domenica 3 giugno 2012

Inediti 3, il ritorno - 15 gennaio 2012

Terza tornata degli inediti del Corriere. Come tutte le saghe a più puntate, dopo l’inizio e la vendetta, il terzo tempo è dedicato al ritorno. In questo caso, al ritorno delle scrittrici, che questa trama a loro è dedicata. Anche se non è un ritorno felice. Poche me ne sono piaciute, Michela Murgia e Benedetta Cibrario su tutte. Un buon posto, anche se minore alle aspettative, per Valeria Parrella e Antonia Arslan. Di rincorsa Carla Vangelista. Negative la Modignani e Maria Pia Ammirati. Da cestinare Federica Bosco.
Benedetta Cibrario “Villa Vallestì” Corriere della Sera euro 1
[in: 27/05/2011 – out: 25/08/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Avevo letto con piacere, anche se qua e là con qualche riserva, il suo “Rossovermiglio”. Ora, alla prova racconto (e forse proprio perché più che un racconto è quasi un romanzo breve), devo dire che la Cibrario si presenta con notevole forza e sicurezza, sfornando una delle migliori prove sui corti che abbia letto sino ad ora. Non la prima in assoluto, ma sicuramente nel gruppo di testa (che non è neanche tanto folto). Come se fosse un marchio di fabbrica, anche in questa prova ci imbattiamo in una saga familiare. Cioè in un intrecciarsi di azioni ed emozioni intorno a personaggi legati da qualcosa di comune. Che qui è rappresentata dalla villa del titolo, Vallestì nel linguaggio popolare campano, Wallenstein come recita il nome originale. Siamo ancora collocati in un tempo passato (qui l’azione si svolge alla fine degli anni cinquanta). Incontriamo man mano (ed ognuno ci viene presentato in poche righe ma con un bel tono) la bella Iris, il ricco e inconcludente Filippo, con tutta il peso della famiglia Dragonara alle spalle, ed il soldato inglese Marcus, rimasto zoppo in guerra, e quindi rimasto lì ai piedi del Vesuvio per coltivare la sua passione per i dipinti. Iris sposa Filippo e vanno a vivere in villa, dono di nozze del padre, che rimarrà loro se avranno un erede entro cinque anni. Filippo vuole rimettere in sesto la villa diroccata ed il pittore Marcus decide di occuparsi del restauro delle antiche pitture. Destini che si incrociano, poche parole, molti sguardi. Con anche i personaggi di contorno che sbucano e fanno la loro. Dall’avido fratello di Filippo, a Maria l’infermiera che cura ed accudisce Marcus, da Don Masino ai parenti di Iris. E con lo sfondo del Vesuvio, lì dove, nel libro del romanzo, c’era la campagna toscana. La Cibrario ben conduce la danza, anche sfruttando l’ovvio, come il facile prevedere dell’innamoramento tra la bella ed il pittore. Ma la conduce con mano ferma, fino ad una bella conclusione che rende felicemente sia l’atmosfera della lettura, sia la lettura stessa. Insomma, sarà anche che l’ho letta in uno dei più brutti e claustrofobici alberghi della mia vita, mi ha dato un soffio di aria fresca e di libertà, che mi fa pensare al secondo libro della nostra. Mi sa che sarà da leggere.
Sveva Casati Modignani “Un amore di marito”Corriere della Sera euro 1
[in: 25/07/2011 – out: 22/09/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Non ho mai avuto una grande predisposizione per il cosiddetto genere “rosa” (a parte qualche chicca giovanile di Carolina Invernizio, ma più che altro come super-esempio di kitsch d’epoca) e devo dire che la lettura di questo primo racconto di genere mi conforta in questa pluriennale decisione. Non so se, quando era vivo il marito Nullo, gli scritti suoi con la moglie Bice avessero più carattere. Sì, perché il nome altisonante (che ho sempre storpiato in Modigliani) nasconde il sodalizio tra Bice Cairati e Nullo Cantaroni, e dove lo pseudonimo viene ancora usato dalla signora Bice anche dopo che nel 2004 è deceduto il marito. Detto infine che sotto questo nome sono stati pubblicati più di 20 libri con un grande successo di vendite, veniamo a questo racconto. Che è banale, scontato, e senza un briciolo di appiglio di interesse. Alberta è sposata da 18 anni con Leo, non hanno figli, lui sta scalando i vertici della multinazionale in cui lavora (è direttore marketing), lei fa la commessa di lusso in un negozio di intimo in via Montenapoleone. Lei non è particolarmente bella, ma lui, ragazzo ventenne, se ne innamorò perdutamente, e volle creare una famiglia con lei, facendole lasciare gli studi, ma colmandola di ogni attenzione. Lui inoltre è anche orfano (che non guasta un po’ di sfortuna ogni tanto). Alberta sente che ultimamente il buon Leo è un po’ freddo, distante, scostante, forse perché non riesce ad ottenere una promozione verso la vetta per un problema di ignoranza del tedesco. Ma Alberta, vedendolo di spalle in un ristorante con una bionda, pensa che sia per un problema di corna. E su questa nota di interpretazione, la Sora Bice (come direbbe la Valori) costruisce tutte le sue sessanta pagine di nulla. Che fin dalla prima riga del primo SMS si capisce come stanno le cose. Noi smaliziati lettori speriamo che la scrittrice ci sorprenda con qualche colpo di coda finale, rovesciando situazioni, ed altre amenità. Ed invece niente. Tutto procede nel solco del più banale scrivere mondano. Nessuna invenzione, nessuna sorpresa. Tutto finirà come ci si aspetta fin dall’inizio. Comprendo che a volte il lettore abbia bisogno di sicurezze per non essere spazzato via dal terribile maremoto della vita odierna, con tutti i suoi guasti ed i pochi momenti di felicità. Ma questo sembra peggio di un brutto sceneggiato pomeridiano di Canale 5. Lettura antropologica, ma non credo che frequenterò spesso la mielosa isola della Sveva.
Valeria Parrella “Behave” Corriere della Sera euro 1
[in: 29/07/2011 – out: 03/10/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Siamo all’inedito #18 ed è un po’ che non li trovo molto coinvolgenti. Anche questo, da cui mi aspettavo qualcosa in più, che la Parrella mi era sempre piaciuta, non mi sembra sia del livello di altre sue prove. Non c’è l’ironia cattiva, ma anche l’empatia di cui primi “Mosca + balena” o “Per grazia ricevuta”. Sarà che anche qui, ci si trasporta altrove, collocando la storia in una Liverpool a metà tra sogno e realtà. Sarà che anche qui, l’autrice cerca di calarsi in panni maschili, e sono sempre operazioni che non mi convincono. Assistiamo quindi al lungo monologo di Buddy, un marinaio che ha deciso, per le alterne vicende della vita, di fermarsi, di scendere a terra. Lì dove lo aspetta la moglie Jude, sempre più involuta nelle sue paure, ed il figlio Brandon, affetto da una qualche forma di disabilità. Sembra autistico, ma parla troppo per esserlo. Tutta la storia passa lì, mentre Brandon cerca un posto a sedere in pub, rimanendo minuti e minuti ad aspettare e Buddy a guardarlo, senza intervenire (giustamente) ma anche senza sapere che fare. Che intanto la moglie Jude è morta di crepacuore per non sapere come fare con il figlio. E lui rimane lì. Ripensando a quando stava per mare, dove a volte di notte non si sapeva dove ci si trovava, con il mare sopra, sotto, davanti, dietro. Senza punti di riferimento. Ma lì Buddy sapeva cosa fare. Ora non più. E questa la domanda, che fin dal titolo ci pone la Parrella. Titolo che si riferisce al pub di cui sopra, e che viene da “To Behave” cioè “Comportarsi”. E perché nella vita nessuno ti insegna come comportarti, né ti dà il benvenuto, così come non c’è una scritta Welcome quando entri al Behave inteso come pub. Ecco, sembra una prova un poco forzata, come se la Parrella dovesse rendere un omaggio alla città dove risiede l’editore che ha pubblicato in inglese suoi racconti. Certo, la scrittura corre facile. Ma Buddy non ha più spessore di uno stereotipo che sa solo andare via (uno che sta bene altrove) ed a casa guarda solo le grosse tette della barista. Insomma, mi è piaciuto poco e speravo qualcosa in più. Tuttavia le notizie delle ultime prove della Parrella mi confortano. Forse “Lettera di dimissioni” sembra migliore. Chissà!
Maria Pia Ammirati “Le voci intorno” Corriere della Sera euro 1
[in: 06/08/2011 – out: 10/10/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Non conoscevo l’autrice e non è che ora abbia voglia di conoscerla di più. Cioè, so chi è, della sua direzione di UnoMattina in Rai ed altre telvisionate, ma non ne avevo letto. E non ne leggerò per un po’. Mi è sembrato un racconto non solo fasullo, ma volutamente strappalacrime, che cerca di dire, fare o dimostrare qualcosa, ma con tanto sforzo che alla fine, pur cercando di entrare nella logica, mi ha lasciato solo un po’ di fastidio. La storia si divide in due parti ben distinte, come scrittura non come personaggi. Nella prima vediamo lo sballo dei ragazzi pre-maturi (17 anni e giù di lì) con i vari mix di alcool, droghette e sesso. Tutto narrato con un po’ di “puzza al naso”. Poi, come sbagliarsi, l’incidente. C’è chi muore e chi va in coma. E qui c’è tutta la seconda parte, vista con la testa della persona in coma, che non vede ma sente “le voci intorno”. Ora non è certo facile dare la voce a persone in questo stato (quanti sono tornati indietro e riescono a raccontarlo?) e soprattutto renderne il clima. Io l’ho letto sentendomi molto distante dalle parole. Anche se le capisco. Anche se penso che non sia facile dirimere se sia vita una vita vegetativa. Certo, il tentativo della scrittrice è di creare una situazione che ribalti il paradigma di Welby, che poteva comunicare ma che sceglie di morire. Qui la persona (e continuo a non dirvi chi è) non comunica ma fa capire che non sceglie di morire. Certo è difficile, e forse ad un certo punto anche dal coma è bene uscirne in qualche modo, forse morendo. Ma non viene alla luce un dibattito lucido. Vediamo (o meglio sentiamo) il padre, la sorella, le infermiere, i dottori. E sentiamo i ragionamenti di chi cerca di tenere il conto dei giorni, di seguire un filo al tempo che passa. Ma poi il tempo passa e… a che serve tutto ciò? L’autrice sembra non prendere posizione, ma nello stesso tempo, induce a pensare che comunque dall’altra parte del coma la coscienza è vigile ed è solo una barriera difficilmente superabile che impedisce la comunicazione. Non so, non mi convince. Non mi convince mettersi in una parte difficile da controbattere. E difficile in assoluto dire dove siano i confini del lecito. E, per finire, non mi piace neanche il modo di scrivere della Ammirati, che mi rimane freddo ed esterno. Pone un problema, questo sì, ma da lì farei nascere altri dibattiti. E poi lo strappalacrime della seconda parte fa dimenticare le cose che vengono in mente nella prima, sui ragazzi sballati. E su come, anche qui, la Ammirati non è che si ponga in maniera convincente. Ripeto, per me. Ma il dibattito può nascere.
Federica Bosco “L’artista” Corriere della Sera euro 1
[in: 28/08/2011 – out: 14/10/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Incongruente, inconsistente, sbagliato, scopiazzato. Non so se nei romanzi la Bosco sia meglio di questi racconti che ho letto. Questo è il secondo e mi è piaciuto meno del primo. Ma se un suo romanzo si intitola “101 modi per riconoscere il tuo principe azzurro (senza dover baciare tutti i rospi)” non è che prometta bene. L’esile trama potrebbe venir nobilitata solo trasformandola in una sapida commedia hollywoodiana. Dove si potrebbe trovare una Julia Roberts innamorata persa di uno sballato Jim Belushi che suona la chitarra in un gruppo rock, che non risponde al telefono, che manca tutti gli appuntamenti. Ma quando viene, a Julia saltano tutti i freni e cade sdilinquita ai suoi piedi senza chiedersi perché non dica mai una parvenza di verità. Certo Jim fa il buffone, la fa ridere, fa cose pazze. Poi si eclissa e lei cade nella disperazione. Fortuna che c’è Rupert Everett che cerca di farla ragionare, cerca di farle una terapia del distacco. E quasi ci riesce. Ma Jim riappare e lei cade come una mela matura. Solo quando si rende conto che il suddetto Jim è non solo sposato, ma non ha intenzione di lasciare moglie e figlia, la nostra Julia fa cadere tutte le fette di prosciutto che aveva sugli occhi. Lo manda a…, si licenzia, ed apre un bel ristorantino con Rupert. Togliete tutte le cose belle che può avere questa trama, ed avrete l’inconsistente racconto della Bosco. Incongruente a tratti, poi, quando ad esempio lui le vanta un concerto in un centro commerciale, lei ci va e lo trova deserto. E quando lo rivede e lui gli dice che è andato ad un concerto a Canazei (la scena si svolge nel centro Italia), lei non gli chiede il perché della buca al centro commerciale. E questo è solo l’esempio più lampante. E poi sbagliato nel proporre una visione dei personaggi che non hanno un briciolo di idea autonoma, che “cercano sognando il grande amore”, e dove il massimo della bella serata è rivedere “Mad Men” in Tv per la 25^ volta. E l’artista, il Jim non è nel pieno della tarda adolescenza, ma è un egoista fatto e finito che non può accampare la scusa di avere tra i trenta ed i quaranta anni per comportarsi come un idiota. Infine, scopiazzato, che appunto riecheggia tutta una serie di commedie finto - giovanili magari con Cameron Diaz o con la Ashton, saccheggiando a piene mani nei Diari di Bridget Jones. Insomma, non mi aspettavo molto, ed ho ricevuto molto meno di quanto si poteva. Non sarà per la prossima volta (se non costretto da eventi esterni).
Antonia Arslan “Le luci del ‘45” Corriere della Sera euro 1
[in: 28/08/2011 – out: 21/10/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
La lettura di queste brevi pagine mi induce alla riflessione se sia possibile separare un autore dal suo mondo di scrittura. Perché queste righe della Arslan hanno senso solo se inserite nel grande quadro dell’epopea armena che l’autrice va disegnando attraverso i suoi scritti. Aveva iniziato con la dolente “Masseria dell’allodola” per raccontarci lo sterminio degli armeni operato dai turchi il 24 aprile 1915 e poi proseguito con “La strada di Smirne” che non ho ancora letto. Qui si fa un salto nel tempo, e ci si ritrova già in Italia, nel Veneto, alla fine della guerra. E la scrittrice, con gli occhi da bambina, ci narra alcuni episodi. Questa volta privati, non più intrisi della rabbia e della dolenza dei giorni della diaspora. Un bozzetto sul fratello, un cammeo del nonno, il patriarca. La madre, sempre presente, lei italiana, quindi straniera, ma di polso ed in grado di reggere in piedi la famiglia. La tata, la guerra, gli sbandati, le prostitute per bisogno. Insomma tutta l’Italia dell’aprile del ’45. Ben reso è il momento dei bombardamenti, con quel piccolo bombardiere, chiamato dalla piccola Pippo, che sgancia le prime bombe, e poi lo stormo di aerei che vomita le sue macerie di guerra. Il patriarca è stanco, e non va nel rifugio, ma resta nei campi, seduto a guardar le stelle, accompagnandosi con la scrittrice che non se la sente di lasciarlo solo. Non avranno un graffio, ma sarà un bel momento di comunità. E poi arriva il 25 aprile (che per gli armeni è comunque associato a ricorrenze altre, come sopra indicato)  e si ritorna in città. E lì nascerà il fratellino, come speranza di pace e libertà. Ma, ripeto, non è una storia, sono piccoli episodi, che fanno risaltare le figure, come disegnate col carboncino tanto per provare come vengono, per poi dedicarsi ad un affresco più grande, completo, che inglobi le storie, ne tiri i fili, e faccia venire il bel quadro che ne potrebbe uscire. La Arslan, da cultrice e docente di lingua italiana, sa usare le frasi, e le sa porgere con garbo. Ma si finisce qui, con garbo. Non è un racconto che prende ed emoziona. Niente tinte forti, niente messaggi, positivi e negativi. Un passatempo da dopo pranzo, in un fine settimana di riposo, che rappacifica l’animo e lo sprona ad altre fatiche.
Michela Murgia “L’incontro” Corriere della Sera euro 1
[in: 28/08/2011 – out: 26/10/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Primo scritto letto della scrittrice sarda. La prima parte è molto buona, la seconda cala un po’. Perché nella prima parte sembra un racconto di iniziazione, quella del bimbo di dieci anni Maurizio che passa l’estate dai nonni a Cabras (che tra l’altro è la città natale della Murgia). E quindi un bel raccontare di giovani che crescono (anzi di bimbi). Con i loro giochi, con le loro amicizie, con quell’uso del noi come pronome plurale che unisce. Con le storie degli anziani che stanno sul limitare delle case, seduti sulle sedie a raccontare terribili storie di fantasmi, di peccati, di donne perdute, di bimbi che muoiono. Poi si scivola nella seconda parte, tutta incentrata sullo scontro tra la solida diocesi della Santa, e la nascente diocesi del Santo. Con la nascita delle divisioni, con il separarsi delle amicizie, con il passaggio dal noi al loro. E con la bella descrizione (certo la Murgia non scorda il suo passato anche di insegnante di religione) della processione. Anzi delle processioni del Santo e della Santa. E del loro incontro, pacificatore ma solo in modo apparente, nella piazza del Municipio. Perché la pace tra le diocesi ci sarà, ma non ci sarà più il noi dell’infanzia. Ora ci saranno sempre i noi e i loro. Senza dubbio, mi fa venire voglia di leggere altro della scrittrice, che mi pare fluente, non troppo piena di parole da ingolfare la mente quando non serve. E sufficientemente ricca di immagini, come quella delle storie intorno alle sedie degli anziani che riportano alla mente tempi antichi (ma non troppo). E racconti di amici che hanno vissuto fanciullezze campagnole ed hanno avuto la fortuna di sentire nonni e nonne raccontare storie. Insomma, avrebbe avuto più peso se la seconda parte fosse stata meno “a tema”, meno a dover dimostrare quella separazione di cui sopra, e quell’incontro di cui al titolo. Avrei preferito continuasse con le storie. Ma al fine, non mi dispiace la sua scrittura, e come molti di questi scrittori inediti che non conosco, un’utile conoscenza per approfondire altre scritture.
“Noi… non era un pronome come negli altri posti, ma un tempo verbale collettivo: il presente plurale” (18)
“Chi sono loro?... Loro sono quello che noi non siamo” (32)
Carla Vangelista “L’attesa” Corriere della Sera euro 1
[in: 10/09/2011 – out: 07/11/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Non so molto della scrittrice, se non che ha scritto 3 libri, di cui due (il primo ed il terzo) a quattro mani con Silvio Muccino, e due (il primo ed il secondo) da cui è stato tratto un film con la regia di Silvio Muccino. Forse è più nota come doppiatrice, ma qui ne indaghiamo le doti letterarie, che sono buone. Ed è ovvio, per chi da anni si occupa di parole al cinema. Ripeto, non ho letto le “muccinate”, ma qui ribalta tutte le sue forme, e ci concede pochi anzi nulli dialoghi. E ci narra, con diligenza ed ordine, un racconto a tema su di una bambina un po’ su di peso. Bambina di 10 anni, al mare con madre, padre ingegnere che pendola verso la città, saggio nonno contadino, amichetti crudeli come lo si è a quell’età. Seguiamo tutta la parabola di Laura, comprendendola bene noi ex-(bambini grassi). Cioè sia ex-bambini che ex-grassi. Il sentirsi esclusi. Mangiare per darsi un po’ di affetto da soli. Insomma tutto lo stereotipo del bambino poco curato. Che la madre ogni tanto ha “l’emicrania” e si chiude in camera. Ed il padre bene o male non c’è. Anzi non c’è mai quando serve. Che tutti gli appuntamenti importanti di Laura (dalla recita a scuola alla partita a scacchi) li ha sempre mancati. Ma l’amore dei figli verso i genitori a quell’età è molto più forte della realtà. A meno che non arrivi qualche folata di vento. E che Laura aspetti l’appuntamento con Emilio. E si metta a pensare. Non succede niente, se non un’agnizione sua di Laura, piccola e forse di poco conto. Nostra, da lettori e figli e padri, che ci accorgiamo come l’egoismo delle persone possa creare dei guasti permanenti nella vita altrui. Soprattutto in quella che non ha chiesto a noi di esserci. Ma se abbiamo scelto di farlo, dobbiamo continuare a farlo con la testa. Ecco il compitino della Vangelista. Ben svolto, curato decentemente, con qualche messaggio, minimo ma importante. Purtroppo l’atmosfera generale è moscia. Verrebbe da dire è Moccia, se non temessi di fare battute fuori luogo. Ma poi è così. Ambienti asettici, o patinati. Ecco, siamo tornati sul set di un film, dove lo sceneggiatore ha messo tutte le cose al posto giusto. Ma il regista si è scordato di metterci la vita dentro. Quindi, risultato a metà, forse una di quelle sufficienze col doppio meno, tanto per tirare su un po’ la media. Niente di più.
Siamo così arrivati a metà gennaio, partenze languono, pensieri riposano nel fondo di menti stanche. Si caricano le batterie che servirà molto gas, tra poco, si pensa e si spera.

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