Stefano Benni “La Compagnia dei Celestini” Repubblica Novecento euro
4,90
[A: 2004 – I: 16/01/2012 – T: 19/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 315;
anno: 1992]
Pensavo, speravo, immaginavo
meglio. Per l’affetto verso Benni, la sua scrittura ed il Bar sotto il Mare. Ho
letto diversi tipi di suoi testi, ma rimango sempre legato o a quelli
immediatamente comprensibili (tipo Bar Sport) o alle sue poesie (la mitica
“Dorme il cane nel canile…”). Quando passa a metafore, immagini ed altre
acrobazie linguistiche, dopo un po’ mi perdo e non mi appassiono più. Come in
questa lunga metafora o profezia sull’Italia ed i suoi guasti. Scritta lì sul
margine tra la Prima e la Seconda Repubblica, ma già piena di tutto quanto i
successivi venti anni ci hanno proposto. Colpisce, a ritroso, leggere profeticamente
del berlusconismo, delle sue manie e delle storture che ha portato, come se
fosse scritto anni ed anni dopo. I capelli, le barzellette, le manie, le
televisioni (beh, queste forse erano le uniche già ben note). In un racconto
che si intreccia, anche lì profeticamente, con il calcio (anche se dall’ottica
di Benni, e quindi con qualche idea di speranza) e con la spettacolarizzazione
di qualsiasi vicenda pubblica o privata, anche la più nefasta. L’ossatura della
vicenda è, al solito di Benni, relativamente semplice. Ci sono degli sfortunati
(orfani in questo caso) che vengono vessati in un orfanotrofio religioso.
Fuggono per riabilitarsi, e cercano di partecipare (e parteciperanno) al
campionato mondiale di pallastrada, l’unico tipo di calcio non ancora asservito
allo spettacolo mediatico. In questo aiutati dalla bella bambina Celeste,
discendente della fondatrice dell’orfanotrofio. Infatti, Memorino, Lucifero,
Alì, Deodato e gli altri sono appunti i “Celestini”. Nella fuga vengono ostacolati
dal clero, impersonato dall’esecrabile Don Biffero, dai media guidati
dall’orrido Fumicoli e dalle truppe corrazzate del mafioso Buonommo. Tutti, in
un modo o nell’altro, legati al grande capo di Gladonia (facile metafora di
un’Italia vinta dai massoni del Gladio), il turpe Mussolardi. Su questa
ossatura, Benni costruisce la trama principale, con i Celestini alla ricerca di
orfani – calciatori ed altre avventure, e tutti i rami laterali ed
immaginifici: la storia delle altre squadre di pallastrada, che si intrecciano
dal Brasile alla Cina dalla Lapponia all’Africa, le vicende di Don Biffero (con
tutta la ferocia anticlericale di cui è capace Benni), la scalata resistibile
di Fumicoli (con il sottoprodotto del suo aiutante, una volta partecipante a
cortei alternativi ed ora ridotto a registrare con il video le vicende
mediatiche), i rapporti tra potere e mafia (dove quest’ultima avrà sempre la
meglio). Ogni tanto qualche racconto nel racconto prende per le immagini e/o i
sentimenti che può suscitare (il meccanico Alessio su tutti, ma anche le storie
contorte di Celeste e dei suoi antenati, nonché quelle del famoso cuoco
Passabrodet). Ma sono sprazzi, che tutto è sempre frammisto con travisamenti di
nomi, indicazioni di possibili fatti, letture in controluce di situazioni. E
seppur ammiro la fertile fantasia di Benni, la sua agilità nello scrivere, nel
saltare qua e là e poi tornare al filone principale, tutto questo mi lascia
discretamente freddo e distante. Lo guardo, ma non mi coinvolge, come dicevo. E
la fatica di decrittare tutto ad un certo punto lascia il campo al sorbire il
romanzo così com’è, aspettandone una fine che non può che essere quella che ci
aspettiamo. Non consolatoria, non vincono i buoni, e nemmeno i cattivi. Benni
sembra dirci che, in fondo, non vince nessuno, se non si cambia qualcosa. E gli
unici che possono cambiare sono i bambini, i ragazzi, quelli che fuggono e si
salvano prima del naufragio. Ci sarebbe da fare un bel paragone con la storia
di Saviano che, cambiando tempi e situazioni, sembra essere simile di concetto,
e dove ci si salva solo se ci si ferma prima. Anche perché pure nel racconto di
Saviano si parla di calcio giocato in strada, quasi che volesse aggiornare le
vicende dei Celestini venti anni dopo. Insomma, Benni rimane sempre un caro
amico da leggere quando si può. Non, per me, in queste lunghe performance, ma
magari in qualche altra cosa più breve ed immediata.
Francesco Guccini “Vacca d’un cane” Feltrinelli euro 7
[A: 17/05/2011 – I: 23/01/2012 – T: 26/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 137;
anno: 1993]
Dal ritorno in città alla nascita
della Musica (sì, quella con la M maiuscola, almeno per me). Questo l’argomento
del libretto veloce di Guccini, che fa seguito a quel “Croniche epafaniche” che
lessi molto ma molto tempo fa. Questi sono i libri autobiografici del nostro
cantautore, che ripercorre brandelli della propria vita, a tappe, un po’ come
seguisse il suo amato Fausto Coppi. Non sono le epopee di briganti
dell’Appennino, più politiche e più serrate, quelle scritte a quattro mani con
il grande Loriano. Sono le sue epopee personali, dove utilizza un misto di italiano
e dialetto, un po’ reale e un po’ inventato. Purtroppo, per lui e per la mia
comprensione, questa lingua reale mi è più lontana del pur meno comprensibile
vigatese di Camilleri. Per cui quello si segue facile. E qui, un po’ mi perdo,
nonostante un tentativo di glossario che cerchi di delucidare su radici,
provenienze ed imbastardimenti della lingua. Una volta superato lo scoglio del
linguaggio, rimane questa rapida volata, che parte alla fine della seconda
guerra mondiale, quando Francesco, nato nel ’40, dopo cinque anni di Appennino,
torna nella natia Modena. Anzi, Mutna in dialetto, da cui il suo vezzo di
chiamarla “Città della Motta”. Ci sono alternanze di scritture e di rimandi a
me lettore. Quando entra in prima persona su avvenimenti minuti (dai traslochi
alle corse in bicicletta, dalla fame alla scoperta anche molto discreta
dell’altro sesso, dalle bande di quartiere alle prime bande sui palchi) si
segue bene. Con la dolenza di descrivere mondi che sono scomparsi, che vanno
scomparendo. La prima comunione lisciata per colpa di un’indigestione, ma con
il regalo di un orologio, che come il mio non indossai mai. Il passaggio dai
pennini alla biro. Il freddo delle case. Le prime elezioni del ’48, con la
grande lotta tra Democristiani e Fronte Popolare. I bagni senza bidet. Le corse
sui marciapiedi delle coroncine metalliche delle bevande. Io non ero così
specializzato come loro, ma monomaniaco: solo acqua frizzante MineralNeri
(quella mitica “se bevi neri, ne ribevi”, impagabile). Poi ogni tanto, si
lascia andare a pistolotti vari, a pagine in terza persona con ricerca di
metafore e voli pindarici vari. E qui mi perdo e, purtroppo, si perde anche lui.
Come nel lungo panegirico sull’America lontana, sui miti di là dell’Oceano e
sulla loro (impossibile) trasposizione nella Pianura Padana (che poi risolverà
molto meglio su disco, nell’LP “Tra la Via Emilia e il West”). Meglio tornare
con i piedi per terra, con quell’accenno (unico per cognome) al caro amico
Bonvi, due righe di una delicatezza infinita (che suppongo aggiustate nella
seconda edizione, uscita un paio d’anni dopo l’assurda morte del disegnatore).
Un po’ di corso, il passaggio dalla Modena delle scuole medie alla Bologna
dell’adolescenza (forse più sviluppata nel successivo “Cittanova Blues”), anche
se lì non possiamo non notare le prime scorribande sonore con Alfio
(Canterella, batterista) e Victor (Sogliano, bassista). Che ci fanno ricordare
come all’epoca, io ignorante, mi domandavo perché l’Equipe 84 suonasse quella
bella ballata intitolata “L’antisociale”. Tuttavia, nonostante l’affetto per il
cantante, motivo per cui non parlerò mai troppo male anche dei suoi scritti,
continuo a preferirlo in primis con la musica dietro, ed i secondi insieme a
Machiavelli. Certo, non dimenticherò mai, che il secondo LP che comperai, fu
Folk Beat n.1, e che del grande Francesco avevo tutti gli LP (confessione di
peccati di gioventù, ma neanche tanti, il primo LP che comperai fu “1999” di
Lucio Dalla). E continuerò a volergli bene, come ad un fratello maggiore quando
ci regalò Cyrano. Ma qui è minore, e va detto. Alla prossima, avvelenato.
“Sandocan col quale voli e trasvoli, scordi buio e compiti, che
ti dici, ma se la vita fosse solo leggere e senza compiti e altre balle non
sarebbe più tògo?” (35)
“E capisci che la vita, se vorrai davvero viverla come va vissuta,
nella sua complessa completezza, consisterà solo in una gràan serie di
difficoltà una via l’altra, senza riposo.” (37)
“Ci sono giorni nella vita di fondamentale importanza, momenti che ti
segnano da lì in avanti, ma quando ci sei raramente te ne accorgi o non ci
pensi e dopo non te li ricordi.” (52)
PS: le parole sottolineate sono
scritte così da Guccini, non sono miei errori di battitura. All’epoca inoltre,
tògo era sinonimo di figo.
Paolo Maurensig “Canone inverso” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato
8,20 euro)
[A: 11/06/2011 – I: 08/02/2012 – T: 10/02/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 150;
anno: 1996]
È sempre gradevole la scrittura
del goriziano Maurensig. Contiene tracce di quelle atmosfere austro-ungariche
un po’ alla Marai che predispongono alla bella lettura. Non è riuscitissimo il
libro, nel complesso, ma come mi insegnò la mia maestra di vita, cominciamo con
le note positive che per le critiche c’è sempre tempo. Nel meccanismo un po’
datato della narrazione a scatole (io che racconto e nel racconto si innesta
un’altra trama) esce fuori il potente ritratto di questo musicista ungherese (o
forse sloveno) tra le due guerre. Il tentativo dello scrittore era quello di
riuscire a scrivere qualcosa che sapesse di musica, e per farlo riempie di
musica e parole le scarne pagine. E pur non sapendone di violini (altri
strumenti sono a me più noti e familiari), ci fa partecipi della bellezza e
della sofferenza del suonare. E tra le scatole che si aprono seguiamo l’epopea
di Jenò, il suo amore per la musica, la sua predisposizione, il conservatorio
bello e terribile, l’infatuazione per Sophie, il rapporto di amore fratellanza
con Kuno. E poi la nascita dei contrasti, l’irrompere potente della barbarie
nazista, che spazza via l’Austria e la musica del mondo. Per poi ritrovarci a
chiudere le scatole, vedere (immaginare) la morte di tutti gli ebrei della
vicenda (e ce ne sono). La difficoltà di ritornare a vivere (forse
l’impossibilità). Fino a scoprire identità (facili) e disuguaglianze (meno
pensabili) tra i vari personaggi. Con quell’alone di mistero che lascia tutto
un po’ sospeso, tra sogno e realtà. Quanto ha bevuto lo scrittore. Sarà tutto
possibile? Ma Jenò e Kuno quanti sono? Perché molte domande rimangono infine
sospese, lasciando un po’ a noi la decisione tra scegliere una risposta
razionale o una emozionale. E pur tuttavia ci ritroveremmo a bere buon vino in
qualche bettola fuori Vienna, così come ci insegnava Heinichen nelle sue
osmizze tridentine. Tuttavia (cominciano i punti sospesi), il tentativo di fare
un romanzo di musica non riesce a pieno (forse qualche fine conoscitore, che
sappia di Bach e di Brandeburgo e mi possa spiegare se l’andamento del racconto
sia assimilabile ad un “canone” classico, dove più voci riprendono uno stesso
tema a distanza di vari intervalli, e se sia “inverso”, cioè dove la prima voce
sale la seconda scende), almeno la musica c’è, nello sfondo ma non così
potentemente come sembrerebbe nelle intenzioni dell’autore. E credo di non
ricordare romanzi che siano “musicali” (aiutatemi, se vi sovviene). Scontato è
l’inserimento temporale, e l’equivalenza tra conservatorio e prigione, tra
nazismo e fine della musica. Ce lo aspettiamo fin dall’inizio e puntualmente
arriva. Mentre non mi aspettavo tutte le irrisolutezze, le involuzioni, le
scene madri nel castello avito. Anche lì, i personaggi diventano un po’ troppo
prevedibili. L’unico tentativo dello scrittore è di lasciare un po’ di margini
a quelle atmosfere verrebbe da dire transilvaniche ma forse è un po’ troppo.
Forse si concentra troppo nella lotta titanica benché priva di fisicità quasi
fosse tutta mentale, tra Jenò e Kuno. Quasi a voler riprendere toni
scacchistici, la dove la variante di Lunenberg mi aveva più convinto (sempre
pensando alle “Braci” di cui all’inizio). Purtroppo è il messaggio complessivo
che rimane monco. Si voleva parlare d’amore? D’amicizia? Di schizofrenia? Di immortalità?
Rimane un esercizio di stile, con qualche bel passaggio e, comunque, con una
bella facilità di scrittura e di lettura.
“Per mantenere intatta un’amicizia siamo disposti a fare di tutto.
Sorprendiamo l’amico nell’atto più sconveniente, ma il nostro giudizio si
appanna, la nostra indulgenza ci benda gli occhi, e l’amicizia ne esce intatta,
e l’amicizia ne esce intatta, e anzi si accresce, come se ad alimentarla
valessero, dell’amico, più i difetti che i pregi. Che cos’è l’amicizia, in
fondo, se non una vicendevole, tacita assoluzione protratta nel tempo?” (111)
Antonio Tabucchi “Piazza d’Italia” Feltrinelli euro 7 (in realtà,
scontato a 5 euro)
[A: 16/05/2011 – I: 21/02/2012 – T: 12/03/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 150;
anno: 1973]
Era molto tempo che non prendevo
in mano un Tabucchi. L’avevo lasciato ai fasti portoghesi (“Sostiene Pereira”)
anche se c’era qualche libro che avrei letto con piacere. Ma come gli amori
giovanili, mi riveniva sempre in mente il primo che lessi, l’ottimo “Notturno
indiano” ed in quel ricordo lasciavo passare libri e tempo. Ora, nel recupero
di libri andati, ho invece ritrovato il suo primo scritto, ed ho deciso di
affrontarlo. E bene ho fatto. Certo non è un capolavoro che stravolge vita e
lettura, ma un onesto libro di quasi quaranta anni, con una sua bella struttura
e tanti indizi che poi lo scrittore (allora trentenne) qualcosa avrebbe fatto
nella vita. Una storia minima, come direbbe Scola, che si radica nella sua
Toscana, tra campagne ed anarchici. Una storia di perdenti ma non di sconfitti.
Che hanno nomi astrusi, come solo in Toscana riescono ad usare. Seguiamo così
le vicende di una famiglia, che dagli amori per i Mille, decide di mettere ai
primogeniti il nome di Garibaldo (che allora non si poteva dar per nome un
cognome). E dei fratelli gemelli, Quarto e Volturno. E Gavure, Don Milvio,
Asmara, Zelmira e Mangiaghiaia. Li seguiamo per buona parte del Novecento.
L’arrivo del Re. La grande guerra (da cui Guidone torna con la friulana). I
soprassalti socialisti. Le stampe anarchiche prima e comuniste poi, ma sempre
clandestine. I fasci. Ed altri avvenimenti “grandi”. Ma anche tanti piccoli.
L’ultimo Garibaldo che cerca fortuna in Argentina, ma impara solo a suonare i
tanghi. La vita di paese, con gli amori, le amicizie, gli odi radicati, le
mammane, le “curandere” e tutto il coro di gente che in quei paesi viveva al
ritmo della natura. Come recita il sottotitolo, seguiamo i tre tempi della
vicenda, facendo il tifo che prima o poi Asmara e Garibaldo si decidano a
coronare il loro sogno d’amore. Ma il tutto preceduto dall’epilogo (un bel
colpo di cinema) che fissa sin dall’inizio l’unica possibile fine della storia.
E chiuso dall’appendice di Zelmira che ricevette le confessioni estreme di Don
Milvio, e che capiamo, noi che abbiamo seguito le parole pagina dopo pagina. Ma
che il vescovo non capirà, mai. Perché anche il sacerdote è un perdente, e
nonostante tutta la sua pietas, non riuscirà a trasmettere i germi del
sentimento nuovo alla sua terra. Scritto quando già Tabucchi si avviava in quel
del Portogallo, riesce a restituirci i sensi della terra, i contadini, i
borghi, un mondo che a poco a poco scompare. Per essere sostituito da altro che
non avrà più quella forza di coesione che dava la terra. C’è già quel senso di
perdita, che tutta l’esegesi futura del mondo di Pessoa non potrà far altro che
rinforzare il senso dolente dell’essere che pervade tutti gli scritti di
Tabucchi che ho letto. Qui, purtroppo, non c’è neanche quel barlume di
possibilità di riscatto che forse altrove appare. Ma è stato piacevole leggerlo,
facendomi compagnia nelle lunghe attese di visite di controllo presso le nostre
strutture mediche. E alzando gli occhi dalla pagina, con nella testa la
campagna pisana, vedevo intorno a me altri e moderni sconfitti. Immigrati in
fila per un controllo. Anziani in cerca di improbabili toilette. Pazienti,
oltre ogni dire. Tutti, purtroppo, sconfitti dalla vita. E mi torna la voglia
di altro Tabucchi. E soprattutto di altro Portogallo!
“Per vincere la codardia … bisogna essere umili. E per essere umili
bisogna fare penitenza.” (53)
Così
chiudevo. E poco dopo Tabucchi ci lasciava. Certo di altri suoi libri se ne
leggerà, ma con un po’ di tristezza in fondo al cuore. Almeno ci resta il
Portogallo.
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