giovedì 28 giugno 2012

Amore ai nostri tempi/2 - 24 giugno 2012

E con questa chiudiamo anche l’ultima uscita delle iniziative editoriali di Repubblica. Una delle più infelici. Su 10 titoli forse se ne salvano un paio, e per poco. Poco c’è delle idee del titolo della collana (amore ai nostri tempi??). Molto si dibatte su Internet e sul suo utilizzo, ma in modo ripetitivo, a volte un po’ pedante. A fine aprile parlai dei primi cinque titoli, scritti da donne. Ora abbiamo gli altri cinque scritti da uomini. Tre stranieri, tra cui il compianto da poco scomparso messicano che altra fortuna meritava. L’irlandese di cui si dovrà leggere altro che qui non risulta. Ben Jelloun che mi rimane sempre ostico, e qui non si smentisce. Poi c’è Aldo Nove che prometteva bene, per poi naufragare. E tutto sommato, anche se con molte riserve, il curatore della collana, con l’unico titolo passabile dei cinque.
Carlos Fuentes “Vlad” Repubblica Amore euro 3,90 
[in: 04/11/2011 – out: 28/11/2011]
[tit. or.: Vlad; ling. or.: spagnolo; anno 2004]
Con questa lettura inauguriamo la collana di Repubblica dedicata all’amore, intitolata, per l’appunto, “L’amore ai nostri tempi”. Non è il primo volume, ma il volume #8 (si sa che io leggo molto casualmente). E spero che i lettori della collana l’abbiano abbandonata prima di me. Perché se questo è un esempio del contenuto che l’editor di Repubblica ha voluto dare alla collana, direi che sarebbe ora di mandare il suddetto editor a fare altri lavori. Innanzi tutto, non è scritto che nella collana si pubblichino inediti, anche se così sembra dal lancio iniziale. E lo scritto di Fuentes non è certo un inedito, uscito, infatti, in una raccolta di novelle nel 2004 dal titolo complessivo di “Inquieta compagnia” (traduzione mia). Non è certo, tanto meno, un lavoro di argomento inedito e/o insolito. Ora già dal titolo, se uno legge qualcosa che si chiama Vlad quanto meno pensa a problemi vampireschi. Se poi dopo poche pagine, esce fuori che parte preponderante della novella è occupata da tal Vlad Radu, rumeno. I sospetti salgono. Se il tale Vlad, poi, vuole una casa a Città del Messico senza finestre, come diceva il buon Nero Wolfe, due sospetti sono un indizio, tre una certezza. Allora ti aspetti che ci sia qualcosa di nuovo, qualcosa di “spaesante”. D’altronde l’autore è uno dei più rinomati del Sudamerica. Benché nato a Panama (tra l’altro un 11 novembre) è cittadino messicano (il padre era diplomatico). E noto scrittore, ed influente (amico di Clinton e Llorenç Fluxà, dove tutti sanno chi è il primo, mentre pochi sanno che il secondo è il multimilionario padrone del marchio Camper). Riceve numerosi e vari premi internazionali. Insomma, sembrano tutte premesse perché ad un certo punto, la storia del conte Vlad si muti in qualcosa di nuovo. Ed invece corre sui binari banali di un horror alla Bela Lugosi, e finisce come ti aspetti che finisca. Il narratore spaesato, la moglie attratta dall’immortalità e poco altro. Ci vuole del bello e del coraggio, per sostenere qualche idea moderna dell’amore, come si rivendica nel risvolto di copertina. Ma a parte la novità di vedere un vampiro tra le strade asfissianti di traffico della megalopoli messicana, sembra esserci molta più innovazione nelle figure dei vampiri-rosa alla “Breaking Dawn” e simili melense propaggini del bel testo di Stoker. Certo, c’è l’amore tra Jules, il narratore franco-messicano, e la moglie Asunción. Amore fisico, ben raccontato nelle torride notti messicane. Così come c’è amore verso la piccola Magdalena, figlia di dieci anni della coppia di successo, lui avvocato lei immobiliarista. Ma le poco più di cento pagine si trascinano stancamente verso uno stanco e scontato finale. Spero che Fuentes abbia scritto di meglio. E spero che la collana di Repubblica consenta altre e meno banali letture.
Roddy Doyle “Matto weekend” Repubblica Amore euro 3,90 
[A: 23/09/2011 – I: 25/01/2012 – T: 25/01/2012]
[tit. or.: Mad Weekend; ling. or.: inglese; pagine: 88; anno 2006]
Qualche considerazione, in positivo ed in negativo. Libro #2 della collana della collana di Repubblica dedicata all’amore ai nostri tempi e come detto per le altre uscite, una collana che sembrava promettente e si rivela piena di magagnette. Diciamo intanto che è un racconto piuttosto che un romanzo breve (stampato largo per occupare più pagine) anche perché venne scritto per una collana che pubblicava racconti lunghi di autori irlandesi, con caratteristiche fisse (si parla di Irlanda, in qualche modo, capitoli brevi, frasi corte e lingua poco slang). E questi vincoli si sentono, infatti sembra molto costruito, quasi un racconto a tema. E quindi un po’ forzato. D’altra parte non conoscevo la prosa di Doyle se non nella trasposizione cinematografica del suo “Commitments”, che ricordo come uno dei migliori film di quel periodo. Non ho letto “Paddy Clarke ah ah” o “La donna che sbatteva…”. Quindi non so dire se questo modo tagliente di scrivere sia solo per la tipologia sopra descritta o sia una costante dello scrittore. In sé, il racconto è banalino. Tre ragazzi di Dublino, amici per la pelle, decidono di andare a vedere una partita del Liverpool, loro squadra del cuore. E lì, nella città dei Beatles, si perdono. Due, Dave e Pat, solo metaforicamente, prima dietro a due ragazze, poi in una deprimente partita, ed in altre avventure e pensieri di contorno. Uno, Ben, realmente sparisce. Il risvolto di copertina insinua che a questo punto parte una riflessione sull’amicizia e sul senso della vita. A me sembra che comincia una depressione totale dei ragazzi, dei ventenni di Doyle, che non riescono, o meglio non vogliono uscire dalla crisi che li ha portati a quel punto. Poi scopriremo che cosa è successo a Ben, e devo dire la soluzione adottata dallo scrittore anche qui mi lascia perplesso. Come le sue conseguenze. Insomma, un racconto che si regge solo quando parla di pub, di calcio, di ragazze e di bevute. Poi quando cerca di tirare le fila non carbura più. Sembra al più un racconto apologetico per ragazzi delle medie, a cui cerca di dare qualche miraggio all’orizzonte, una meta a cui tendere (fate i bravi, bevete con moderazione, non scopate, o scopate con moderazione, che c’è una sorta di paradiso mussulmano che vi attende). Insomma, il racconto non mi è piaciuto, non mi sono divertito, e rimango perplesso sull’operazione di Repubblica. Spero soltanto che le altre prove di Doyle siano più in linea con la sua fama, e non con questa.
Tahar Ben Jelloun “Incontro crudele” Repubblica Amore euro 3,90 
[A: 21/10/2011 – I: 15/04/2012 – T: 15/04/2012]
[titolo: Cruelle rencontre. Un pigeon à Amsterdam. L’ètreint vide; lingua: francese; pagine: 108; anno: 2011]
Soliti piccoli elementi che continuano a farmi innervosire verso i curatori delle collane edite da Repubblica. Intanto abbiamo 3 racconti e non un romanzo breve. E poi perché chiamarlo con il primo titolo e non con un elemento comune? E gli errori di stampa, come a pag.11 dove si legge: “grazie alle affermazioni di una veggente cui si aggiungevamo molti sospetti da parte sua”. E se qualcuno rileggesse? O ci fidiamo solo delle correzioni automatiche? Nello specifico poi mi scontro ancora una volta (e non è la prima) con la scrittura di Ben Jelloun, autore che per altro ammiro (impegno sociale, ed altro), ma che tutte le volte mi riesce un po’ ostico. Speravo che fosse migliore in uno scritto veloce, ma siamo ancora alle solite. Certo scorre facile (tant’è che l’ho letto in una serata), ma mi lascia distante. Certo, e di nuovo, le tematiche potrebbero (dovrebbero) essere interessanti. Una vista della modernità con gli occhi di un arabo attento alla società civile. Ma se da un lato il primo racconto ricalca solchi ormai abusati, proprio in questa stessa collana (solitudine – internet – chat – e via digitando), dall’altro si affrontano tematiche come la libertà femminile (secondo racconto) o l’omosessualità (terzo), che non sono (spero) solo dell’amore ai nostri giorni, ma sono tematiche più durature. Il tentativo, secondo i curatori, sarebbe quello di vedere i rapporti tra i sessi alla luce dei giovani che escono dalla primavera araba. Frase ad effetto, da marketing. E se è pur vero che Ben Jelloun ci da una visione dall’interno, aprendoci qualche spiraglio su mondi a volte poco noti quando non distorti, qual è il rapporto con la primavera di cui sopra? Il filo conduttore, per me, è più sul versante della solitudine e, ben collegato a questo, della difficoltà di comunicazione. Perché è sola Fathida, bella trentenne in cerca di lavoro, che ogni tanto va ad un Internet point per inviare CV ad aziende e chattare al buio. Con alle spalle una famiglia in crisi, padre e madre che non si parlano. Si rifugia anche in qualche libro, ha qualche avventura di passaggio. Ma poi torna lì, alla solitudine di Internet, fino a convincersi di accettare l’incontro con l’ignoto della chat. Ci aspettiamo cose cruenti (se ne sentono tante) ma sarà solo crudele e non vi dico perché. Altrettanto sola è la sposina dell’ultimo racconto, che si ritrova per convenzione sposata ad un poco noto maschio, che già dalle prime battute capiamo essere gay. E qui sopraggiunge l’incomunicabilità. Capisco che il mondo arabo sia chiuso, ma in tutto il racconto lei non riesce a parlare con Mahdi, a chiedere. Si strugge e basta. E poi, il meno riuscito, quello del pollo, dove seguiamo le vicissitudini di un personaggio pubblico, forse scrittore, che si invaghisce di giovani donne. E soprattutto di lei, bella Biba disinibita. Ma lei vuole forse giocare. O forse vuole altro. Lui organizza un week-end ad Amsterdam con lei, che però non cede alle sue avance. E quando dopo mesi al ritorno, è lei a fare delle avance, è lui che si sottrae. Ed a che serve tutto ciò? La storia è debole, i personaggi stonano. Non è neanche ironica. Insomma, due racconti modesti, ed uno non riuscito. Ben poco per uno scrittore dalla fama di Ben Jelloun. E molto poco per questa forse inutile collana.
“La tradizione marocchina vuole che nelle parole non emergano sentimenti. Questione di pudore.” (9)
Aldo Nove “Elegia” Repubblica Amore euro 3,90 
[A: 18/11/2011 – I: 03/05/2012 – T: 03/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 125; anno: 2011]
Riprendo la mia troppo poco vituperata collana sull’amore fatta uscire da Repubblica lo scorso autunno. Con un libretto di facile lettura, divorato, infatti, tra un’andata ed un ritorno in metropolitana verso il nuovo lavoro. Ed anche portatrice di un duplice sentimento, cullato dal ritmo delle fermate. Di condivisione ed esaltazione all’andata, che mi sembrava finalmente un romanzetto con delle idee interessanti ed un bel modo di scrittura. Di depressione al ritorno, perché le idee della prima parte si sono esaurite, si deve parlare di internet e chat ed altre amenità. E si fa una brutta copia del racconto da poco letto e tramato di Ben Jelloun. I due fanno da contraltare alla scrittura femminile in coppia della Mastrocola e della Maraini, dove anche lì sembrano esserci idee analoghe e sviluppi simili, se non simmetrici. Dicevo della prima parte che mi stava portando verso alti punteggi di gradimento. L’autore eponimo degli scrittori cannibali si imbarca nella scrittura di lettere ad un tal Marco, amico di gioventù che decise un gesto estremo nel lontano ’84. Ed allora quale miglior modo di sfogarsi che trovare una persona cui spiegare tutto, cui dover far capire come, da quel mondo incasinato ma tutto sommato lineare degli anni Ottanta si sia arrivati all’attuale incasinato e frastagliato mondo del duemila? Spiegare a chi viveva l’inizio di certi moti quello che sarebbe successo di lì a poco. La caduta del Muro, e poi del comunismo, che porta a venti di democrazia e stragi in Jugoslavia. L’ascesa di Craxi che poi porta alla caduta della prima Repubblica, ed all’ascesa di SB e della sua sgangherata visione della vita, che tanti guasti ancora ci sta portando. Fino ai problemi di comunicazione. Con il passaggio dai telefoni ai cellulari (e belle sono le pagine sullo stare insieme stando da soli, sul far finta di telefonare per non sentirsi emarginati, e via cincischiando). Con il passaggio dagli elaboratori, ai personal computer, e quindi con l’avvento dei social network. Anche qui, non tanto facile si rivela il passaggio per spiegare l’amicizia su Facebook a qualcuno che di amicizia sentiva parlare sui banchi di scuola. Ecco, tutta questa parte è interessante ed intrigante. Perché è una bella trovata cercare di spiegare l’oggi ad un morto. Certo, la tirata su SB, pur giusta, risulta lenta e poco incisiva. Altri punti sono meglio approfonditi, specialmente il senso della vita che scorre e fugge. Poi, quasi ad obbedire al richiamo dell’editor, si passa ad addentrarsi sui social network, sulle chat, e simili “modernità”. Qui, Nove si impantana, si lascia guidare dai soliti luoghi comuni tra l’uso di chat con nomi di finzione e foto relative, altrettanto finte. È giusto, sono problemi, e spesso male affrontati. Ma qui, come in Ben Jelloun, ci si lascia prendere la mano dal colpetto ad effetto. Che ci aspettiamo da pagine e pagine, e ci lascia freddi. E se vogliamo anche un po’ spaesati: ma caro Aldo, non ti poteva venire in mente qualcosa di più innovativo? Così sembra proprio che tu abbia voluto chiudere la storia in qualche modo, tanto per riscuotere il compenso. Insomma, una seconda parte ed un finale che fanno precipitare il giudizio positivo della prima parte. Peccato. Come dispiace rimarcare la noncuranza dei lettori di bozze che lasciano l’aggettivo “solo” in una frase dove andava il verbo “sono”. Che sciatteria!
“È curioso … vedere la gente per strada che parla [con chi sta] lontano e nessuno che invece parli con chi gli sta vicino.” (57)
“Quello che si fa è quello che è.” (60)
“Sogniamo che gli altri ci vogliano per ciò che siamo.” (94)
Mario Fortunato “Il viaggio a Paros” Repubblica Amore euro 3,90 
[A: 17/10/2011 – I: 14/05/2012 – T: 14/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 121; anno: 2011]
Mario Fortunato mi sembra (anzi sono sicuro) riesca meglio in questo racconto lungo, piuttosto che nella sua opera di curatore della collana, dove, con questo, ho finalmente letto tutti e 10 i libretti usciti. Tanto per rovesciar tutti gli insegnamenti di scrittura, comincio quindi con il dire che le scelte fatte per questa collana che voleva portare esempi di amore ai nostri giorni, non mi sono sembrate all’altezza. Molte ripetizioni (Mastrocola e Maraini, Ben Jelloun e Nove), alcuni elementi forzati (Herta Muller su tutti, ma anche Fuentes seppur dispiaccia che sia in questi giorni morto). Solo due (e su dieci è un po’ poco) che ho letto con piacere. La Rasy, di cui ho parlato, e questo che ho appena finito. Che scorre veloce, giocando su tre registri narrativi in soggettiva, usando la ben collaudata tecnica di Kurosawa in Rashomon per scrivere una moderna versione di Jules e Jim. Seguiamo quindi la prima parte, la giovinezza, con Maurizio. La nascita dell’amicizia con la bella e scontrosa Mo e con il più colto Dav. La vita da orfano, la sregolatezza. Ma anche i sentimenti profondi, le intuizioni allegre. Come l’idea di fare tutti e tre un viaggio in Grecia, all’isola di Paros, dopo la maturità (mitica meta della nostra giovinezza, non contaminata da Mykonos e Santorini). E Mau si prende anche un amore profondo per Mo, con il beneplacito dell’amico Dav. Mo rimanendo incinta (ma non dirà mai di chi), Maurizio cade nel panico ed a seguito di vergogne che non riesce a sopportare (leggetelo) si uccide. Passiamo quindi alla soggettiva di Monica detta Mo. Che partorisce la bella Nina, che prova a vivere nella Calabria natia. Che emigra dai parenti americani, dove trova un buon compagno e mette al mondo un altro figlio, Matt. Che non rivela mai di chi sia figlia Nina. Che solo dopo molti anni comincia a rispondere alle mail di Dav. Il bel colpo di scrittura è che la terza parte viene in soggettiva non da Dav, ma dal giovane Matt. Che alla morte di Mo riceve in eredità la corrispondenza con l’italiano. Che decide di andare in Italia a vedere le sue radici. Che lo incontra e scopre che è gay. Che decide… beh, questo non ve lo dico. Comunque un bel racconto lungo, con buoni ritmi, con un intreccio decente e ben sostenuto dalla scrittura. Pur riecheggiando i temi sopra citati, ne esce fuori un racconto autonomo ed interessante. Per la caratterizzazione dei personaggi, dell’ambiente claustrofobico calabrese, per il tentativo di liberarsene andando nella mitica America e ritrovarsi nell’altrettanto ristretto Ohio. Per la leggerezza con cui si affrontano momenti tragici. Per la serietà con cui si sottolineano passaggi più leggeri. Tutto scorre. E scorre bene. Insomma, si capisce che mi è piaciuto. Direi per finire un bel racconto e … Fortunato (ah, ah, ah).
 “Con i genitori, la strategia migliore per ottenere ciò che si vuole è non dare nell’occhio. … Fagli credere che sei uno tranquillo e si fideranno ciecamente.” (12)
“Le verità del cuore non coincidono quasi mai con quanto si dice e forse anche per questo le parole che ci rivolgiamo sono tanto necessarie e così straordinariamente inutili.” (120)
Chiudiamo in questo giorno onomastico, mettendo qualche paletto per le prossime settimane, sperando che il lavoro non assorba troppo, invidiando i vacanzieri cubani e ipotizzando giornate più fresche

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