sabato 23 giugno 2012

…e anche Tabucchi - 27 maggio 2012

Un’altra settimana di autori italiani, moderni. Con il piacere di ricordare, e il dispiacere che ci abbia lasciato, il lusitano Tabucchi. Abbiamo anche un Benni ventennale che pensavo mi piacesse di più. Un Guccini coevo, molto altalenante. Ed un onesto Maurensig. Si finisce con il primo Tabucchi, ribadendone l’interesse per quelle sue prime prove.
Stefano Benni “La Compagnia dei Celestini” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 16/01/2012 – T: 19/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 315; anno: 1992]
Pensavo, speravo, immaginavo meglio. Per l’affetto verso Benni, la sua scrittura ed il Bar sotto il Mare. Ho letto diversi tipi di suoi testi, ma rimango sempre legato o a quelli immediatamente comprensibili (tipo Bar Sport) o alle sue poesie (la mitica “Dorme il cane nel canile…”). Quando passa a metafore, immagini ed altre acrobazie linguistiche, dopo un po’ mi perdo e non mi appassiono più. Come in questa lunga metafora o profezia sull’Italia ed i suoi guasti. Scritta lì sul margine tra la Prima e la Seconda Repubblica, ma già piena di tutto quanto i successivi venti anni ci hanno proposto. Colpisce, a ritroso, leggere profeticamente del berlusconismo, delle sue manie e delle storture che ha portato, come se fosse scritto anni ed anni dopo. I capelli, le barzellette, le manie, le televisioni (beh, queste forse erano le uniche già ben note). In un racconto che si intreccia, anche lì profeticamente, con il calcio (anche se dall’ottica di Benni, e quindi con qualche idea di speranza) e con la spettacolarizzazione di qualsiasi vicenda pubblica o privata, anche la più nefasta. L’ossatura della vicenda è, al solito di Benni, relativamente semplice. Ci sono degli sfortunati (orfani in questo caso) che vengono vessati in un orfanotrofio religioso. Fuggono per riabilitarsi, e cercano di partecipare (e parteciperanno) al campionato mondiale di pallastrada, l’unico tipo di calcio non ancora asservito allo spettacolo mediatico. In questo aiutati dalla bella bambina Celeste, discendente della fondatrice dell’orfanotrofio. Infatti, Memorino, Lucifero, Alì, Deodato e gli altri sono appunti i “Celestini”. Nella fuga vengono ostacolati dal clero, impersonato dall’esecrabile Don Biffero, dai media guidati dall’orrido Fumicoli e dalle truppe corrazzate del mafioso Buonommo. Tutti, in un modo o nell’altro, legati al grande capo di Gladonia (facile metafora di un’Italia vinta dai massoni del Gladio), il turpe Mussolardi. Su questa ossatura, Benni costruisce la trama principale, con i Celestini alla ricerca di orfani – calciatori ed altre avventure, e tutti i rami laterali ed immaginifici: la storia delle altre squadre di pallastrada, che si intrecciano dal Brasile alla Cina dalla Lapponia all’Africa, le vicende di Don Biffero (con tutta la ferocia anticlericale di cui è capace Benni), la scalata resistibile di Fumicoli (con il sottoprodotto del suo aiutante, una volta partecipante a cortei alternativi ed ora ridotto a registrare con il video le vicende mediatiche), i rapporti tra potere e mafia (dove quest’ultima avrà sempre la meglio). Ogni tanto qualche racconto nel racconto prende per le immagini e/o i sentimenti che può suscitare (il meccanico Alessio su tutti, ma anche le storie contorte di Celeste e dei suoi antenati, nonché quelle del famoso cuoco Passabrodet). Ma sono sprazzi, che tutto è sempre frammisto con travisamenti di nomi, indicazioni di possibili fatti, letture in controluce di situazioni. E seppur ammiro la fertile fantasia di Benni, la sua agilità nello scrivere, nel saltare qua e là e poi tornare al filone principale, tutto questo mi lascia discretamente freddo e distante. Lo guardo, ma non mi coinvolge, come dicevo. E la fatica di decrittare tutto ad un certo punto lascia il campo al sorbire il romanzo così com’è, aspettandone una fine che non può che essere quella che ci aspettiamo. Non consolatoria, non vincono i buoni, e nemmeno i cattivi. Benni sembra dirci che, in fondo, non vince nessuno, se non si cambia qualcosa. E gli unici che possono cambiare sono i bambini, i ragazzi, quelli che fuggono e si salvano prima del naufragio. Ci sarebbe da fare un bel paragone con la storia di Saviano che, cambiando tempi e situazioni, sembra essere simile di concetto, e dove ci si salva solo se ci si ferma prima. Anche perché pure nel racconto di Saviano si parla di calcio giocato in strada, quasi che volesse aggiornare le vicende dei Celestini venti anni dopo. Insomma, Benni rimane sempre un caro amico da leggere quando si può. Non, per me, in queste lunghe performance, ma magari in qualche altra cosa più breve ed immediata.
Francesco Guccini “Vacca d’un cane” Feltrinelli euro 7
[A: 17/05/2011 – I: 23/01/2012 – T: 26/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 137; anno: 1993]
Dal ritorno in città alla nascita della Musica (sì, quella con la M maiuscola, almeno per me). Questo l’argomento del libretto veloce di Guccini, che fa seguito a quel “Croniche epafaniche” che lessi molto ma molto tempo fa. Questi sono i libri autobiografici del nostro cantautore, che ripercorre brandelli della propria vita, a tappe, un po’ come seguisse il suo amato Fausto Coppi. Non sono le epopee di briganti dell’Appennino, più politiche e più serrate, quelle scritte a quattro mani con il grande Loriano. Sono le sue epopee personali, dove utilizza un misto di italiano e dialetto, un po’ reale e un po’ inventato. Purtroppo, per lui e per la mia comprensione, questa lingua reale mi è più lontana del pur meno comprensibile vigatese di Camilleri. Per cui quello si segue facile. E qui, un po’ mi perdo, nonostante un tentativo di glossario che cerchi di delucidare su radici, provenienze ed imbastardimenti della lingua. Una volta superato lo scoglio del linguaggio, rimane questa rapida volata, che parte alla fine della seconda guerra mondiale, quando Francesco, nato nel ’40, dopo cinque anni di Appennino, torna nella natia Modena. Anzi, Mutna in dialetto, da cui il suo vezzo di chiamarla “Città della Motta”. Ci sono alternanze di scritture e di rimandi a me lettore. Quando entra in prima persona su avvenimenti minuti (dai traslochi alle corse in bicicletta, dalla fame alla scoperta anche molto discreta dell’altro sesso, dalle bande di quartiere alle prime bande sui palchi) si segue bene. Con la dolenza di descrivere mondi che sono scomparsi, che vanno scomparendo. La prima comunione lisciata per colpa di un’indigestione, ma con il regalo di un orologio, che come il mio non indossai mai. Il passaggio dai pennini alla biro. Il freddo delle case. Le prime elezioni del ’48, con la grande lotta tra Democristiani e Fronte Popolare. I bagni senza bidet. Le corse sui marciapiedi delle coroncine metalliche delle bevande. Io non ero così specializzato come loro, ma monomaniaco: solo acqua frizzante MineralNeri (quella mitica “se bevi neri, ne ribevi”, impagabile). Poi ogni tanto, si lascia andare a pistolotti vari, a pagine in terza persona con ricerca di metafore e voli pindarici vari. E qui mi perdo e, purtroppo, si perde anche lui. Come nel lungo panegirico sull’America lontana, sui miti di là dell’Oceano e sulla loro (impossibile) trasposizione nella Pianura Padana (che poi risolverà molto meglio su disco, nell’LP “Tra la Via Emilia e il West”). Meglio tornare con i piedi per terra, con quell’accenno (unico per cognome) al caro amico Bonvi, due righe di una delicatezza infinita (che suppongo aggiustate nella seconda edizione, uscita un paio d’anni dopo l’assurda morte del disegnatore). Un po’ di corso, il passaggio dalla Modena delle scuole medie alla Bologna dell’adolescenza (forse più sviluppata nel successivo “Cittanova Blues”), anche se lì non possiamo non notare le prime scorribande sonore con Alfio (Canterella, batterista) e Victor (Sogliano, bassista). Che ci fanno ricordare come all’epoca, io ignorante, mi domandavo perché l’Equipe 84 suonasse quella bella ballata intitolata “L’antisociale”. Tuttavia, nonostante l’affetto per il cantante, motivo per cui non parlerò mai troppo male anche dei suoi scritti, continuo a preferirlo in primis con la musica dietro, ed i secondi insieme a Machiavelli. Certo, non dimenticherò mai, che il secondo LP che comperai, fu Folk Beat n.1, e che del grande Francesco avevo tutti gli LP (confessione di peccati di gioventù, ma neanche tanti, il primo LP che comperai fu “1999” di Lucio Dalla). E continuerò a volergli bene, come ad un fratello maggiore quando ci regalò Cyrano. Ma qui è minore, e va detto. Alla prossima, avvelenato.
Sandocan col quale voli e trasvoli, scordi buio e compiti, che ti dici, ma se la vita fosse solo leggere e senza compiti e altre balle non sarebbe più tògo?” (35)
“E capisci che la vita, se vorrai davvero viverla come va vissuta, nella sua complessa completezza, consisterà solo in una gràan serie di difficoltà una via l’altra, senza riposo.” (37)
“Ci sono giorni nella vita di fondamentale importanza, momenti che ti segnano da lì in avanti, ma quando ci sei raramente te ne accorgi o non ci pensi e dopo non te li ricordi.” (52)
PS: le parole sottolineate sono scritte così da Guccini, non sono miei errori di battitura. All’epoca inoltre, tògo era sinonimo di figo.
Paolo Maurensig “Canone inverso” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato 8,20 euro)
[A: 11/06/2011 – I: 08/02/2012 – T: 10/02/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 150; anno: 1996]
È sempre gradevole la scrittura del goriziano Maurensig. Contiene tracce di quelle atmosfere austro-ungariche un po’ alla Marai che predispongono alla bella lettura. Non è riuscitissimo il libro, nel complesso, ma come mi insegnò la mia maestra di vita, cominciamo con le note positive che per le critiche c’è sempre tempo. Nel meccanismo un po’ datato della narrazione a scatole (io che racconto e nel racconto si innesta un’altra trama) esce fuori il potente ritratto di questo musicista ungherese (o forse sloveno) tra le due guerre. Il tentativo dello scrittore era quello di riuscire a scrivere qualcosa che sapesse di musica, e per farlo riempie di musica e parole le scarne pagine. E pur non sapendone di violini (altri strumenti sono a me più noti e familiari), ci fa partecipi della bellezza e della sofferenza del suonare. E tra le scatole che si aprono seguiamo l’epopea di Jenò, il suo amore per la musica, la sua predisposizione, il conservatorio bello e terribile, l’infatuazione per Sophie, il rapporto di amore fratellanza con Kuno. E poi la nascita dei contrasti, l’irrompere potente della barbarie nazista, che spazza via l’Austria e la musica del mondo. Per poi ritrovarci a chiudere le scatole, vedere (immaginare) la morte di tutti gli ebrei della vicenda (e ce ne sono). La difficoltà di ritornare a vivere (forse l’impossibilità). Fino a scoprire identità (facili) e disuguaglianze (meno pensabili) tra i vari personaggi. Con quell’alone di mistero che lascia tutto un po’ sospeso, tra sogno e realtà. Quanto ha bevuto lo scrittore. Sarà tutto possibile? Ma Jenò e Kuno quanti sono? Perché molte domande rimangono infine sospese, lasciando un po’ a noi la decisione tra scegliere una risposta razionale o una emozionale. E pur tuttavia ci ritroveremmo a bere buon vino in qualche bettola fuori Vienna, così come ci insegnava Heinichen nelle sue osmizze tridentine. Tuttavia (cominciano i punti sospesi), il tentativo di fare un romanzo di musica non riesce a pieno (forse qualche fine conoscitore, che sappia di Bach e di Brandeburgo e mi possa spiegare se l’andamento del racconto sia assimilabile ad un “canone” classico, dove più voci riprendono uno stesso tema a distanza di vari intervalli, e se sia “inverso”, cioè dove la prima voce sale la seconda scende), almeno la musica c’è, nello sfondo ma non così potentemente come sembrerebbe nelle intenzioni dell’autore. E credo di non ricordare romanzi che siano “musicali” (aiutatemi, se vi sovviene). Scontato è l’inserimento temporale, e l’equivalenza tra conservatorio e prigione, tra nazismo e fine della musica. Ce lo aspettiamo fin dall’inizio e puntualmente arriva. Mentre non mi aspettavo tutte le irrisolutezze, le involuzioni, le scene madri nel castello avito. Anche lì, i personaggi diventano un po’ troppo prevedibili. L’unico tentativo dello scrittore è di lasciare un po’ di margini a quelle atmosfere verrebbe da dire transilvaniche ma forse è un po’ troppo. Forse si concentra troppo nella lotta titanica benché priva di fisicità quasi fosse tutta mentale, tra Jenò e Kuno. Quasi a voler riprendere toni scacchistici, la dove la variante di Lunenberg mi aveva più convinto (sempre pensando alle “Braci” di cui all’inizio). Purtroppo è il messaggio complessivo che rimane monco. Si voleva parlare d’amore? D’amicizia? Di schizofrenia? Di immortalità? Rimane un esercizio di stile, con qualche bel passaggio e, comunque, con una bella facilità di scrittura e di lettura.
“Per mantenere intatta un’amicizia siamo disposti a fare di tutto. Sorprendiamo l’amico nell’atto più sconveniente, ma il nostro giudizio si appanna, la nostra indulgenza ci benda gli occhi, e l’amicizia ne esce intatta, e l’amicizia ne esce intatta, e anzi si accresce, come se ad alimentarla valessero, dell’amico, più i difetti che i pregi. Che cos’è l’amicizia, in fondo, se non una vicendevole, tacita assoluzione protratta nel tempo?” (111)
Antonio Tabucchi “Piazza d’Italia” Feltrinelli euro 7 (in realtà, scontato a 5 euro)
[A: 16/05/2011 – I: 21/02/2012 – T: 12/03/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 150; anno: 1973]
Era molto tempo che non prendevo in mano un Tabucchi. L’avevo lasciato ai fasti portoghesi (“Sostiene Pereira”) anche se c’era qualche libro che avrei letto con piacere. Ma come gli amori giovanili, mi riveniva sempre in mente il primo che lessi, l’ottimo “Notturno indiano” ed in quel ricordo lasciavo passare libri e tempo. Ora, nel recupero di libri andati, ho invece ritrovato il suo primo scritto, ed ho deciso di affrontarlo. E bene ho fatto. Certo non è un capolavoro che stravolge vita e lettura, ma un onesto libro di quasi quaranta anni, con una sua bella struttura e tanti indizi che poi lo scrittore (allora trentenne) qualcosa avrebbe fatto nella vita. Una storia minima, come direbbe Scola, che si radica nella sua Toscana, tra campagne ed anarchici. Una storia di perdenti ma non di sconfitti. Che hanno nomi astrusi, come solo in Toscana riescono ad usare. Seguiamo così le vicende di una famiglia, che dagli amori per i Mille, decide di mettere ai primogeniti il nome di Garibaldo (che allora non si poteva dar per nome un cognome). E dei fratelli gemelli, Quarto e Volturno. E Gavure, Don Milvio, Asmara, Zelmira e Mangiaghiaia. Li seguiamo per buona parte del Novecento. L’arrivo del Re. La grande guerra (da cui Guidone torna con la friulana). I soprassalti socialisti. Le stampe anarchiche prima e comuniste poi, ma sempre clandestine. I fasci. Ed altri avvenimenti “grandi”. Ma anche tanti piccoli. L’ultimo Garibaldo che cerca fortuna in Argentina, ma impara solo a suonare i tanghi. La vita di paese, con gli amori, le amicizie, gli odi radicati, le mammane, le “curandere” e tutto il coro di gente che in quei paesi viveva al ritmo della natura. Come recita il sottotitolo, seguiamo i tre tempi della vicenda, facendo il tifo che prima o poi Asmara e Garibaldo si decidano a coronare il loro sogno d’amore. Ma il tutto preceduto dall’epilogo (un bel colpo di cinema) che fissa sin dall’inizio l’unica possibile fine della storia. E chiuso dall’appendice di Zelmira che ricevette le confessioni estreme di Don Milvio, e che capiamo, noi che abbiamo seguito le parole pagina dopo pagina. Ma che il vescovo non capirà, mai. Perché anche il sacerdote è un perdente, e nonostante tutta la sua pietas, non riuscirà a trasmettere i germi del sentimento nuovo alla sua terra. Scritto quando già Tabucchi si avviava in quel del Portogallo, riesce a restituirci i sensi della terra, i contadini, i borghi, un mondo che a poco a poco scompare. Per essere sostituito da altro che non avrà più quella forza di coesione che dava la terra. C’è già quel senso di perdita, che tutta l’esegesi futura del mondo di Pessoa non potrà far altro che rinforzare il senso dolente dell’essere che pervade tutti gli scritti di Tabucchi che ho letto. Qui, purtroppo, non c’è neanche quel barlume di possibilità di riscatto che forse altrove appare. Ma è stato piacevole leggerlo, facendomi compagnia nelle lunghe attese di visite di controllo presso le nostre strutture mediche. E alzando gli occhi dalla pagina, con nella testa la campagna pisana, vedevo intorno a me altri e moderni sconfitti. Immigrati in fila per un controllo. Anziani in cerca di improbabili toilette. Pazienti, oltre ogni dire. Tutti, purtroppo, sconfitti dalla vita. E mi torna la voglia di altro Tabucchi. E soprattutto di altro Portogallo!
“Per vincere la codardia … bisogna essere umili. E per essere umili bisogna fare penitenza.” (53)
Così chiudevo. E poco dopo Tabucchi ci lasciava. Certo di altri suoi libri se ne leggerà, ma con un po’ di tristezza in fondo al cuore. Almeno ci resta il Portogallo. 

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