Dall’Ovest all’Est (ma sempre in
Europa, che queste donne scrivono in inglese e turco-tedesco). Una settimana
quindi molto al femminile, e se ne sentiva il bisogno. Soprattutto per la
scoperta della Athill, non solo una donna interessante, ma un grande libro
sulla seconda parte della vita. Un po’ deluso dal polpettone libresco, ma anche
dal non-romanzo turco (anche se stimolante e, a parte, sto approfondendo il
discorso lì accennato su donne – maternità – creatività). Normale, ma metta di
nuovo voglia di tornare ad Istanbul, il libro della Aykol (a parte la solita
“arrabbiatura” sui guasti editoriali).
Diane Setterfield “La tredicesima storia”
Mondadori euro 13 (in realtà, scontato 10,40 euro)
[in: 27/10/2010 – out: 13/06/2011]
[tit. or.: The Thirteenth Tale; ling. or.: inglese; anno 2006]
Per
un po’ mi è sembrato palloso, poi banale, poi mi ha incuriosito. Alla fine
niente di stravolgente, ma si legge con gradevolezza. Certo non concordo con le
lodi sperticate del Times (“Un libro splendido”), ma lo ritengo un prodotto
onesto, e questa è già una buona lode. Forse risente molto dell’ambiente
culturale inglese (la Setterfield non solo è natia di Reading, cittadina che,
come dice il nome, è dedita alla lettura, ma, non ancora cinquantenne, è
studiosa emerita di letteratura francese del ventesimo secolo, di cui alcuni
echi non possono non sentirsi nel romanzo) e dell’immersione di tutte le
atmosfere in quel sano filone di “romanzo gotico” che tanto ebbe successe nella
storia letteraria inglese. Gotico non tanto per il lato tendente all’horror
(che quasi sempre era presente) ma per quel cumulo di atmosfere, un po’
barocche ed un po’ Carolina Invernizio che in quei romanzi erano di casa. Ed è
ovvio che non paragono questa storia a capolavori di kitsch come “Il bacio di
una morta” o “La trovatella di Milano”. Il filone è comunque ben intricato. Ci
sono una serie di gemelli che vagano per la storia, anche se ben presto
riusciamo a discernerne le fila (e non ci meraviglia, a noi posteri, il diverso
comportamento tra gemelli mono- o etero-zigoti), anche se il nucleo tornerà
sempre lì. Il pretesto narrativo è l’ormai vicina morte di una grande
scrittrice popolare inglese, Vida Winter (nome multi-senso, tra lo spagnolo
vita e l’inverno inglese), che chiede ad una giovane bibliofila, la
normo-bellezza Margaret, di scrivere la sua biografia. Perché oltre ad essere
popolare, la Winter era ben misteriosa, vivente in un posto sperduto, con pochi
contatti all’esterno se non per l’uscita dei nuovi successi. Ed ogni volta che
qualcuno tentava di scriverne, inventava sedicenti biografie non documentabili.
La scrittrice sembra, in effetti, ben abile nell’inventare storie (ed alcuni
saggi di storia che vengono sparsi qua e là nel testo ne rendono bene queste
capacità; questo è in realtà uno dei pregi della scrittura della Setterfield,
quello di uscire dal filo del narrato per narrare di altro, con un buon cambio
di registro fra i vari piani). Comincia quindi questo strano rapporto tra le
due generazioni, la morente scrittrice e la nascente bibliografa, anche questo
un buon punto per il romanzo. Poi, ad un certo punto, si comincia a galoppare,
che la Winter realmente comincia a parlare di sé, Margaret comincia realmente a
scrivere di lei. E qui, se vogliamo, cadiamo nelle trappole iniziali. Troppe
Jane Eyre pullulano le stanze della magione della Winter. Troppi fantasmi sono
chiusi sotto il letto di Margaret. Ma qui si procede, e si procede come un sano
romanzo gotico ottocentesco, dove c’è un inizio, un corpo ed un finale (o anche
più finali). La Setterfield mantiene quello che la Winter promette ad un certo
punto e segue questo schema. E nella brughiera inglese vedremo nascere e
crescere i drammi e le epopee di Isabelle Angerfield, delle gemelle March, di
John il giardiniere, di Ambrose Procter, e via discorrendo (notate che bei nomi
ottocenteschi si riescono ad inventare). E con alti, bassi, intrecci con la
quotidianità di Margaret ed il suo irrisolto rapporto con la madre, tutte le
storie giungeranno ad una loro logica conclusione. Quella centrale, ci
aspettiamo da tempo che abbia quel tipo di fine. Le collaterali, riescono ad
andare ad una giusta conclusione, senza sbavature, ma anche se far mancare un
pizzico di “rositudine” che non guasta mai. Alla fine, forse un po’ lungo e con
una morale latente (che non esce mai, ma che a me risulta quasi palese) che per
scrivere belle storie bisogna amarle, e per amarle bisogna togliere di mezzo la
possibilità che ci sia altro amore. E non sono del tutto d’accordo.
Diana Athill “Da qualche parte verso la fine” BUR euro 9
[in: 05/01/2011 – out:
28/09/2011]
[tit. or.: Somewhere Towards the End; ling. or.: inglese; anno 2008]
Un bellissimo libro
sull’invecchiare scritto a novanta anni dalla per me fin ad ora non nota Diana
Athill. Che risulta essere stata un grande editor inglese e che ha sempre
vissuto tra libri e scrittori. Ma solo dopo i 75 anni decide che può provare a
scrivere. Ne escono fuori una serie di tre – quattro libri autobiografici, di
cui questo è il primo ad essere tradotto. Quello che mi è piaciuto è proprio il
modo di affrontare un’età difficile, cui non sappiamo se e come arriveremo. Noi
che ne siamo molto più giovani ci pensiamo ogni tanto e ci immaginiamo, forse,
cosa, come ed altre amenità. Lei, con molta onestà, tira fuori dalla sua penna
quello che sente di vivere. Innanzi tutto, la fine dei desideri sessuali,
parola che un po’ ci spaventa, in quanto è sempre un motore di vita. Ma che si
può trasformare, evolvere, sbocciare in amicizie e frequentazioni che possono
avere tutto di quel desiderio, meno l’atto finale. E che Diana ci porta a
considerare ininfluente. Poi la paura della decadenza fisica. Forte della sua
tradizione familiare che vedeva uomini e donne arrivare decentemente integri
alla tardissima età per poi morire senza sofferenze, ci fa attraversare questa
palude con il sorriso della speranza. Lavoriamo fin da ora sul nostro corpo
perché si possa mantenere decente fino alla fine. A questo collega la paura
delle malattie. Ma non tanto le proprie, quanto quelle di chi c’è vicino.
Quelle persone cui per amore non potremmo mai dire di no, e che vediamo
soffrire. Come il diabete che colpisce il suo compagno di una vita. E lunghi
discorsi sulla morte. Ed altrettanto lunghi discorsi sulla gioia di vivere la vita,
momento su momento. Quel ritrovarsi ad avere tempo di fare tutte quelle cose
che non si pensava di poter fare. E magari trovarne altre inaspettate. Come
quando si innamora del giardino e comincia a curare i fiori, laddove fino alla
piena maturità il massimo che aveva fatto è sedersi con un libro in mano nel
giardino di qualche d’un altro. E la passione per il cucito. Poi anche qualche
cosa per le lingue. Che mi ricorda tanto mia nonna Bianca (che era anche il suo
nome ma che per noi ragazzi era bianca per i suoi capelli argentati) che a
settanta anni, i figli tutti ormai sposati e sistemati, decide di iniziare a
studiare il russo. E generalessa e metodica come era, in dieci anni riusciva a
leggere e scriverne correntemente. Ah potessi farlo anch’io alla sua età
(magari non il russo, ma tant’è). Insomma, torniamo alla pagina, ed alle parole
lievi che ci passa Diana. Parole che non possono che attraversare anche i suoi
credi di vita. La non possessività del rapporto con il suo uomo, soprattutto
alla fine del sesso. L’ateismo di fondo, ma con quella curiosità verso il tutto
che, come ha anche sottolineato recentemente il Papa, a volte rende più
interessati a porsi delle domande che dei credenti svogliati. Bellissime le
pagine della sua lotta per decidere di guidare ancora dopo gli 85 anni, usando
la macchina come aiuto negli spostamenti, laddove il corpo ormai spesso vacilla
e ben presto si stanca. E penso a mia madre che a 82 anni ha deciso di smettere
di guidare ed ha venduto la macchina. Ma tutti gli anni si fa gli esami per il
rinnovo della patente, quasi fosse un talismano per poter dire “potrei farlo,
ma decido io se serve”. Il grande messaggio che mi ha preso poi dal libro è
questa capacità ed onestà di dire e di poter dire: io sono così. Ed alla fine continuerò
ad essere così, perché così sto bene con me stesso. E con gli altri. E con i
giovani. Certo, c’è un velato rimpianto di non aver avuto figli, ma non per
questo non si frequentano giovani. E soprattutto bambini, che vanno trattati
comunque da umani e non da alieni di cui bisogna imparare uno strano
linguaggio. Forse non tutto quello che ha fatto e detto Diana mi piace, ma ho
amato il suo modo di porgermelo e di farmici riflettere. Un libro che molte
persone e molti miei amici dovrebbero leggere.
“Siamo riusciti a prolungare a tal punto la fase di decadimento che
spesso essa dura più di quella dello sviluppo.” (17)
“Un cuore spezzato con un colpo secco e deciso si ripara molto più in
fretta che dopo un lento strangolamento.” (28)
“Quando si comincia ad accusare l’età è consolante stare con qualcuno
che ha i tuoi stessi acciacchi.“ (39)
“Ciò che aveva dentro, man mano che si avvicinava la morte, non era la
paura dell’eventuale abbattimento fisico che avrebbe dovuto sopportare … bensì
il dolore di dover dire addio a qualcosa di cui non era mai sazio.” (83)
“La cosa buona non è solo l’affetto che i giovani riescono ad ispirare
… La loro presenza è un antidoto ad un’inclinazione spiacevole e fastidiosa
nella vita di una persona anziana. Tendiamo a convincerci che tutto peggiori …
diventiamo meno capaci di fare cose che ci piacerebbe fare, sentiamo di meno,
vediamo di meno, mangiamo di meno, soffriamo di più, i nostri amici muoiono …
[avere intorno] persone per cui gli anni a venire sono ancora lunghi e pieni di
chissà che cosa, … ci permette di sentire ancora … che non siamo semplici
puntini alla fine di esili linee nere proiettate verso il nulla, bensì facciamo
parte dell’ampio fiume che pullula di inizi, maturazioni, decadimenti e nuovi
inizi.” (92)
“Mi sembra che chiunque si guardi indietro a ottantanove anni non possa
non vedere un panorama segnato da rimpianti …. I rimpianti sono inutili, tanto
vale dimenticarli.” (163)
“[Ho] conosciuto l’insofferenza all’idea di avere una sola vita a
disposizione. Gran parte delle mie letture le ho fatte proprio per il piacere
di calarmi dentro ad altre vite, ed un discreto numero delle mie storie d’amore
sono nate per lo stesso motivo.” (170)
“Quando sei vecchio … sei grato per qualsiasi cosa. Qualsiasi.” (175)
“Se mi guardo indietro da quassù mi rendo conto che la vita umana
all’interno dei propri confini è sorprendentemente capiente e capace di
contenere molti opposti … per esempio l’assurda convinzione di essere una
persona fallita insieme ad una consapevolezza del proprio successo.” (177)
“[come ultime parole prima di morire] mi piacerebbe dire ‘Va bene
così….’ [e spero] che l’occasione giusta per quella frase non si affretti
troppo a venire.” (183)
Elif Shafak “Latte nero” Rizzoli s.p (regalo di A.)
[in: 07/05/2011 – out:
05/10/2011]
[tit. or.: Black Milk. On writing, motherhood and the harem within; ling. or.: inglese; anno 2007]
Non meravigliatevi: la scrittrice
è turca, ma scrive molto in inglese. E questo ne è un esempio forte, un lungo
passaggio autobiografico che è servito alla scrittrice per uscire fuori da una
profonda depressione. Banalmente potremmo definirla post-partum, ma è qualche
cosa di più. Una riflessione su se stessa, sul proprio ruolo di scrittrice in
un mondo, quello maschile e turco, dove la donna è relegata in altri ambiti. Ma
anche sul proprio ruolo nel mondo, e sul travaglio interiore di trovarsi, ad un
certo punto, prima innamorata, poi sposata, poi madre. Mettendo in discussione
tutta la propria vita precedente e cercando di trovare una propria via
d’uscita. Quasi a riprendere il filo ideale della Setterfield, che o si amano
le proprie storie o si amano le persone fisiche. In realtà, all’inizio pensavo
che Elif affrontasse il tema con una delle sue storie, alla maniera della
“Bastarda di Istanbul”. Durante la lettura, mi accorgo che invece rimane sul
lato personale, rendendoci partecipe delle sue tappe di vita, della decisione
di scrivere, della decisione di trovare una propria via, del girovagare per il
mondo al servizio della scrittura e della letteratura. E poi, come fa ben
intendere il titolo inglese, saltando qua e là tra vari e disparati esempi di
scrittura femminile, ognuno calzante, ognuno che porta un brandello di verità
in più all’essere donna ed all’essere scrittrice. Alla fine, i diversi piani si
mescolano, perché Elif è una, ed è se stessa che vuole portare avanti, o
riportare avanti. Aveva sempre negato la maternità, ma una volta mamma (e con
convinzione e non per sbaglio) cerca di capire sé stessa. Non riesce più a
scrivere, presa da quotidiani impegni altri, e si interroga se sia compatibile
questa pluralità di ruoli al femminile. Ed i suoi esempi portano acqua ora a
questo ora a quel mulino. Per uscirne fuori, per vincere tutta questa
depressione, deve quindi, anche, tuffarsi dentro di sé, nella pluralità delle
proprie sfaccettature, che tutti siamo esseri complessi. Lei, da brava
scrittrice, concretizza i suoi atteggiamenti in piccoli esseri (che chiama le
Pollicine) che via via prendono possesso della sua vita, cercando di escludere
le altre. C’è quindi la Milady Ambiziosa Cecoviana, l’Intellettualoide Cinica,
la Signorina Efficienza, la Signora Derviscio, Blue Belle Bovary e Mamma Budino
di Riso. E solo quando riuscirà a capire che lei stessa è tutta queste facce e
che possono convivere, e che anzi debbono convivere, che riuscirà ad uscire
dalla depressione, accetterà fino in fondo i suoi figli (che si chiamano la
femmina Shehrazad Zelda in onore della narratrice delle mille e una notte e di
Zelda Fitzgerald ed il maschio Emir Zahir in onore delle tradizioni orientali e
di un libro di Borges) e riuscirà a scriverne nel libro che abbiamo appena
finito di leggere. Alla fine, il mio giudizio è sospeso. Non è un bellissimo
libro (ed inoltre io sono maschio). Non è una bella autobiografia. Non è un bel
trattato sulle donne che scrivono e sui loro pensieri. È un po’ questo ed un
po’ quello. Ma la sua sapiente scrittura riesce a conciliarci con questo “harem
interno” del suo mondo e farci pensare ai nostri harem. Certo un titolo che
avesse rispecchiato maggiormente la seconda parte dell’originale (quel “sullo
scrivere, la maternità e l’harem interiore”) mi avrebbe fatto più piacere.
Rimane però, questo sì, il piacere di una donna che scrive con “latte nero e
inchiostro bianco”. E rimane il piacere delle sue micro-analisi della scrittura
al femminile.
“Quando sei incinta puoi fuggire da tutto e da tutti, ma non dai
cambiamenti del tuo corpo.” (14)
“Per un ateo, la fede non è una questione molto importante. Per un
agnostico, invece, sì. Un ateo è sicuro delle proprie convinzioni … Un
agnostico … seguiterà a riflettere, dubitare, porsi quesiti.” (288)
“Il fascismo ha prosperato e si è diffuso non a causa delle persone
cattive con obiettivi malvagi, bensì delle persone ordinarie con buone intenzioni.”
(151)
“Questo è il modo in cui procede la mia vita: faccio un passo, avanzo,
cado, riprendo a camminare, inciampo e cado di nuovo, mi rialzo, proseguo …”
(346)
Esmahan Aykol “Appartamento a Istanbul” Sellerio euro 14 (in realtà,
scontato 9,80 euro)
[in: 04/12/2011 – out:
28/12/2011]
[tit. tr.: Bakschisch; ling. tr.: tedesco; anno 2004]
[tit. or.: Kelepir Ev; ling. or.: turco; anno 2003]
Approfittando
di sconti e promozioni, mi ero preso questo secondo libro della Aykol, che mi
incuriosiva e stuzzicava, dopo aver letto il primo. L’impianto è simile, come
struttura generale. L’autrice segue le vicende della sua alter-ego Kati, che,
ad un certo punto, si imbatte sempre in qualche omicidio e/o in strane morti.
Quasi senza volerlo se ne trova immischiata. E mentre porta avanti la sua
complicata vita di donna quarantenne emancipata in un mondo poi non tanto e
continua a manifestare il suo amore-odio per la vita e gli abitanti di
Istanbul, la sua mortale curiosità la costringe ad interrogarsi su queste morti.
Sui perché e sulle concatenazioni delle vicende. Ed alla fine ne troverà il
filo conduttore. Mi piace che la Aykol non è mai consolatoria. Non è detto che
risolvere un giallo significhi, automaticamente, punire il colpevole. Che a
volte è meno colpevole di altri. Qui la vicenda parte da un assunto molto turco
e cittadino. A Kati aumentano l’affitto e lei deve decidere se pagare, trovare
un’altra casa in affitto più economica, o, come le suggerisce una sua amica,
dedicarsi alla ricerca di una casa da comprare, entrando nelle pieghe dei micro
- giri di corruzione che lì (e anche altrove) gestiscono il racket delle aste
delle case a buon prezzo. Nel frattempo litiga con il suo amante Selim. E
questo condizionerà tutte le sue azioni. Perché Kati quando sta con Selim è più
ragionativa, anche se sfoga su di lui i suoi malumori (o forse proprio per
questo). Senza Selim, vagola e sbanda. Si imbarca nelle mazzette per l’acquisto
di una casa e si scontra con il clan di Osman, che ha occupato la casa cui
puntava. Dopo poco Osman viene ucciso, e Kati si auto-coinvolge nella ricerca
alla soluzione del caso. Perché infondo non è per caso che lei sia l’unica
proprietaria di una libreria specializzata in gialli in tutta Istanbul. Risale
allora nelle pieghe delle storie. Del primo amore di Osman, di come sia finito,
dell’attuale amore che pare incinta del morto. Nei contrasti in seno al clan.
Nelle storie (queste non tanto micro) di corruzioni e maneggi che avevano
portato Osman, in pochi anni, da proprietario di un bar a capo del racket di
parcheggi e tendenzialmente costruttore di case. Ma sarà la morte, inutile ed
inizialmente inspiegabile, di una vicina di casa di Osman, mussulmana
sostenitrice del partito islamico, che consentirà a Kati di sollevare il velo
che porta alla vendita di terreni edificabili in città, e che, come un gioco di
domino, ha portato alla fine alla morte di Osman. Che forse non sarebbe morto
se, all’intreccio pubblico non si sovrapponesse quello privato, che farà da
catalizzatore finale. La scrittura della Aykol a volte è un po’ troppo
ellittica, andando avanti e indietro nel racconto, cioè saltando pezzi e poi
riassumendone il contenuto poche pagine dopo. Un vezzo che non mi era piaciuto
nel primo libro, e che continua a lasciarmi perplesso. Ma ha anche la capacità
di portare avanti le sue storie con umanità. Kati ha i suoi alti e bassi. E
così Selim. E così perfino il poliziotto tutto sommato buono, anche se molto ma
molto turco. Quello che più mi attira, infatti, è quest’occhio interno/esterno
sul mondo turco. Che ci fornisce notizie su notizie (comportamenti, quartieri,
persone, locali) dell’Istanbul di oggi e dell’odierno vivere turco. Notizie cui
prendiamo atto e che ci fanno entrare nella cosmogonia raccontata, facendoci
sentire una parte della storia stessa. Che con Kati scendiamo per Istiklal
partendo da Tunel, giriamo intorno alla torre di Galata ed entriamo nei locali
di Ortakoy. Gradevole quindi, abbastanza antropologico, a volte un po’
sfilacciato, ma in modo contenuto. E discretamente conchiuso, laddove i nodi si
sbrogliano, e senza inutili giudizi. Una buona turcheria, mi verrebbe da
concludere. Ma non posso terminare senza un grido di dolore. Che la Sellerio
questa volta mi ha deluso, traducendo il libro dalla traduzione tedesca, e non
dall’originale turco dell’anno precedente (cui in un certo senso riprende il
titolo che in turco era “Kelepir Ev”, cioè l’affare delle case, mentre il
titolo tedesco si riferisce alle mance per corrompere, dato che “Bakschisch” è
tedesco dato che la parola turca sarebbe “bahşiş”). Solita mancanza di
professionalità. E quanto abbiamo perso nella doppia traduzione? Una brutta
insufficienza per la normalmente più attenta casa editrice.
“Invecchiare non è sempre una cosa
negativa.” (128)
“Volenti o nolenti, ogni tanto dobbiamo
dedicare un po’ di tempo a chi ci sta intorno.” (153)
“Camminare era l’unica attività fisica che
facevo … Con l’avanzare dell’età bisogna cercare di cambiare il proprio stile
di vita.” (176)
“Se ciascuno di noi facesse solo quello che
sa fare, sarebbe meglio per tutti.” (243)
“Mi preoccupo sempre quando le cose – amore,
lavoro e tutto il resto – filano lisce come l’olio. Sento di non aver fatto
abbastanza per meritare tanta felicità, tanta soddisfazione, tanto amore …
Allora comincio a pensare che succederà per forza qualcosa di brutto, qualcosa
che mi farà soffrire terribilmente. Se nella mia vita è tutto perfetto, non
riesco a essere davvero felice.” (306)
Abbiamo
passato un buon onomastico materno, dedicato all’Agnese vergine e martire (nonché
ai novanta anni di un partito sorto a Livorno un lontano 21 gennaio 21). E
siamo qui che si aspetta. Di andare, di partire, di tornare, di guarire, di
parlare, di vedere, e tanti altri di, veri ma anche falsi.
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