martedì 26 giugno 2012

Last classics - 10 giugno 2012

E si che con questi ho finito gli stranieri della collana di Repubblica (manca una manciata di italiani ed archiviamo il tutto). Con i soliti “mostri sacri” che mi dispiacciono nelle prove più acclamate. Trovo poco leggibile Bellow, una palla mega Faulkner (anche se la sua scrittura è potente come una citazione biblica). Sempre caro, oltre l’ermo colle, anche John Fante (e si vedrà perché). Una riscoperta il grande tedesco che avevo dimenticato, quel Roth che fa Giuseppe e non Filippo.
Saul Bellow “Herzog” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 04/01/2012]
[tit. or.: Herzog; ling. or.: inglese; anno 1964]
L’ultimo libro cominciato nel 2011 e finito ora, quindi ancora con le informazioni “vecchio stile” rispetto alle modifiche introdotte quest’anno. Anche se lo meriterebbe di essere additato ad esempio, che ho impiegato circa 2 settimane, e forse un po’ di più, per leggere questo libro, assolutamente, incontrovertibilmente palloso. Volete soffrire? Volete vanificare tutto gli sforzi di una buona lettura? Mettetevi Herzog sotto braccio, ed avrete questo ed altro. Ora Saul Bellow è decisamente ebreo, e non nel modo “scanzonato” alla Woody, ma in quello triste e pensoso dei classici ebrei americani. Era anche (che è morto sei anni fa, a 90 anni), un letterato a tutto tondo, docente, compilatore di enciclopedie, ed altri buoni elementi di cultura. E tutto questo si riflette e pesantemente in questo libro che scrive sulla soglia dei 50 anni. Ne fa, in un certo senso, una somma etero - biografica ed epigona. Cioè la vicenda di Moses Herzog per molti versi ricalca alcuni passi della sua storia (in effetti, Saul come Moses all’epoca è reduce da 2 divorzi, e dall’avere un figlio ed una figlia dalle sue due divorziate mogli). E ricalca la sua storia intellettuale. Herzog è un erudito che ha scritto un interessante ed acclamato libro sul Romanticismo. E che cerca di rinverdirne i fasti. Quindi non ci vedo nulla di strano che Bellow cerchi di esorcizzare i suoi problemi del momento riversandoli nella scrittura. Ne esce però un librone di più di 400 pagine illeggibili. Perché illeggibile? Perché Herzog è (vuol mostrare di essere) un sapiente, è in crisi, ed allora scrive, pensa, mugugna, fa stupidaggini. Ma cosa scrive? Scrive lettera a tutti, agli amici, alle ex-mogli, a personaggi contemporanei (compreso il Presidente Americano), a personaggi del passato (sopratutto a Nietzsche e Kierkegaard), ed anche alcune righe a Dio. E Bellow vuol far vedere di essere un tuttologo, ed in queste lettere butta dentro tutta la sua (e non è poca) cultura. Ed Herzog pensa, si arrovella di tutto, ricorda il padre morto e i suoi contrasti. I contrasti con la famiglia. E con l’ultima moglie. In un delirio quasi da psicopatico. Facendo stupidaggini, come girare con una rivoltella carica, ed avere un incidente di macchina. Prende un treno, arriva da alcuni amici, ma si sente insofferente, ed invece di presentarsi per la cena, esce dalla finestra, e con l’aereo torna a casa. Cerca di sfuggire alla bella Ramona, che però esalta il suo lato sessuale (anche se Bellow rimane distante dagli abissi esaltati e depressivi di Philip Roth). Herzog sa anche tutto, che portando allo zoo l’ultima figlia le spiega tutto di pesci e tartarughe come se fosse uno zoologo di rango. Ed altre e continue amenità, in tutti i suoi rapporti interpersonali. Ad ognuno parla come se fosse quello il suo campo, come se fosse il più esperto di. Solo una cosa non gli riesce: tenere in ordine le case in cui vive, riparare lampadine, aggiustare tubature ed altre attività manuali (mi ricorda qualcosa…). Non che non sia in grado di farle: è un tuttologo e se ci si mette riesce anche a dipingere di verde un pianoforte. Magari ci mette un anno e ci rimette la salute. E dopo tutto questo andare, girare, parlare, psicanalizzare, impazzire, si sdraia nella sua casa di campagna e forse medita una calma per il suo futuro. Ma allora cosa c’è che non va? Non va, cioè non mi va la presupponenza dello scrittore che vuol far vedere quanto è bravo, talmente bravo che 10 anni dopo gli daranno anche un Nobel dedicato alla sua “alta comprensione umana”. Tuttavia non coinvolge. Una cavalcata del genere, nel mondo e nella crisi di un uomo di mezz’età pieno di problemi poteva indurre in un’identificazione, in un’empatia. Invece, ad ogni lettera non vedo l’ora che finisca. Ad ogni incontro, mi aspetto un moto di atteggiamento umano. E via e via. Nulla. Mai nulla. Avevo tuttavia deciso di portarlo a termine, per capire, per vedere. Non so se ho capito, ma ho visto (e lo sospettavo) che Bellow non mi piace. Ho letto con più scioltezza i “Prolegomeni di ogni futura metafisica che si presenterà come scienza” di Kant! Torniamo a letture più coinvolgenti, vi prego.
“Dunque, lei è un uomo sano – non ha più vent’anni, ma è forte.” (21)
“Poteva anche pensarsi un moralista, ma la forma dei seni in una donna aveva grande importanza per lui.” (24)
“Aveva un debole per gli intellettuali pasticcioni con forti impulsi morali.” (39)
“La luce non viaggia a 300 mila km al secondo solo per permetterci di vedere mentre ci pettiniamo.” (64)
“Spinoza: è dell’uomo desiderare che anche gli altri gioiscano del bene di cui noi godiamo, non di costringere gli altri a vivere secondo il nostro modo di pensare” (153)
“Una volta era un giovane stupidello, e … adesso stava diventando un vecchio stupidello.” (232)
“Lui pensò … a come, invecchiando, era diventato vano, terribilmente narcisistico, a come soffriva senza dignità.” (243)
John Fante “Chiedi alla polvere” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 22/01/2012 – T: 23/01/2012]
[titolo: Ask the Dust; lingua: inglese; pagine: 189; anno: 1939]
Che dire? Mi era rimasta impressa la faccia di Selma Hayek che faceva Camilla sullo schermo ed ho impiegato del tempo per decidermi a leggere il libro di Fante. Il film (a parte Selma) l’ho già dimenticato. Il libro è più difficile. Da dimenticare e da mandar giù. Perché Fante – Bandini riesce a farmi esaltare ed arrabbiare ogni poche pagine. Ma sicuramente ti prende, ti senti lì in California con lui. Ed è un vero reportage su un certo mondo che vive a Los Angeles, di emarginati, di gente in cerca di qualcosa, che vive di briciole. Oltretutto sentito fino in fondo, che quello è ancora il mondo del figlio di immigrati italiani, fuggito dal Colorado per cercare fortuna nel West, armato solo di una smisurata fiducia nella sua capacità di scrivere. Fante si sta avvicinando ai trenta anni, e si arrabatta con lavori occasionali e racconti pubblicati sporadicamente. Ma questo suo vivere al margine gli da materia per rivestire le sue esperienze, scrivere il romanzo, ed avere una parte di quella fortuna che pensa di meritarsi. Qui, Fante si cala di nuovo nel suo alter-ego Bandini, e narra un po’ sé stesso dal vivo ed un po’ romanzato. Con quell’albergo scalcinato dove puoi entrare dalla finestra senza farti vedere dalla padrona cui deve settimane di affitto. Con quel bar, il California Buffet, dove per 5 cent ti metti a sorbire un pessimo caffè. Con la fauna che popola l’albergo (l’ubriacone, le donne in fuga con figlia al seguito, le matrone in decadenza), con il droghiere cinese che ti passa di straforo delle arance con cui sopravvivi. E con quell’ego ipertrofico che gli fa annunciare ogni due parole: quanto sono bravo a scrivere, quanto sono geniale, quanta gloria avrò tra poco. In questo mondo ai margini, Bandini fa due incontri, con due donne ben diverse: Vera, assillata da problemi fisici, benché nascosti, e Camilla, la splendida messicana, irrequieta e spontanea. C’è una specie di triangolo aperto sotterraneo, che Vera si prende di Bandini che si prende di Camilla che si prende … della marijuana. E Bandini trasfigurando il suo rapporto con Vera scrive il romanzo che gli porterà il benessere (e che aprirà a Fante le porte di Hollywood dove farà, seppur scontento, per decenni lo sceneggiatore). Ma non riesce a star lontano da Camilla, la cui verve gli dà vita e pensieri e voglia di fare. Tuttavia il rapporto non decolla, che la prima volta che cercano di andare più in là, Bandini fa cilecca. E qui esce fuori tutta la cattiveria e la rabbia, da americano e da italiano. Da lì, ogni momento sarà buono per tormentare Camilla, per ripagarla con falsa moneta, perché non si può ammettere di aver fallito. Camilla però da spirito libero, non entra in questo gioco di Bandini, ed esce dalla porta più scomoda. Perché è scontenta della vita, perché non riesce a sopportare la mediocrità in cui vive dopo essere fuggita dalla povertà messicana. E fugge. Prima nella droga, e poi verso il deserto, nella polvere. Bandini ogni tanto rinsavisce, cerca di riavvicinarsi. Ma il solco iniziale è stato troppo violento, e non sarà possibile. C’è altro nel libro, c’è atmosfera, c’è tratteggio di situazioni interiori (quel rapporto ossessivo da immigrato italiano verso la religione intesa come valvola di sfogo quando le cose vanno male), ci sono cammei. Tutto in un libro che ha più di settanta anni, ma che (a parte il dollaro che aveva tutti altri valori) si legge con un’attualità sorprendente. Quello che mi respingeva ogni tanto (seppur scritto bene) è questa incapacità di Bandini non dico di fare un passo giusto, ma di ragionare in modo incoerente e di agire di conseguenza. C…o, ma fermati un attimo, pensa! Certo, l’autore si colloca ventenne e quindi irruento e quindi in formazione. Ma tutte quelle azioni sballate (poesie copiate male, telegrammi stupidi, parole fatte uscire dalla bocca senza aver connesso il cervello) mi facevano sentir male leggendole e mi facevano urtare verso Fante che le scriveva. Direte, ma questo è il mestiere dello scrittore. D’accordo, ma io sono un lettore umorale, e se i personaggi si comportano male in modo che non mi piace, mi storco. Però un bel libro, che avrebbe a suo tempo meritato maggior fortuna, visto che poi solo negli anni settanta fu ristampato e rivalutato. Hai dovuto aspettare molti inverni, Fante, altro che primavera! (Inciso finale, che non può mai mancare, sempre grazie a Luana che anni fa mi fece leggere il mio primo Fante).
Joseph Roth “La Cripta dei Cappuccini” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 20/03/2012 – T: 23/03/2012]
[titolo: Die Kapuzinergruft; lingua: tedesco; pagine: 191; anno: 1938]
Incominciato in sordina, all’inizio non mi stava convincendo molto. Poi, pagina dopo pagina, lievita nell’anima, quasi come un mucchio di farina con un po’ di pan degli angeli. Ed alla fine non riuscivo più a staccarmene. La storia in sé sembra quasi fatta di niente. Incontriamo il giovane poco più che ventenne Trotta che vive mollemente sull’onda stanca della Vienna del secondo decennio del secolo scorso. È benestante, ha i suoi amici, fatui, benestanti, fintamente nobili, che si aggirano tra case e ritrovi, contornati da lacchè e belle donne. In questo mondo che non sa di esistere, si introducono piccoli elementi dissonanti. Il cugino Branco, venditore di caldarroste della natia Slovenia. L’ebreo Manes che fa il vetturino. La bella Elizabeth di cui il nostro sente di innamorarsi, ma come guardando un vetrino al microscopio. E si accumulano sapientemente pagine su pagine che dipingono un po’ alla Manet questo mondo slavato, come visto attraverso una pioggia che ne attutisce i colori forti, le sensazioni rudi. Senza grandi movimenti (e Roth non si interroga, se non con poche parole sui perché e sui come) questo mondo scivola dentro la catastrofe. Che prende i connotati della Prima Guerra Mondiale. Trotta, conseguentemente al suo sentire di nobile lignaggio, decide di sposare Elizabeth prima di partire. Poi di raggiungere il corpo militare di Branco e Manes (non prima di aver capito l’inutilità del suo matrimonio, che trova più affetto verso la morte del domestico che verso la fresca sposa). Lì alla prima scaramuccia, vengono sbaragliati, fatti prigionieri ed inviati in Siberia. Anche qui, a contatto con dei sentimenti più veri, sentiti, Trotta si smarrisce. Comincia in fondo a capire che il mondo è più variegato e complesso di quello che vedeva al mattino sorseggiando una cioccolata al caffè Sacher. Ma anche la guerra passa, quasi involontariamente, quasi che anche la morte non li volesse. E Trotta ritorna, dalla vecchia madre che fino alla morte non capirà bene cosa stia succedendo al mondo. Benché sempre più poveri ed in bolletta, penserà che la sua casa si riempia di amici e non di affittuari i cui pochi soldi servono a tirare avanti. Ritorna dalla sposa, che ha una strana storia di amore ed amicizia con la scapigliata Jolanth, che forse un po’ lo ama, tanto da donargli un figlio, per poi lasciarlo quando sente il richiamo della nuova arte, e decide di volare ad Hollywood (come molte attrici tedesche nello stesso periodo). Ritorna ai vecchi amici, quelli che non sono morti in guerra. Ma non può ritornare al vecchio mondo, ormai definitivamente sepolto. Quello nuovo, è solo popolato da arrivisti, da sfruttatori, da parolai. Prova, con tenacia, ma senza costrutto, a capirne qualcosa. Ma non ne ha gli strumenti. La sua storia non lo ha messo in grado di leggere il presente in maniera costruttiva. Abbandonato da tutti, o anche abbandonando tutti, quel che gli resta è visitare la Cripta dei Cappuccini, lì dove sono le tombe dei re e dei grandi dell’Impero Austro-Ungarico. Perché solo quello riesce a comprendere. Il mondo è andato avanti. Tutto quello che c’è da distruggere dell’idea arcadica della Vienna di tanti anni fulgenti verrà al fine spazzato via. Non dalla pagina, che si chiude senza un grido palese di dolore. Ma dal contesto della pagina, che viene chiusa nel 1938, mentre Hitler trionfalmente annette l’Austria al suo psicopatico sogno di gloria. Velatamente autobiografico (anche Roth parte volontario nella prima guerra mondiale, e rimane sconvolto dalla fine del sogno imperiale, dalle successive assurdità naziste, tanto che fuggirà in Francia, morendovi alcolizzato a soli 45 anni poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale). È una ripresa al rallentatore di una caduta verso il basso, in cui la capacità pittorica di Roth ci fa seguire e capire passo dopo passo l’avvicinarsi dell’abisso, ed anche l’abisso stesso. Non fa mai tinte forti. Non urla. Non si erge a didascalico narratore che vuole spiegare con tonnellate di parole quello che succede. Ha la capacità di descrivere avvenimenti minuti, e farci capire la metamorfosi di un mondo. Che comincia a dipingere quando è già un mondo malato (e Roth non lo salva mai, pur guardandolo con occhio di simpatia). E ci fa precipitare nell’angoscia della sua fine. Ma tutte le sue parole sono necessarie. Non usa i fronzoli e le peripezie moraviane per farci capire che è bravo. È bravo perché sente, partecipa intimamente a quello che scrivere. E ce lo comunica. E lo viviamo con lui. Tanto, appunto, da non poterlo lasciare finché non entra mestamente nella Cripta.
“Le persone sanno quando partono. Non sanno mai quando ritornano.” (83)
“Non ero capace di fare i conti, tutt’al più una somma, se proprio occorreva. Ma una moltiplicazione era già un supplizio.” (156)
William Faulkner “L’urlo e il furore” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 20/04/2012 – T: 25/04/2012]
[titolo: The Sound and the Fury; lingua: inglese; pagine: 287; anno: 1929]
Come dice sempre il nostro buon Baricco, la sua è una scrittura potente. Ma riconosciuto questo pregio, non posso proprio dire che il libro mi sia piaciuto. Soprattutto l’impostazione del flusso di parole, che è debitore, e tanto, del travolgente modo joyciano di portare le ondate di parole che fluiscono in testa sulla carta. Non riesco a seguirlo in Joyce, come non riuscivo a seguirlo nel più tardo, ma di analoga impostazione, ‘Cassandra’ della Wolfe. Certo, Faulkner si dimostra un maestro in questo ma io fatico ogni volta ad arrivare al fondo della pagina. Dicevo maestro che, anche se ribadisco le difficoltà, ti fa capire quello che succede, quello che vuole dire. Certo, ben difficile è il primo brano dove entriamo nella testa di Benjamin, il figlio “disabile” come si dice ora. In realtà, muto e con problemi psichici. E Faulkner riesce a buttare di getto (per noi lettori) 60 pagine che ci fanno entrare con tutte le scarpe nella difficile testa di Benji, dove gli avvenimenti si accavallano, i tempi della vita non seguono il loro ordine, ma arrivano a sprazzi, e poi, noi, ordinati lettori, li ricomponiamo in una descrizione di quanto avviene in quei tre giorni di aprile. Più lineare il flusso di Quentin, quando facciamo un salto di quasi venti anni indietro, e, pur nell’accavallarsi di parole, capiamo che quel Quentin lì, anche lui dovrebbe avere dei problemi. Certo, non è matto come un cavallo come il fratello, ma qualche turba, tra lui e la sorella Candace ci deve essere stata. Tanto che prima intuiamo, poi ci viene detto, che di lì a poco, il buon Quentin si butta a fiume. Ancora più lineare, proprio perché pare sia l’unico non disabile della famiglia, sarà seguire i ragionamenti di Jason, il fratello rimasto. Che diventa, per me, il centro di tutto l’odio che si poteva concentrare sulla pagina, non mi piace quello che fa, non mi piace come lo fa, non mi piace come ragiona. Insomma, è l’unico che vedrei soffrire con piacere, ed alla fine, invece, è l’unico che sembra uscirne fuori con la testa sulle spalle. Poi un penultimo capitolo in forma descrittiva, dove si tirano un po’ le fila dei discorsi. In cui vediamo agire in primo piano anche i negri di Jefferson, quelli che servono la famiglia Compson. E che sembrano avere, nella loro umiltà, gli unici piedi per terra di tutto il lungo urlo. Perché è tutto un grande urlo il libro. Un urlo pieno di furore, per la vita, per le difficoltà, per l’ignoranza. Faulkner ci mette di tutto, di più. Perché vediamo lo sgretolarsi di una cosiddetta grande famiglia del Sud americano. Siamo anche all’avvicinarsi della grande crisi del ’29, che finirà per dare mazzate a chi non ha avuto lungimiranze di tirarsi su le maniche e cominciare dal basso, da molto in basso. Una famiglia piena di problemi psicologici. Un padre debole, che si ritira ben presto intorno alle bottiglie. Una madre che prende i colpi della vita con mestizia senza reagire, anzi quasi a voler esserne contenta (si fa per dire), come se ci fosse un grande disegno di castigo divino in tutto quello che succede. Che hanno quattro figli. Il primo ritardato, turbato e mai aiutato (anzi, il più delle volte lasciato alla pietà dei servitori). Il secondo, quello intelligente, ma ossessionato dal peccato, dalla morte e dalla sorella minore, con la quale non si sa se commette o sogna di commettere atti impuri. Fatto sta che poi si butta nel fiume. La terza, la sorella, che, come dice il fratello minore, “essendo donna è una puttana”, diventa di facili costumi (sembra o si dice), ha una figlia fuori dal matrimonio cui mette il nome del fratello suicida (ci sarà un motivo?) e poi, in seguito ad un paio di divorzi, viene bandita dalla famiglia. I critici ben informati ci dicono che lei è il vero centro del libro. Sarà… E poi c’è l’ultimo, il piccolo Jason, che fa una serie di azioni per me ignobili, ma che essendo l’ultimo maschio di casa “deve” essere servito e riverito. Finché la madre muore, lui Jason, prende il potere, si sbarazza del fratello matto, ed avrà una serena (per lui) seconda parte della vita. Ma questa fine la ritroviamo solo nell’appendice, dove Faulkner decise (su pressione degli editori) di scrivere le storie dei vari personaggi così da dare ordine al flusso di coscienza. Ed è la parte peggiore. Perché spiega! Non si può spiegare un’emozione. O la si capisce, o non è un’emozione da ricordare. Insomma, certo alla fine viene fuori un potente quadro della pessima vita del Sud degli Stati Uniti, così come in (pare) tutte le opere di Faulkner. Di cui ho letto con questo un paio di cose. E mi basta. Non credo che tornerò a frequentarlo.
Ancora e ancora e ancora tante scuse a tutti i miei amici che non riesco a sentire così spesso come vorrei, alle cose che vorrei fare e non si mettono in ordine, alla stanchezza che si accumula. Insomma speriamo che torni il sound e copra tutta la fury (e che vadano bene anche tutti gli esami, a cominciare da quelli di mamma).

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