Nel senso di classici (libri e/o
autori) di lingua inglese. E di cui ben 3 scritti negli Anni Trenta ed uno
addirittura all’inizio del secolo scorso. Letture tutte interessanti, anche se
non di livelli super-olimpici. Meccanismi, scritture, testi, intrecci. Chi sa
scrivere non ha bisogno di grandi descrizioni iperboliche. Andrebbe bene
l’ecumenico Andate e leggete. Certo, il premio Nobel risente del furore
descrittivo della grande depressione americana. Ed il dandy inglese, a volte
gigioneggia. Ma il trentenne Forster inanella un meccanismo perfetto. E non
posso trovare altro che invitarvi a pranzo al desco di Nero Wolfe.
John Steinbeck “Furore” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out:
23/10/2011]
[tit. or.: The Grapes of Wrath; ling. or.: inglese; anno 1939]
Sono ben due settimane che mi
porto appresso questo librone del Premio Nobel 62. Certo, le 400 e passa pagine
hanno il loro peso. Ma anche la scrittura e la trama in sé. Non che siano pese,
come direbbero i miei amici toscani. Di certo non sono agili, ma lo sforzo
meritava questa interessante lettura. Non lo inserisco nel mio olimpo privato,
che molto risente dei settanta anni trascorsi. Pur tuttavia ha fascino. E da
certi punti di vista, permette di guardare al mondo odierno e di darne qualche
chiave di lettura. Cosa chiedere di più ad un, tutto sommato, buon libro?
Cominciamo dal titolo, forse il punto più dolente. Certo, “Furore” è entrato
nell’immaginario collettivo, ed è inscindibilmente legato alla tipologia di
vicenda delle rivolte dei poveri senza futuro. Ma anche “I frutti della
collera” come recita il titolo originale, non è che fosse lontano da una bella
descrizione del contenuto. Tra l’altro con cognizione, essendo una citazione
tratta dall’Apocalisse. La scrittura di Steinbeck, poi, consente di capire al
meglio un grande numero di scrittori, o tipologie di scrittori, americani di
oggi. C’è questo suo alternare i capitoli: quelli dispari parlano in generale,
esaminano teorie e fatti universali, mentre quelli pari seguono le vicende della
famiglia Joad, presa a campione di tutte le famiglie americane che attraversano
questo grande momento di crisi, che saranno gli Anni Trenta sul suolo
americano. E queste due scritture, ci fanno capire le tirate morali di DeLillo,
la scrittura dura di Cormac McCarthy, l’impegno sociale dei radical, il
minimalismo post-carveriano. Insomma, si potrebbe prendere il libro e tenerlo
come antologia di migliaia di scrittori americani che hanno scritto dal ’40 ad
oggi. La parte sociale pecca a volte di ingenuità e buonismo, ma pone domande
forti ed apre grandi piaghe: banche, grandi società, con la forza del denaro e
con l’industrializzazione forzata delle campagne, invece di riconvertire i modi
di produzione, preferiscono creare nuovi poveri, che sono più facili da
manovrare, da mettere uno contro l’altro. E far arricchire di più i già ricchi.
Che quando queste masse di senza lavoro, scacciati dalle loro terre, come i
Joad dall’Oklahoma, cercano nuovo lavoro nelle piantagioni californiane, i
grandi produttori non fanno altro che sfruttarne la miseria per avere mano
d’opera a basso prezzo. E poiché se si ha fame si accetta di tutto, questi
nuovi poveri non hanno la forza, la capacità, di organizzarsi, che solo facendo
fronte comune potrebbero arginare l’arroganza del potere. Arroganza ribadita
dal potere costituito. Che polizie ed altre istituzioni da una parte applicano
la legge, facendo si che i poveri non accedano a strutture di sussidio.
Dall’altra si schierano comunque con il potere, con il più forte, con il denaro,
e quindi arrestano e spesso uccidono chi tenta di ribellarsi, chi tenta di
unificare le debolezze. Come non leggere in controluce (e fatte le debite
proporzioni dovute al cambiamento della società da agricola ad industriale; o a
pre-industriale, che se leggiamo bene, sacche di arretratezza italiane e greche
attuali, ancora lì sono ancorate) guasti dei modelli attuali. Lì il denaro
comperava le terre, e se ne serviva per altro. Qui il denaro compera il denaro,
ma anche qui il risultato finale è identico. Certo, la critica di Steinbeck è
ancorata al New Deal roosveltiano. Ma fatta salva la prospettiva storica, il
suo anelito a far fronte comune è sempre attuale. Tutta la storia poi, è
riversata nel concreto con l’epopea della famiglia Joad. Espropriata della
terra, come molti agricoltori dell’Est decide la grande traversata verso la
California, attraversando su macchine di fortuna più di 3000 km. La maestria di
Steinbeck è di far vivere alla famiglia tutti quei momenti di cui parla nei
capitoli dispari. L’arroganza delle banche, il depredare povero su povero
vendendo macchine scadenti, la fame, il ladrocinio dei proprietari
californiani. Ed anche le miserie private: la morte di dolore dei nonni, il
ribellarsi di Tom, il maturare di Al, la sfortunata gravidanza di Rosa Tea. Su
tutto, quasi ad ergersi come baluardo, la presa di coscienza della madre, che a
poco a poco diviene il bastone della famiglia, senza la quale tutto potrebbe
andare a rotoli. Ma è lei che tiene uniti (appunto l’unione di cui sopra), ed è
lei che fa vedere la possibilità che in fondo al tunnel ci sia la luce. Sempre
e soltanto se si tiene in vita la luce della solidarietà. Insomma è un bel
libro, faticoso non nego, ma pieno di parole che ci fanno riflettere. E cosa
chiedere di più? Due notazioni per finire: la prima è musicale, come non
ricordare il bellissimo album di Bruce Springsteen dedicato all’eroe del
romanzo (“The Ghost of Tom Joad”); la seconda è di scrittura. Chi, se non un
alto conoscitore delle lingue, per descrivere i rovi che si attaccano alla lana
delle pecore potrebbe usare le seguenti parole: “i raffii rovi roncigli”? E
come sarà l’originale?
W. Somerset Maugham “Acque morte” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2005 – out:
05/11/2011]
[tit. or.: The narrow corner; ling. or.: inglese; anno 1932]
Per 9/10 del libro il giudizio ed
il piacere della lettura si stavano pericolosamente avvicinando agli abissi
conradiani. Le ultime pagine, che tirano fila e annodano discorsi, lo portano
ad un pur basso livello di gradimento e leggibilità. Ciò non toglie che lo
trovo datato e lungo. Non prolisso, che non si perde in inutili spiegazioni (si
va per mare ad esempio, ma non si descrivono le arature dei campi alla
Steinbeck). Ma poteva ridursi ad un racconto, e ne avrebbe tratto giovamento. Perché
tuta la prima parte è una lunga, lunghissima introduzione. Ai personaggi, alle
atmosfere, ai luoghi. Ma è fatta con lo spirito degli Anni Trenta, e ne risente
molto. Sembra che entriamo in un film con Marlene Dietrich che sbarca in
qualche porto dell’Asia. Poi ci immergiamo nel tranquillo americano di Graham
Greene, dandoci ogni tanto un’alzata di gomito alla “Sotto il vulcano” di
Malcom Lowry. Ma non prende la descrizione del dottor Saunders (che immaginiamo
più come Peter Lorre che come Orson Wells) bravo dottore, per oscuri motivi
radiato in Inghilterra, oppiomane e cinico. O quella del capitano Nicholls, il
farabutto che non conosce il confine tra bene, male e tornaconto personale. O
dell’australiano in fuga, un Fred Blake con l’animo di Montgomery Clift senza
angoscia. I tre si incontrano e veleggiano per le isole asiatiche, fino a
sbarcare su un’ex-colonia portoghese poi olandese ora chissà. Dove incontrano
il buon gigante danese Erik e la famiglia Frith, soprattutto la giovane Louise.
E veniamo a conoscerne a poco a poco motivi e ragioni della loro vita. Fred che
scappa non si sa perché. Erik innamorato di Louise (o della di lei madre
morta?). E tanti altri piccoli passi. Ma sempre freddi, esterni. Continuiamo a
guardare questa fauna esotica come se facessimo collezione di farfalle. Poi si
scatenano le torbide acque dell’intreccio che ci aspettavamo da 180 pagine.
Fred seduce Louise (consenziente). Erik lo scopre e si uccide. Fred ne è
colpito e riparte per il mare con il capitano, non prima di aver narrato la
storia della sua fuga dall’Australia dove ha ucciso un uomo. Alla fine in quel
di Singapore, troviamo il dottore (che è stato il personaggio centrale che
abbiamo seguito per le più di 200 pagine) che in un bar incontra il capitano
che gli narra la morte in mare del giovane. E dov’è il giallo? Il mistero?
Certo ci si lascia in sospeso sull’ultima morte. Ma il resto è narrazione, è
trama del romanzo senza fronzoli. Niente in contrario se fosse in una collana
di narratori, molto se la troviamo nelle strade del giallo di Repubblica. Certo
Maugham è prolisso come il suo nome, ma riesce meglio nella concisione della
pronuncia (si scrive lungo ma si pronuncia mawm). E certo è un abile
costruttore di trame, perché alla fine, come in un bel meccanismo, tutto si
incastra. Ma non ha quella fulmineità, come nella bellissima “Lettera”
recensita tempo fa. Finiamo con alcuni appunti ed una domanda. La traduzione
del titolo, che da angolo stretto, in cui viene messo qualcuno alle corde, si
trasforma in acque morte, dove ci si impantana ed affoga. Perché? E perché la
prefazione, dello stesso autore, che spiega la genesi dei personaggi,
illuminandoci su come nasce soprattutto il capitano. Ma questa descrizione
condiziona tutto il romanzo, perché dall’inizio ci aspettiamo quello che
accadrà alla fine. Io l’avrei messa come postfazione. Ed infine una domanda di
ignoranza: ad un certo punto il dottore si rinfresca, si fa vento, con uno
strumento definito come una canna di bambù cava che si mette tra le gambe e
tradotto con il nome di “comare olandese”. Non sono riuscito a capire cosa sia
né a trovarne traccia. Qualcuno ne sa di più?
“Era un uomo tranquillo, di conversazione gradevole, ma alieno
dall’imporla; capace di divertirsi a una sua facezia senza desiderare di farne
parte ad altri.” (23)
“Per lei era una soddisfazione pensarlo immerso nei suoi libri, a
leggere, scrivere, prendere appunti. Lo riteneva un genio, e pensava che tutto
ciò che faceva per lui gli fosse dovuto.” (136)
“Ora so qual è il guaio di quell’uomo… Aveva un sogno e si è avverato.
Ciò che dà bellezza a un ideale è la sua irraggiungibilità.” (148)
“Lei è vecchio, non sa com’è. .. Lei ha cinquant’anni.” (167)
“Non ho mai avuto simpatia per l’ascetismo. Il saggio combina i piaceri
dei sensi e i piaceri dello spirito in modo da accrescere la soddisfazione che
riceve da entrambi. La cosa più preziosa che ho imparato dalla vita è di non
rimpiangere niente.” (142)
“Agli sciocchi e ai furfanti generalmente dispiace subire le
conseguenze delle loro azioni.” (191)
“Gli uomini assennati sono tutti della stessa religione. E qual è
questa religione? Gli uomini assennati non lo dicono.” (195)
“Io sono io. Non voglio sognare un sogno altrui, voglio sognare il
mio.” (205)
Edward M. Forster “Camera con vista” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 09/11/2011]
[tit. or.: A Room with a View; ling. or.: inglese; anno 1908]
Che
bel meccanismo! Un piccolo orologio a cucù che inizia a suonare ma stona. E
l’orologiaio avvita pian pianino tutte le viti giuste, ed alla fine il cuculo
riprende a suonare. Molto, ma molto intonato! (Inciso: orologio a cucù perché
dall’inglese cuckoo che significa cuculo). Forster non è ancora trentenne, ed è
al suo terzo romanzo. Qui, però, spinto da tutta una serie di moti interiori,
riesce a costruire quel meccanismo perfetto che dicevo prima. Come un’azione
teatrale in due scene: la prima a Firenze e la seconda nella campagna inglese.
Con personaggi che assurgono ad archetipi del loro stato: signorine inglesi in
giro per il mondo (e signorine di vario genere, giovani e anziane), bei giovani
con parenti al seguito a prendersi il sole dell’Italia (e le sue bellezze),
canonici di varia natura, maturi giovanotti medioevali, mamme preoccupate più
delle dalie che dei pensieri filiali, ed altre amenità. Il personaggio centrale
è femminile, Miss Lucy, che attraverso varie tappe ed agnizioni riesce
finalmente a capire quale sia la sua propria volontà. Che le donne, nel 1908,
erano ancora prese e stritolate dai meccanismi delle convenzioni. Così come lo
era preso e stritolato il nostro Edward, che cerca di rompere una forte lancia
in questo romanzo per dire che non si deve nascondere il proprio essere. Questo
verrà, dovrà venire fuori. Certo non è facile per il nostro scrittore gay, ma
non lo è neanche per la nostra Lucy. A Firenze avviene il fatale incontro con
il buon George. Ma lei è ancora piena delle convenzioni mondane della pseudo -
aristocrazia inglese. E lui non fa nulla per negare il suo anticonformismo.
Pensate che è convinto che le donne possano e debbano pensare con la loro
testa! Che assurdità. Ma in Piazza della Signoria, Lucy è turbata da una scena
violenta. E George la soccorre. E nella gita a Fiesole, trovatisi soli, George
la bacia. Lucy non capisce nulla e fugge. Prima a Roma. Poi a casa, dove si
svolge il secondo atto della storia. Poi nelle braccia del fatuo Cecil, che
accetta di sposare. Qui Forster dà il meglio di sé. Riesce a dipingerci Cecil
Vyse come archetipo di tutti gli spocchiosi aristocratici londinesi. Che
pensano i campagnoli siano gente da educare. Che deve insegnare a Lucy a
pensare con la sua testa (sua di Cecil ovviamente). Che odia sudare, e si
rifiuta di fare il quarto nel doppio di tennis. Dicevo degli archetipi. Ed
allora riprendiamoli. Come i due sacerdoti: il bonario Beebe, sempre in mezzo
agli avvenimenti cruciali, che pensa il celibato sia meglio del matrimonio, e
l’arcigno Eager, che cerca di mettere in cattiva luce George ed il padre in
quanto … troppo liberali. Ci sono le signorine Alan, sorelle zitelle attempate,
che però, timorose e lagnose, alla fine visiteranno l’Italia, poi la Grecia, e
forse faranno il giro del mondo. Qui Forster ci dà dei tocchi di verismo su
come affrontino i viaggi gli inglesi dell’epoca che sono di un’ironia
deliziosa. E c’è la madre di Lucy, preoccupata dell’apparenza e sorda alla
sostanza. Una donna per cui, se si viene invitati ad un tè bisogna ricambiare
l’invito entro dieci giorni, altrimenti è scortese. E se piove a Londra, meglio
infilarsi in un negozio di vestiti che in un museo. Su tutta questa gente di
contorno, poi, brilla la stella della cugina Charlotte. Antipatica, sempre
fuori misura. Ma l’unica che ha capito fin dall’inizio che poteva nascere del
tenero tra George e Lucy. E sembra fare di tutto per soffocarlo. Ma poi ci
accorgiamo che è vero il contrario, e saranno le sue assurde manovre che, forse
involontariamente, porteranno alla vera conclusione. Quella che tutti ci
aspettiamo. Quella per cui facciamo il tifo, cercando di spingere, noi lettori,
la bella Lucy a ragionare ed a guardarsi dentro. Lo farà fino in fondo?
Riuscirà a mollare il medioevale Cecil per il moderno George? Anche chi non ha
letto il libro, penso lo sappia già se ha visto il bellissimo film di James
Ivory con Helena Bonham Carter nella parte di Lucy e Julian Sands in quella di
George. Lo ricordo ancora, il film, ed è stata una bella sensazione leggere
vent’anni dopo il libro e trovarne una sostanziale sovrapposizione. Sia Ivory
che Forster ci vogliono portare a guardare dentro di noi, ed a smettere di
costruire barriere. Solo quando le abbatteremo riusciremo a percepire la vita
che ci circonda ed a vivere la nostra vita. Ben scritto Edward! Purtroppo non
ben stampato, come dimostrano le due seguenti perle, “Lucy e sua madre fecero
rompere in silenzio” e “Chiese George
immobilizzandola coi gemiti”. Dove invece dovevamo leggere compere e gomiti.
Ah, dove sono finiti i correttori di bozze!
“Voi siete giovani, miei cari, e i giovani,
nonostante tutta la loro intelligenza, nonostante tutti i libri che leggono,
non possono avere idea di cosa voglia dire invecchiare.” (149)
“È facile raccontare la vita, difficile
viverla.” (151)
Rex Stout “Alta cucina” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2005 – out: 13/11/2011]
[tit. or.: Too Many Cooks; ling. or.: inglese; anno 1938]
Uno
dei soliti (quasi) perfetti meccanismi di Stout. Non parlo spesso del grande
maestro del Kentucky, perché di Nero Wolfe ho letto (e visto) quasi tutto in
gioventù. Non credo che riuscirò mai a dimenticare Tino Buazzelli e Paolo
Ferrari nel ruolo dei due protagonisti della saga televisiva (coadiuvati in cucina da Pupo De Luca nei
panni del cuoco Fritz Brenner). Andando a spulciare negli archivi RAI, ho visto
che in realtà furono realizzati solo dieci episodi (a me sembrarono
tantissimi). E l’ultimo, era ispirato proprio a questa cucina di qualità, anche
se il titolo originale era “Troppi cuochi”. E non inferiamo sul a me ignoto
traduttore. Episodio che avevo rimosso, o che comunque non era troppo presente
se non per qualche particolare marginale, e che ho quindi letto e gustato (come
non farlo in un libro di gialli e cucina?). È anche uno dei pochi (non credo
più di tre o quattro) romanzi in cui Nero si allontana dalla casa di arenaria
della 35th Street West di New York. E quando lo fa non si tratta mai
per andare a caccia di assassini (che come confessa, non gli piacciono, anche
se gli fanno guadagnare la vita): in genere sono congressi di orchidee o, come
in questo caso, occasioni culinarie. Qui poi, c’è veramente una ragione
speciale. In una località della Virginia Occidentale, realmente basata sulle
terme sulfuree di “Greenbrier” dove si recò negli anni Trenta anche il Duca di
Windsor e negli anni Sessanta la principessa Grace, si riunisce il club dei
migliori cuochi mondiali, per dar vita ad alcune cene memorabili, ed invitando
Nero a tenere una conferenza sull’apporto dell’America alla cucina mondiale.
Ben inteso, alla cucina di alto livello. Quella che ora sarebbe dei Beck e
degli Adrià, e che una volta era degli Artusi o dei Brillat-Savarin. E durante
una delle serate viene ucciso uno dei cuochi, bravo, ma che si capisce subito,
di un’antipatia più unica che rara, tanto che nessuno sembra realmente
dispiaciuto della morte. Nero poi che non vede l’ora di tornare a casa, non ne
vuole sapere. Solo per salvare l’onore della cucina (in fondo sapere che ci
possa essere un cuoco assassino oltre che un cuoco assassinato) e perché anche
lui direttamente colpito da un colpo di arma da fuoco (di striscio), si dà da
fare. Ed in un battibaleno (cioè meno di 24 ore), smantella l’impianto
accusatorio del procuratore distrettuale e consegna alla giustizia il o i
colpevoli (mantengo il mistero altrimenti che giallo sarebbe). Quello che
risulta in questo quarto libro dedicato all’investigatore (la prima apparizione
di Wolfe è del 1934 e Stout scrive un libro all’anno) è il modo di lavorare (e
di pensare) di Nero. E questa dicotomia che unisce i due filoni anglo-sassoni
del poliziesco: il discorsivo all’inglese ed il movimentato all’americana.
Perché Wolfe sta fermo e pensa (tra l’altro non può certo essere agile con i
suoi 150 chili di peso) e la sua mano Archie Goodwin si muove e pensa poco. Ma
servono le due componenti per risolvere i misteri cui si trova di fronte di
volta in volta. Inoltre, la capacità di Stout è di farci trovare simpatico il
belloccio Archie, che è ironico e spesso a caccia di belle donne (oltre che di
soluzioni). E di farci ammirare i ragionamenti che il corpulento Nero tira
fuori per arrivare ai noccioli delle indagini. Insomma, mi è sempre piaciuto e
continua a farlo, anche se mi rendo conto che a volte non ha grandi spessori.
Ma qui, tra l’altro, stuzzica un’altra corda cui sono sensibile: la buona
tavola. E mi tornano in mente le ricerche che feci a suo tempo, collezionando i
libri di cucina di Wolfe, poi di Maigret, poi della Stein e poi cercando
ricette nei libri (passando per quel compendio del Pranzo di Babette di Karen
Blixen). Una ricerca che meriterebbe essere ripresa (ricordo ancora con piacere
la lettura di un giallo ambientato tra i formaggi regalatomi con tanto affetto
pochi anni or sono). Al fine, come da Hornby e Volo esco fuori con compilation
musicali, qui potrei tirar fuori materiali culinari a iosa, a cominciare dalla
descrizione del famoso “prosciutto della Georgia”. Vedremo.
Speriamo
sia finita l’emergenza neve, che qui a Roma non se ne può più. Bloccati nelle
case, con scarsi autobus, solo potenti letture possono salvarci. Non vi nego
che poi incute pensieri anche la settimana in fronte, con quel culmine di
pensieri che si trascina un venerdì 17…
Per ora chiudiamo la
scrittura, scordiamo gli acciacchi ed il freddo.
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