E si che con questi ho finito gli
stranieri della collana di Repubblica (manca una manciata di italiani ed
archiviamo il tutto). Con i soliti “mostri sacri” che mi dispiacciono nelle
prove più acclamate. Trovo poco leggibile Bellow, una palla mega Faulkner
(anche se la sua scrittura è potente come una citazione biblica). Sempre caro,
oltre l’ermo colle, anche John Fante (e si vedrà perché). Una riscoperta il
grande tedesco che avevo dimenticato, quel Roth che fa Giuseppe e non Filippo.
Saul Bellow “Herzog” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 04/01/2012]
[tit. or.: Herzog; ling. or.: inglese; anno 1964]
L’ultimo
libro cominciato nel 2011 e finito ora, quindi ancora con le informazioni
“vecchio stile” rispetto alle modifiche introdotte quest’anno. Anche se lo
meriterebbe di essere additato ad esempio, che ho impiegato circa 2 settimane,
e forse un po’ di più, per leggere questo libro, assolutamente,
incontrovertibilmente palloso. Volete soffrire? Volete vanificare tutto gli
sforzi di una buona lettura? Mettetevi Herzog sotto braccio, ed avrete questo
ed altro. Ora Saul Bellow è decisamente ebreo, e non nel modo “scanzonato” alla
Woody, ma in quello triste e pensoso dei classici ebrei americani. Era anche
(che è morto sei anni fa, a 90 anni), un letterato a tutto tondo, docente,
compilatore di enciclopedie, ed altri buoni elementi di cultura. E tutto questo
si riflette e pesantemente in questo libro che scrive sulla soglia dei 50 anni.
Ne fa, in un certo senso, una somma etero - biografica ed epigona. Cioè la
vicenda di Moses Herzog per molti versi ricalca alcuni passi della sua storia
(in effetti, Saul come Moses all’epoca è reduce da 2 divorzi, e dall’avere un
figlio ed una figlia dalle sue due divorziate mogli). E ricalca la sua storia
intellettuale. Herzog è un erudito che ha scritto un interessante ed acclamato
libro sul Romanticismo. E che cerca di rinverdirne i fasti. Quindi non ci vedo
nulla di strano che Bellow cerchi di esorcizzare i suoi problemi del momento
riversandoli nella scrittura. Ne esce però un librone di più di 400 pagine
illeggibili. Perché illeggibile? Perché Herzog è (vuol mostrare di essere) un
sapiente, è in crisi, ed allora scrive, pensa, mugugna, fa stupidaggini. Ma
cosa scrive? Scrive lettera a tutti, agli amici, alle ex-mogli, a personaggi
contemporanei (compreso il Presidente Americano), a personaggi del passato
(sopratutto a Nietzsche e Kierkegaard), ed anche alcune righe a Dio. E Bellow
vuol far vedere di essere un tuttologo, ed in queste lettere butta dentro tutta
la sua (e non è poca) cultura. Ed Herzog pensa, si arrovella di tutto, ricorda
il padre morto e i suoi contrasti. I contrasti con la famiglia. E con l’ultima
moglie. In un delirio quasi da psicopatico. Facendo stupidaggini, come girare
con una rivoltella carica, ed avere un incidente di macchina. Prende un treno,
arriva da alcuni amici, ma si sente insofferente, ed invece di presentarsi per
la cena, esce dalla finestra, e con l’aereo torna a casa. Cerca di sfuggire
alla bella Ramona, che però esalta il suo lato sessuale (anche se Bellow rimane
distante dagli abissi esaltati e depressivi di Philip Roth). Herzog sa anche
tutto, che portando allo zoo l’ultima figlia le spiega tutto di pesci e
tartarughe come se fosse uno zoologo di rango. Ed altre e continue amenità, in
tutti i suoi rapporti interpersonali. Ad ognuno parla come se fosse quello il
suo campo, come se fosse il più esperto di. Solo una cosa non gli riesce:
tenere in ordine le case in cui vive, riparare lampadine, aggiustare tubature
ed altre attività manuali (mi ricorda qualcosa…). Non che non sia in grado di
farle: è un tuttologo e se ci si mette riesce anche a dipingere di verde un
pianoforte. Magari ci mette un anno e ci rimette la salute. E dopo tutto questo
andare, girare, parlare, psicanalizzare, impazzire, si sdraia nella sua casa di
campagna e forse medita una calma per il suo futuro. Ma allora cosa c’è che non
va? Non va, cioè non mi va la presupponenza dello scrittore che vuol far vedere
quanto è bravo, talmente bravo che 10 anni dopo gli daranno anche un Nobel
dedicato alla sua “alta comprensione umana”. Tuttavia non coinvolge. Una
cavalcata del genere, nel mondo e nella crisi di un uomo di mezz’età pieno di
problemi poteva indurre in un’identificazione, in un’empatia. Invece, ad ogni
lettera non vedo l’ora che finisca. Ad ogni incontro, mi aspetto un moto di
atteggiamento umano. E via e via. Nulla. Mai nulla. Avevo tuttavia deciso di
portarlo a termine, per capire, per vedere. Non so se ho capito, ma ho visto (e
lo sospettavo) che Bellow non mi piace. Ho letto con più scioltezza i
“Prolegomeni di ogni futura metafisica che si presenterà come scienza” di Kant!
Torniamo a letture più coinvolgenti, vi prego.
“Dunque, lei è un uomo sano – non ha più
vent’anni, ma è forte.” (21)
“Poteva anche pensarsi un moralista, ma la
forma dei seni in una donna aveva grande importanza per lui.” (24)
“Aveva un debole per gli intellettuali
pasticcioni con forti impulsi morali.” (39)
“La luce non viaggia a 300 mila km al
secondo solo per permetterci di vedere mentre ci pettiniamo.” (64)
“Spinoza: è dell’uomo desiderare che anche
gli altri gioiscano del bene di cui noi godiamo, non di costringere gli altri a
vivere secondo il nostro modo di pensare” (153)
“Una volta era un giovane stupidello, e …
adesso stava diventando un vecchio stupidello.” (232)
“Lui pensò … a come, invecchiando, era
diventato vano, terribilmente narcisistico, a come soffriva senza dignità.”
(243)
John Fante “Chiedi alla polvere” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 22/01/2012 – T: 23/01/2012]
[titolo: Ask the Dust; lingua: inglese; pagine: 189;
anno: 1939]
Che dire? Mi era rimasta impressa
la faccia di Selma Hayek che faceva Camilla sullo schermo ed ho impiegato del
tempo per decidermi a leggere il libro di Fante. Il film (a parte Selma) l’ho
già dimenticato. Il libro è più difficile. Da dimenticare e da mandar giù.
Perché Fante – Bandini riesce a farmi esaltare ed arrabbiare ogni poche pagine.
Ma sicuramente ti prende, ti senti lì in California con lui. Ed è un vero
reportage su un certo mondo che vive a Los Angeles, di emarginati, di gente in
cerca di qualcosa, che vive di briciole. Oltretutto sentito fino in fondo, che
quello è ancora il mondo del figlio di immigrati italiani, fuggito dal Colorado
per cercare fortuna nel West, armato solo di una smisurata fiducia nella sua
capacità di scrivere. Fante si sta avvicinando ai trenta anni, e si arrabatta
con lavori occasionali e racconti pubblicati sporadicamente. Ma questo suo
vivere al margine gli da materia per rivestire le sue esperienze, scrivere il
romanzo, ed avere una parte di quella fortuna che pensa di meritarsi. Qui,
Fante si cala di nuovo nel suo alter-ego Bandini, e narra un po’ sé stesso dal
vivo ed un po’ romanzato. Con quell’albergo scalcinato dove puoi entrare dalla
finestra senza farti vedere dalla padrona cui deve settimane di affitto. Con
quel bar, il California Buffet, dove per 5 cent ti metti a sorbire un pessimo
caffè. Con la fauna che popola l’albergo (l’ubriacone, le donne in fuga con
figlia al seguito, le matrone in decadenza), con il droghiere cinese che ti
passa di straforo delle arance con cui sopravvivi. E con quell’ego ipertrofico
che gli fa annunciare ogni due parole: quanto sono bravo a scrivere, quanto
sono geniale, quanta gloria avrò tra poco. In questo mondo ai margini, Bandini
fa due incontri, con due donne ben diverse: Vera, assillata da problemi fisici,
benché nascosti, e Camilla, la splendida messicana, irrequieta e spontanea. C’è
una specie di triangolo aperto sotterraneo, che Vera si prende di Bandini che
si prende di Camilla che si prende … della marijuana. E Bandini trasfigurando
il suo rapporto con Vera scrive il romanzo che gli porterà il benessere (e che
aprirà a Fante le porte di Hollywood dove farà, seppur scontento, per decenni
lo sceneggiatore). Ma non riesce a star lontano da Camilla, la cui verve gli dà
vita e pensieri e voglia di fare. Tuttavia il rapporto non decolla, che la
prima volta che cercano di andare più in là, Bandini fa cilecca. E qui esce
fuori tutta la cattiveria e la rabbia, da americano e da italiano. Da lì, ogni
momento sarà buono per tormentare Camilla, per ripagarla con falsa moneta,
perché non si può ammettere di aver fallito. Camilla però da spirito libero,
non entra in questo gioco di Bandini, ed esce dalla porta più scomoda. Perché è
scontenta della vita, perché non riesce a sopportare la mediocrità in cui vive
dopo essere fuggita dalla povertà messicana. E fugge. Prima nella droga, e poi
verso il deserto, nella polvere. Bandini ogni tanto rinsavisce, cerca di
riavvicinarsi. Ma il solco iniziale è stato troppo violento, e non sarà possibile.
C’è altro nel libro, c’è atmosfera, c’è tratteggio di situazioni interiori
(quel rapporto ossessivo da immigrato italiano verso la religione intesa come
valvola di sfogo quando le cose vanno male), ci sono cammei. Tutto in un libro
che ha più di settanta anni, ma che (a parte il dollaro che aveva tutti altri
valori) si legge con un’attualità sorprendente. Quello che mi respingeva ogni
tanto (seppur scritto bene) è questa incapacità di Bandini non dico di fare un
passo giusto, ma di ragionare in modo incoerente e di agire di conseguenza.
C…o, ma fermati un attimo, pensa! Certo, l’autore si colloca ventenne e quindi
irruento e quindi in formazione. Ma tutte quelle azioni sballate (poesie
copiate male, telegrammi stupidi, parole fatte uscire dalla bocca senza aver
connesso il cervello) mi facevano sentir male leggendole e mi facevano urtare
verso Fante che le scriveva. Direte, ma questo è il mestiere dello scrittore.
D’accordo, ma io sono un lettore umorale, e se i personaggi si comportano male
in modo che non mi piace, mi storco. Però un bel libro, che avrebbe a suo tempo
meritato maggior fortuna, visto che poi solo negli anni settanta fu ristampato
e rivalutato. Hai dovuto aspettare molti inverni, Fante, altro che primavera!
(Inciso finale, che non può mai mancare, sempre grazie a Luana che anni fa mi fece
leggere il mio primo Fante).
Joseph Roth “La Cripta dei Cappuccini” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 20/03/2012 – T: 23/03/2012]
[titolo: Die Kapuzinergruft; lingua: tedesco; pagine: 191;
anno: 1938]
Incominciato
in sordina, all’inizio non mi stava convincendo molto. Poi, pagina dopo pagina,
lievita nell’anima, quasi come un mucchio di farina con un po’ di pan degli
angeli. Ed alla fine non riuscivo più a staccarmene. La storia in sé sembra
quasi fatta di niente. Incontriamo il giovane poco più che ventenne Trotta che
vive mollemente sull’onda stanca della Vienna del secondo decennio del secolo
scorso. È benestante, ha i suoi amici, fatui, benestanti, fintamente nobili,
che si aggirano tra case e ritrovi, contornati da lacchè e belle donne. In
questo mondo che non sa di esistere, si introducono piccoli elementi
dissonanti. Il cugino Branco, venditore di caldarroste della natia Slovenia.
L’ebreo Manes che fa il vetturino. La bella Elizabeth di cui il nostro sente di
innamorarsi, ma come guardando un vetrino al microscopio. E si accumulano
sapientemente pagine su pagine che dipingono un po’ alla Manet questo mondo
slavato, come visto attraverso una pioggia che ne attutisce i colori forti, le
sensazioni rudi. Senza grandi movimenti (e Roth non si interroga, se non con
poche parole sui perché e sui come) questo mondo scivola dentro la catastrofe.
Che prende i connotati della Prima Guerra Mondiale. Trotta, conseguentemente al
suo sentire di nobile lignaggio, decide di sposare Elizabeth prima di partire.
Poi di raggiungere il corpo militare di Branco e Manes (non prima di aver
capito l’inutilità del suo matrimonio, che trova più affetto verso la morte del
domestico che verso la fresca sposa). Lì alla prima scaramuccia, vengono
sbaragliati, fatti prigionieri ed inviati in Siberia. Anche qui, a contatto con
dei sentimenti più veri, sentiti, Trotta si smarrisce. Comincia in fondo a capire
che il mondo è più variegato e complesso di quello che vedeva al mattino
sorseggiando una cioccolata al caffè Sacher. Ma anche la guerra passa, quasi
involontariamente, quasi che anche la morte non li volesse. E Trotta ritorna,
dalla vecchia madre che fino alla morte non capirà bene cosa stia succedendo al
mondo. Benché sempre più poveri ed in bolletta, penserà che la sua casa si
riempia di amici e non di affittuari i cui pochi soldi servono a tirare avanti.
Ritorna dalla sposa, che ha una strana storia di amore ed amicizia con la
scapigliata Jolanth, che forse un po’ lo ama, tanto da donargli un figlio, per poi
lasciarlo quando sente il richiamo della nuova arte, e decide di volare ad
Hollywood (come molte attrici tedesche nello stesso periodo). Ritorna ai vecchi
amici, quelli che non sono morti in guerra. Ma non può ritornare al vecchio
mondo, ormai definitivamente sepolto. Quello nuovo, è solo popolato da
arrivisti, da sfruttatori, da parolai. Prova, con tenacia, ma senza costrutto,
a capirne qualcosa. Ma non ne ha gli strumenti. La sua storia non lo ha messo
in grado di leggere il presente in maniera costruttiva. Abbandonato da tutti, o
anche abbandonando tutti, quel che gli resta è visitare la Cripta dei
Cappuccini, lì dove sono le tombe dei re e dei grandi dell’Impero
Austro-Ungarico. Perché solo quello riesce a comprendere. Il mondo è andato
avanti. Tutto quello che c’è da distruggere dell’idea arcadica della Vienna di
tanti anni fulgenti verrà al fine spazzato via. Non dalla pagina, che si chiude
senza un grido palese di dolore. Ma dal contesto della pagina, che viene chiusa
nel 1938, mentre Hitler trionfalmente annette l’Austria al suo psicopatico
sogno di gloria. Velatamente autobiografico (anche Roth parte volontario nella
prima guerra mondiale, e rimane sconvolto dalla fine del sogno imperiale, dalle
successive assurdità naziste, tanto che fuggirà in Francia, morendovi
alcolizzato a soli 45 anni poco prima dello scoppio della seconda guerra
mondiale). È una ripresa al rallentatore di una caduta verso il basso, in cui
la capacità pittorica di Roth ci fa seguire e capire passo dopo passo
l’avvicinarsi dell’abisso, ed anche l’abisso stesso. Non fa mai tinte forti.
Non urla. Non si erge a didascalico narratore che vuole spiegare con tonnellate
di parole quello che succede. Ha la capacità di descrivere avvenimenti minuti,
e farci capire la metamorfosi di un mondo. Che comincia a dipingere quando è
già un mondo malato (e Roth non lo salva mai, pur guardandolo con occhio di
simpatia). E ci fa precipitare nell’angoscia della sua fine. Ma tutte le sue
parole sono necessarie. Non usa i fronzoli e le peripezie moraviane per farci
capire che è bravo. È bravo perché sente, partecipa intimamente a quello che
scrivere. E ce lo comunica. E lo viviamo con lui. Tanto, appunto, da non poterlo
lasciare finché non entra mestamente nella Cripta.
“Le persone sanno quando partono. Non sanno
mai quando ritornano.” (83)
“Non ero capace di fare i conti, tutt’al più
una somma, se proprio occorreva. Ma una moltiplicazione era già un supplizio.”
(156)
William Faulkner “L’urlo e il furore” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 20/04/2012 – T: 25/04/2012]
[titolo: The Sound and the
Fury; lingua: inglese; pagine: 287; anno:
1929]
Come dice sempre il nostro buon
Baricco, la sua è una scrittura potente. Ma riconosciuto questo pregio, non
posso proprio dire che il libro mi sia piaciuto. Soprattutto l’impostazione del
flusso di parole, che è debitore, e tanto, del travolgente modo joyciano di
portare le ondate di parole che fluiscono in testa sulla carta. Non riesco a
seguirlo in Joyce, come non riuscivo a seguirlo nel più tardo, ma di analoga
impostazione, ‘Cassandra’ della Wolfe. Certo, Faulkner si dimostra un maestro
in questo ma io fatico ogni volta ad arrivare al fondo della pagina. Dicevo
maestro che, anche se ribadisco le difficoltà, ti fa capire quello che succede,
quello che vuole dire. Certo, ben difficile è il primo brano dove entriamo
nella testa di Benjamin, il figlio “disabile” come si dice ora. In realtà, muto
e con problemi psichici. E Faulkner riesce a buttare di getto (per noi lettori)
60 pagine che ci fanno entrare con tutte le scarpe nella difficile testa di Benji,
dove gli avvenimenti si accavallano, i tempi della vita non seguono il loro
ordine, ma arrivano a sprazzi, e poi, noi, ordinati lettori, li ricomponiamo in
una descrizione di quanto avviene in quei tre giorni di aprile. Più lineare il
flusso di Quentin, quando facciamo un salto di quasi venti anni indietro, e,
pur nell’accavallarsi di parole, capiamo che quel Quentin lì, anche lui
dovrebbe avere dei problemi. Certo, non è matto come un cavallo come il fratello,
ma qualche turba, tra lui e la sorella Candace ci deve essere stata. Tanto che
prima intuiamo, poi ci viene detto, che di lì a poco, il buon Quentin si butta
a fiume. Ancora più lineare, proprio perché pare sia l’unico non disabile della
famiglia, sarà seguire i ragionamenti di Jason, il fratello rimasto. Che diventa,
per me, il centro di tutto l’odio che si poteva concentrare sulla pagina, non
mi piace quello che fa, non mi piace come lo fa, non mi piace come ragiona.
Insomma, è l’unico che vedrei soffrire con piacere, ed alla fine, invece, è
l’unico che sembra uscirne fuori con la testa sulle spalle. Poi un penultimo
capitolo in forma descrittiva, dove si tirano un po’ le fila dei discorsi. In
cui vediamo agire in primo piano anche i negri di Jefferson, quelli che servono
la famiglia Compson. E che sembrano avere, nella loro umiltà, gli unici piedi
per terra di tutto il lungo urlo. Perché è tutto un grande urlo il libro. Un
urlo pieno di furore, per la vita, per le difficoltà, per l’ignoranza. Faulkner
ci mette di tutto, di più. Perché vediamo lo sgretolarsi di una cosiddetta
grande famiglia del Sud americano. Siamo anche all’avvicinarsi della grande
crisi del ’29, che finirà per dare mazzate a chi non ha avuto lungimiranze di
tirarsi su le maniche e cominciare dal basso, da molto in basso. Una famiglia
piena di problemi psicologici. Un padre debole, che si ritira ben presto
intorno alle bottiglie. Una madre che prende i colpi della vita con mestizia
senza reagire, anzi quasi a voler esserne contenta (si fa per dire), come se ci
fosse un grande disegno di castigo divino in tutto quello che succede. Che
hanno quattro figli. Il primo ritardato, turbato e mai aiutato (anzi, il più
delle volte lasciato alla pietà dei servitori). Il secondo, quello
intelligente, ma ossessionato dal peccato, dalla morte e dalla sorella minore,
con la quale non si sa se commette o sogna di commettere atti impuri. Fatto sta
che poi si butta nel fiume. La terza, la sorella, che, come dice il fratello
minore, “essendo donna è una puttana”, diventa di facili costumi (sembra o si
dice), ha una figlia fuori dal matrimonio cui mette il nome del fratello
suicida (ci sarà un motivo?) e poi, in seguito ad un paio di divorzi, viene bandita
dalla famiglia. I critici ben informati ci dicono che lei è il vero centro del
libro. Sarà… E poi c’è l’ultimo, il piccolo Jason, che fa una serie di azioni
per me ignobili, ma che essendo l’ultimo maschio di casa “deve” essere servito
e riverito. Finché la madre muore, lui Jason, prende il potere, si sbarazza del
fratello matto, ed avrà una serena (per lui) seconda parte della vita. Ma
questa fine la ritroviamo solo nell’appendice, dove Faulkner decise (su
pressione degli editori) di scrivere le storie dei vari personaggi così da dare
ordine al flusso di coscienza. Ed è la parte peggiore. Perché spiega! Non si
può spiegare un’emozione. O la si capisce, o non è un’emozione da ricordare.
Insomma, certo alla fine viene fuori un potente quadro della pessima vita del
Sud degli Stati Uniti, così come in (pare) tutte le opere di Faulkner. Di cui
ho letto con questo un paio di cose. E mi basta. Non credo che tornerò a
frequentarlo.
Ancora e ancora e ancora tante
scuse a tutti i miei amici che non riesco a sentire così spesso come vorrei,
alle cose che vorrei fare e non si mettono in ordine, alla stanchezza che si
accumula. Insomma speriamo che torni il sound e copra tutta la fury (e che
vadano bene anche tutti gli esami, a cominciare da quelli di mamma).
Nessun commento:
Posta un commento