanto sordo. Non riesco ad immaginare cosa si possa provare ad avere un figlio
disabile, ed è un pensiero che sovente mi coglieva in maturità quando amiche
erano incinta e quando anche io pensavo alla prole. E se succede che?
Terribile. Ringrazio di non aver dovuto (per tutta una serie di motivi)
affrontare questa prova. Su cui ritornerò. Ma restiamo allo scritto. Capisco la
rabbia ed il dolore. E penso di capire la difficoltà stessa non solo di
affrontare la vita con un figlio affetto da tetraplegia spastica distonica, ma
di parlarne ad alta voce. Certo, riesce ad usare toni non patetici né di
consolazione o commiserazione, e questo è certo un pregio. E riesce anche ad
usare registri di leggerezza che, nelle mie limitate esperienze con disabili,
sicuramente leggeri, sono spesso molto più presenti di quanto si possa pensare
dall’esterno. Ma nel complesso non mi avvince, non mi prenda, non mi lega alla
pagina. Si legge, si annota, ci sono pezzi che si ricordano e che fanno
pensare. Tuttavia con distacco, che forse il tema altro meriterebbe. Bello è
sicuramente il titolo, che chi ha una disabilità deve nascere una seconda
volta, spesso (ma non sempre) attorniato da affetti che si spera lo aiutino a
nascere il meglio possibile, almeno questa volta. Il resto però sono tocchi
lievi di vita e di autobiografia, anche romanzata, credo, per presentare idee e
situazioni. Ma si torna sempre al narratore. È lui che agisce. È lui che ha il
figlio disabile. È lui che tradisce la moglie. È lui che insegna e lotta per
una sufficienza. Sono sue le sensazioni che ci rimanda quando Paolo, il
disabile, cade, o non riesce a far di conto, o altro. Ma Paolo, con tempo e con
difficoltà, riesce a nascere una seconda volta. Va in una scuola normale, anche
se con insegnanti di sostegno. E cresce e diventa grande. Mi viene a tratti in
mente il racconto da poco letto della Parrella, quel “Behave” dove anche lì si
parla di disabili. E la scena del ristorante della Parrella mi ha coinvolto con
forza (pur nel complessivo non eccelso racconto) più degli sforzi di Pontiggia
di presentare Paolo quando cade dalla scala mobile o tenta le prime volte di
parlare al telefono. Non so che impressione e che sensazioni possa fare se chi
lo legge è più vicino di me alla disabilità. Sarei interessato a capirne, se
qualcuno lo ha fatto. Ripeto, a me lascia un senso di incompiutezza (non entro
dentro la disabilità) e di distanza (che in fondo si parla dello scrittore e
dei suoi sentimenti, di quello che provo verso i medici, i fisioterapisti, gli
psicologi e tutti gli incontri che ha con l’aiuto ai disabili). In fondo,
sembra sempre voler negare la disabilità, prenderne le distanze, come quando
volge al ridicolo la recita dei disabili. Invece di farci provare empatia o di
scavarne meglio le risonanze anche personali. Non so. Alla fine ne esco
perplesso e non convinto. Ammiro la forza di chi lo ha vissuto e di Pontiggia
che ha avuto il coraggio di scriverne. Poco altro. Un’ultima domanda
filologica. Ad un certo punto parla di un hotel babilonico e si domanda chi sia
mai stato a Babele. Perché? Se Babilonico allora Babilonia. Se Babele allora
Babelico. Mistero.
“Quanti dialoghi dovrebbero svolgersi in tempi diversi. Occorrono
talora anni per dare … le risposte adeguiate.” (28)
“- A cosa pensi? – A niente – mento (come sempre, quando si risponde
così)." (57)
“Ammettere i propri errori è anche il primo alibi per ripeterli.” (65)
“Riluttiamo ad accettare, ingigantiti negli altri, i difetti che
temiamo di avere.” (52)
Conforto per tutti gli amici che
il medico ha sciolto tutto, bende e riserve, e l’orecchio sembra riprendere il
suo posto, anche se l’udito selettivo rimane. Da domani, invece, comincia una
nuova avventura di lavoro. Un progetto che ad ora mi ingaggia fino al 2 maggio,
poi si vedrà. Si vedrà se mi ci trovo. Se mi piace. Se la mia vita non ne
rimarrà di molto danneggiata. Vedremo spero presto come si evolve. Ed al solito
vi terrò al corrente.
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