E finalmente, forse, finisce la
saga dei corti, con la resa finale (la resa dei corti, ah ah). Ultima tornata
massiccia di info e trame sull’iniziativa del Corriere. Una tornata maschile e
minore, con alcune punte di assoluta illeggibilità (Moccia, Evangelisti e Di
Mare su tutti, o meglio sotto tutti), alcuni momenti passabili (Picozzi,
Bianchi e Colombo) ed un paio di leggibili amenità (Baldini e Carrisi). Come
scrivo in finale, una raccolta altalenante, con alcuni orrori, ma anche con il
merito di avermi incuriosito verso alcuni autori e autrici che conoscevo poco o
niente.
Federico Moccia “La bugia” Corriere della Sera euro 1
[in: 28/08/2011 – out:
20/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Si
potrà mai parlare bene di Moccia? Per ora la risposta continua, e non a caso,
ad essere negativa. Si lesse, anni ed anni fa, il famoso 3MSC, quando non era
ancora un fenomeno mediatico. E quando si rilesse “ripulito e
risciacquato” già non aveva più la forza
di un tempo. E poi, il nostro, sulla spinta paterna, continuò a sfornare
librini e romanzetti sull’onda del successo e sulla stessa tipologia. Amori più
o meno contrastati, sentimentalismi alla Invernizio, senza neanche la grazia
della Sveva. Ora, il 23° inedito del Corriere ci porta questo esile racconto
fatto di niente e che nulla dice. Una giovane pianista va a tenere un concerto a
Stoccolma lasciando a casa il suo innamorato (e rompipalle) ometto. Lì si
imbatte in un coetaneo francese, scocca un’attrazione a prima vista, ma lei è
frenata dall’amore romano. Qualche miserando colpetto di scena, per cercare di
capire se i due si incontrano o meno. Ed anni dopo, senza nessuna transizione,
e senza nessun perché, lei lascia il romano palloso, e va verso lidi altri (e
non certo verso il giovane francese). Ci si domanda quale sia la bugia del
titolo e se mai ce ne fosse una. Forse l’unica bugia è di Sofia verso sé
stessa, quando si dice di amare Andrea. Per il resto, il normale catalogo della
pubblicità occulta, che tanto fa intascare a Moccia, che cita marchi su marchi,
senza nessun criterio particolare. Ha senso parlare di un Felluga da bere alle
8 del mattino? O di Hermes e di Cavalli, senza che siano legati a nulla? Per
colma di sventura (di Moccia) la parte centrale è un mini-riassunto di una
guida alla città di Stoccolma, che guarda caso ho visitato proprio questa
estate. E mentre lui pensa di essere fascinoso, nel citare la casa di Pippi
Calzelunghe (ma è in realtà un museo) o il museo del Vasa o altre viuzze a
Gamla Stan, continua anche lì a far pubblicità quanto meno a Weekday o Beyond
Retro, di cui si premura di fornirci anche gli indirizzi (via e numero civico).
E tanto per terminare con le incongruenze, mi sembra difficile che la giovane
Sofia conosca e canti come se fosse suo amico intimo una delle canzoni di Rino
Gaetano (morto prima della nascita della stessa Sofia) meno conosciute, e
riportando lo stesso testo presente su Internet, e con gli stessi errori
grammaticali!! Finiamo con la ciliegina dell’inglese, dove ad un certo punto
per dire “troppo gentile” invece del consueto “too kind” usa l’onomatopeico
“too gentle” che si usa più per “troppo delicato”. Ma sarà che io conosco poco
le lingue, e conosco troppo Moccia per non innervosirmi.
“è sempre affascinante trovarsi da soli, quasi sperduti, in una città
che non è la nostra, in mezzo a persone che non conosciamo assolutamente e che
provengono da varie parti del mondo, e sentirsi a proprio agio.” (24, la frase
mi ha colpito per questo ossimoro di sentirsi sperduti a proprio agio, anche se
la sottoscriverei proprio togliendo quello ‘sperduti’)
“Avere coraggio significa avere paura, perché senza paura non c’è
coraggio.” (46, e vai con Catalano)
Valerio Evangelisti “Day Hospital” Corriere della Sera euro 1
[in: 28/08/2011 – out:
26/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Chi
si aspettava un raccontino della serie dell’Inquisitore o di qualche altro
eponimo momento dell’immaginifico bolognese, rimarrà deluso. Purtroppo, rimarrà
deluso anche chi si aspettava un semplice racconto, un bozzetto, qualcosa. Non
che siano 50 pagine vuote, anzi sono piene e piene anche di dolore personale,
che seguiamo il buon Valerio (cui vanno tutte le nostre simpatie ed i nostri
auguri) durante il calvario tra la scoperta di un linfoma e la fine delle
sedute di chemioterapia. Ora, come detto, siamo sicuramente vicini ad
Evangelisti e pensiamo ai mesi di sofferenza, ai dolori piccoli e grandi che ha
sopportato, come siamo vicini a tutti color che soffrono, e come non possiamo
dimenticare quando sono stato vicino a mia madre durante il suo piccolo (per
fortuna) episodio tumorale. Ma lo scritto non ci ritorna altro. Certo ci sono
momenti (le empatie durante le degenze diurne, i dolori pre e post flebo, le
difficoltà ad essere autonomo in periodi così difficili) che si fissano nella
memoria, ma non per come vengono riportati, ma in quanto loro, in quanto
momenti esemplari. In quanto se diciamo chemio pensiamo alle persone conosciute che lo hanno fatto (e con le quali
possiamo ancora parlare). Se diciamo formicolio, pensiamo ai nostri formicolii.
E così via. Ma non viene nessun rimando particolare, non suonano né campane né
campanelle. E lo stesso quando, nelle ultime pagine, ci porta i problemi
dell’ultimo anno di vita del padre. Si legge, si manda un pensiero commosso a
chi soffre, e si chiude la pagina. Non ci sono quei pugni nello stomaco che
seguivano la lettura dell’analogo “Profezia” di Veronesi (anche se lì era tutto
sul versante paterno e non personale). Non c’è neanche una riflessione, che
sarebbe personale, ma che poteva esserci, sulla vita e sulla morte. E su quello
che per Evangelisti potesse essere. Capisco che possono essere (sono) tematiche
personali. Ma come ci sorbiamo le frasi di convenienza della contentezza di
aver finito il suo ultimo episodio dell’Inquisitore durante la malattia, ci si
poteva aspettare qualcosa in più. Insomma, mi ha lasciato freddo,
insoddisfatto, e poco convinto: mi domando con che criterio i curatori della
serie abbiano chiesto ai 33 autori italiani di redigere le loro pagine. Avranno
solo detto: mandami almeno sessanta pagine inedite, di qualsiasi cosa non sia
stata da te pubblicata? Certo, così potevano chiederle anche a me, e gli potevo
mandare il carteggio con la Commissione Europea sulle modalità dei rimborsi
delle spese di viaggio. Avrei trovato senz’altro qualcuno che avrebbe gradito.
Eraldo Baldini “Nostra Signora delle Patate” Corriere della Sera euro 1
[in: 01/09/2011 – out:
31/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Non
è proprio un ritorno alle atmosfere gotiche e rurali di Mal’aria, ma almeno
abbiamo abbandonato gli esperimenti a tema tipo Melma per le Edizioni Ambiente.
Qui siamo nel racconto inedito, anche se si tratta di racconto lungo (il doppio
di tutti gli altri inediti del Corriere). E torniamo alla Romagna rurale,
quella di cento anni fa. Nel borgo di Basiago, a metà strada tra Forlì e
Faenza. Siamo nel pieno dei fermenti di inizio secolo e nel piccolo borgo,
stretti intorno all’osteria, si parla di anarchia e di rivoluzioni, ma anche di
chiese e di comunioni. Stranamente, questo racconto che si svolge e si impernia
nel giorno dei morti, l’ho letto in questo Halloween italiano di cui già tanto
male ho parlato. Baldini con mano ferma e qualche tocco, riesce quindi a
sbozzare la rustica vita di paese, gli odi e gli amori, le controversie di
campi, le mancanze di soldi e di cibo, il dotto che possiede (ben) cento libri,
il parroco, la strega del paese che tutti osteggiano ed a cui si rivolgono in
caso di malanni ed altri accidenti. In tutto ciò, si erge la figura della
piccola Maddalena, la figlia della strega, che incontra una Madonna (Sarà vero?
O suggestione del giorno dei morti?) nel campo di patate. Ne nascerà un forte
business, capitanato dai possidenti locali, che hanno mezzi ed agganci. Ma che
vedrà coinvolti, nel bene e nel male, tutti gli abitanti di Basiago. Anche se
la Maddalena dovrà dire delle menzogne per poter salvare capre e cavoli. A fin
di bene, saranno foriere comunque di benessere. Ma sempre menzogne sono, e si
sa, alla lunga i nodi vengono al pettine. Anche qui Baldini ben intreccia
generale e particolare. Perché dieci anni dopo siamo alla vigilia della Grande
Guerra. Ed alle grandi tensioni che si sviluppano nella bassa. Quelle che
porteranno al potere pochi anni dopo l’uomo di Predappio. Fortunatamente la carne
è poca e non si brucia. Baldini non scorda i suoi personaggi ed ognuno lo porta
alla giusta conclusione. Secondo l’indole e le malefatte o benefatte. Non c’è
intento consolatorio nei finali di Baldini. E va bene così. Che la guerra è
finita, ma i patimenti no. E noi ci aspettiamo che qualcosa di buono possa
uscire ai lunghi anni di devozione alla Signora delle Patate. Insomma, buona
scrittura e buona lettura. Non eccelsa, ma neanche irritante. Dai, che il tuo
posto ce l’hai Eraldo. Un unico appunto, quando si disquisisce tra i mezzadri,
sull’acquisto o meno di una trebbiatrice. Mi fa venire in mente l’ambiente di
Furore di Steinbeck, pur se ambientato 30 anni dopo e di là dell’Oceano. Ma
l’accenno passa senza altri approfondimenti, ed il furore rimane nelle lotte
intestine tra poveri che i Fasci di Combattimento innescheranno di lì a poco.
Franco Di Mare “Casimiro Roléx” Corriere della Sera euro 1
[in: 03/09/2011 – out:
02/11/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Non
so per quale confusione mentale (forse la mia desuetudine televisiva) mi sono
sempre confuso tra Franco Di Mare e Mark Innaro, entrambi giornalisti
televisivi, ma abbastanza diversi. Che c’entra direte voi? C’entra perché la
confusione mi portava a collocare Di Mare all’interno della Basilica della
Natività insieme al mio amico Ferdinando. E questo mi faceva seguire le sue
vicende scrittoriche con un occhio di condiscendenza. Ora che finalmente mi
sono tolto questa confusione, ho letto finalmente uno scritto di Di Mare. E non
è che mi sia piaciuto tanto. Cioè, non mi è piaciuto, punto e basta. Certo è
scorrevole, e si legge senza fatica la storia del piccolo malavitoso
napoletano. Un mezzo guappo, di quelli forte con i deboli e debole con i forti.
Cui l’attività principale è lo scippo di … ma guarda un po’ come avete fatto a
capirlo? Sì, proprio dei Rolex dal polso dei ricchi turisti, prima americani,
ora russi che si imbarcano al molo Beverello verso Ischia. Un po’ di folclore
locale, sulla sua vita che gira intorno ai tremila euro mensili che racimola
con gli scippi. La paura del grande salto, che Casimiro non ama le armi. Il
tentativo di passare alle rapine sui treni, in particolare Frecciarossa. E qui
ilo suo tentativo viene stroncato dalla banda dei rumeni che ne ha già preso
possesso. E mi vengono in mente le mie povere amiche cui sparirono valigie
proprio su questi treni che dovrebbero essere sicuri. La vita domestica, con la
moglie che si fa bella perché è la moglie di Casimiro, e porta la figlia Deborah
(Deborah!!) all’asilo più costoso del quartiere. Fino alla nemesi finale che
non vi dico lasciandovi un briciolo di suspense. Ma se siete attenti lettori di
libri potete costruirvela senza tanto sbagliare. Ma quale messaggio ci manda
l’autore? Che a Napoli ci si arrangia? Che ci sono guappi e camorristi? Piccole
note di costume, ma non graffiano, neanche superficialmente. Val più una
virgola di Saviano che tutto un racconto di Di Mare. Dispiace, che poteva
uscire qualcosa di meglio. Qualcosa forse vicino alla prima Parrella (quella di
“Per grazia ricevuta” per intenderci). Quindi niente messaggi, niente
coinvolgimenti, scrittura di sufficienza e poco altro. Non so se ci rivedremo
presto.
Donato Carrisi “Falene” Corriere della Sera euro 1
[in: 03/09/2011 – out:
04/11/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Nonostante
il cognome, l’unica vicinanza con l’Albano nazionale è la nascita in Puglia. E
per fortuna. Che il nostro Donato, pur poliedrico, è meglio che continui a
scrivere e non inizi a cantare. Scrivere cose interessanti, come le commedie,
le sceneggiature e i libri. Anche i racconti, come questo, che ha risollevato
una collana che volgeva al basso. Ha una scrittura che prende, anche se a volte
sorvola troppo (d’altra parte come non aspettarselo da un racconto che si
intitola Falene?). Ma in poche pagine e con pochi tratti ci presenta le tre
sbandate che tirano le fila della storia. Cinzia e Rosi, con i loro problemi
alle spalle (che non a caso le portano al Ferrante Aporti di Torino), ma con un
grande sogno davanti. Certo ognuna il suo, ma c’è. E Tecla, il filo conduttore,
il motore di tutta la storia. Quella che sa esattamente cosa stiano facendo.
Perché ora sono a Taranto a rubare in casa della vecchia. E che sia la vecchia.
E dove sia il denaro. E come fare per punire tutti i colpevoli. Che non sono
questi, ma altri. Quelli che escono fuori dalla storia parallela, che non a
caso viene evidenziata in corsivo. La storia di Tecla, della sua famiglia,
della sorella Mara bella da far paura. E da aver paura lei, tanto che si fa
drogata, prostituta, e già ne prevediamo la non felice fine. Ma Tecla è lì,
piccola, di dodici anni più piccola. Che guarda, cerca, annaspa. E poi ricuce,
tutti i fili. Di Mara, di Angelo il bidello, di Sebastiano, della vecchia
Angelica, dello zio Gino pappone e poliziotto. La pagina è corta, non tutti i
fili si snodano con scioltezza. E, vuoi per scelta, vuoi per lasciare un
piccolo alone di indecisione, non seguiamo la fine della storia di Tecla. La
immaginiamo. La pensiamo. Ne costruiamo noi lettori un possibile esito.
L’indizio del titolo ci guida un po’. Ma sappiamo anche che la falena è solo
una classificazione popolare e non scientifica. Sono sempre farfalle. E forse
le loro metamorfosi non sono finite. Insomma, un buon racconto. E ci si domanda
se i suoi due libri che stanno avendo tanto successo siano o meno da leggere.
Io ancora non lo faccio. Ma chissà…
Massimo Picozzi “Le regole” Corriere della Sera euro 1
[in: 15/09/2011 – out:
08/11/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Non
conosco molto il criminologo Picozzi, se non per qualche scrittura a quattro
mani con Lucarelli, mentre pare sia ben affermato a livello mediatico
(consulente in molte vicende nere degli ultimi anni da Cogne a Novi Ligure).
Devo dire tuttavia che nello scritto non mi è affatto dispiaciuto, continuando
a far risalire la china degli ultimi “Inediti” letti. Non è niente di
eccezionale, ma è un racconto noir ben articolato. Incentrato sulla figura di
un ex-negoziatore dell’FBI che, in crisi dopo aver assistito alla strage dei
ceceni nel Teatro a Mosca, decide di sfruttare le sue conoscenze sull’arte
della negoziazione per scrivere un libro. Si trova così ad accompagnarsi con
tale Nadine, professoressa a Losanna, che sfrutta la sua capacità affabulatrice
per spingere le regole della negoziazione con i rapitori in tutti gli ambiti
della negoziazione tra parti diverse, in primis ad esempio nel mondo del
lavoro. In breve tempo Michael diventa una star ed accumula un grosso patrimonio.
Accorgendosi che la bella Nadine tende a diventare gestrice del suo patrimonio
pensa di trovare il modo di uscirne fuori. Come in tutti i momenti di crisi,
ecco che entra in scena Jane, di trent’anni più giovane, che lo coinvolge in
una giravolta di iniziative e di novità. Gli chiede anche di accompagnarla in
banca a ritirare dei soldi, dove (guarda caso) irrompe un malvivente che tenta
una rapina. Ma c’è qualcosa che va male e loro si trovano ostaggi del
malvivente. Il quale continua a far richieste assurde alla polizia che li
circonda. Michael capisce che prima o poi la polizia farà irruzione e tenta di
utilizzare le sue regole di ingaggio con i rapitori. Ma mentre inizia, la
polizia comincia l’assalto, il rapitore uccide Jane e nella confusione finale
muore il rapitore e Michael entra in coma. Ci metterà mesi a riprendere una
parvenza di vita normale. Fino a che non viene convocato dalla polizia che
sembra aver trovato il bandolo della rapina, con il nostro Michael che capisce
che può essere coinvolto nella stessa. E lì, nel quartier generale, avviene il
colpo di scena finale, che non vi anticipo, ma è tuttavia ben pensato. Insomma
un buon racconto, denso e condensato, che scorre piacevolmente senza voler
dimostrare chissà che cosa, ma lasciando un buon sapore. Come un bel piatto di
caldarroste accompagnato da vino rosso, che questa mi sembra la stagione
giusta.
Matteo B. Bianchi “Al sangue” Corriere della Sera euro 1
[in: 17/09/2011 – out:
10/11/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Se
molti erano poco noti, tra gli autori degli inediti, questo più o meno giovane
milanese mi è del tutto sconosciuto. Non è che sia accio, ma questo racconto
sembra proprio un compitino. Ben svolto, ma lì dove si è partiti con un’idea, e
la si porta in fondo (a fondo?). L’idea è il rapporto con il diverso da noi. Lo
accettiamo? Riusciamo ad interagire con lui? Lo vediamo come fenomeno da
baraccone? Come fare per entrare in una sintonia non di facciata? Per non
svolgere un compito veramente banale, Matteo si immagina una situazione
decisamente altra. Una situazione dove cominciano a comparire, in mezzo al
viver civile, degli zombie. Dei resuscitati e non ancora morti definitivamente.
Ma non degli zombie alla Romero, quelli dei film trash che inseguono i vivi e
se li vogliono mangiare per tornare e/o continuare a vivere. Ma degli zombie
pseudo – normali, che si aggirano sconsolati, con tutte le caratteristiche
dello zombie, meno la truculenza. L’eroina del nostro racconto ne incontra una,
di zombie, tal Elena senza un braccio. Ed invece di lasciarla lì, esterna,
cerca di comunicare con lei. Le procura un abito pulito. La salva dai lazzi dei
ragazzi. E finisce per invitarla a cena. Certo Elena non parla, si muove da
zombie. Ma sembra connotare una vena di tristezza nel suo essere al di là di
una parete di incomunicabilità. Mentre si svolge il racconto, Matteo ci da
anche qualche tocco di vita cittadina e provinciale. Qualche assaggio di
rapporti tra amiche, e di piccoli rimpianti sul tempo che passa. Ottima la cena
con le tigelle (da rifare). Poi si torna al nodo. Paola fa il salto e cerca di
stabilire un ponte con i diversi. Il resto della cittadina continua a vederli
come fenomeni e curiosità e niente altro. Insomma, l’idea è carina. Il racconto
scorre decentemente. Purtroppo non c’è nessun “sussulto”, nessun momento di
particolare vena creativa. Si arriva alla fine. Si aspetta qualche colpo di
scena che non arriva. Si guarda a quello che succede sapendo già, o abbastanza,
quello che ci si può aspettare. Un finale in calando, sia del racconto, sia
della colonna, che giunge al penultimo numero.
Matteo Colombo “Magari disturbiamo” Corriere della Sera euro 1
[in: 22/09/2011 – out:
12/11/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
L’autore,
giornalista poco più che trentenne, è il vincitore del premio degli Inediti del
Corriere. Ed il premio è la pubblicazione. Il racconto è un garbato compitino,
senza particolari voli. Forse anche un po’ scontato. Ambientato in un paesino,
probabilmente vicino Voghera (ma dov’è Voghera?), patria di sportivi come tutta
la provincia italiana. Lì vive ed ora muore un grande ciclista, un velocista.
Ma noi seguiamo in terza soggettiva (grazie Fako) il suo alter-ego. Il gregario
che gli tirava le volate. L’uomo che stava nell’ombra dei suoi successi,
pubblici nelle corse e privati verso le donne. Che si sa gli sportivi sono
grandi tombeur de femme. E la morte di Orfeo dà modo a Biagio di ripercorrere
alcuni momenti della loro vita e della loro carriera. Ma soprattutto quello del
loro ritiro. Quando se ne vanno dal Giro d’Italia del ’79, e se ne vanno per
andare al circo. Il circo Togni, all’epoca una gloria nazionale. A vedere il
grande clown Romualdo. Ma innanzi tutto, o alla fine di tutto, lei, Isabella, l’equilibrista
sul filo ed il suo magnifico spettacolo di volteggi a 6 metri dal suolo.
Isabella, diciassette anni, incanta i due ciclisti quasi quarantenni venuti a
vederla abbandonando a posta la corsa. Poco altro succede, qualche colore
locale. Qualche rimpianto (forse) in Biagio che sempre gregario rimane, anche
ora che di anni ne hanno sessanta e passa. Anche ora che Orfeo muore. Ci sarà
un piccolo colpo di scena finale, che forse ci aspettiamo già e ce ne sono
tutte le premesse. Ma rimarrà ancora un punto interrogativo, che non svelo
neanche sotto tortura. Insomma, come detto, un buon compitino. Un buon premio
per la scrittura. Ed una abbastanza degna conclusione di una colonna che,
nonostante altri e bassi, ha il pregio di mettere in mostra ed in fila un buon
numero (più di 30) di autori italiani. A cimentarsi con la dimensione racconto,
una delle più difficili, e verso le quali sono sempre molto critico. Ma tutto
sommato, una raccolta interessante. Mi dispiace solo di aver lisciato la prima
uscita di Saviano e di non essere riuscito più a ritrovarla.
Ed
ora, via ad affrontare una settimana veramente dura, con tutta una serie di
impegni che si accavallano, e che vedrà anche un difficile ritorno in quel di
Bruxelles per una presentazione europea. Vediamo di unirci tutti per
affrontarli al meglio.
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