Terza tornata degli inediti del
Corriere. Come tutte le saghe a più puntate, dopo l’inizio e la vendetta, il
terzo tempo è dedicato al ritorno. In questo caso, al ritorno delle scrittrici,
che questa trama a loro è dedicata. Anche se non è un ritorno felice. Poche me
ne sono piaciute, Michela Murgia e Benedetta Cibrario su tutte. Un buon posto,
anche se minore alle aspettative, per Valeria Parrella e Antonia Arslan. Di
rincorsa Carla Vangelista. Negative la Modignani e Maria Pia Ammirati. Da
cestinare Federica Bosco.
Benedetta Cibrario “Villa Vallestì” Corriere della Sera euro 1
[in: 27/05/2011 – out: 25/08/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Avevo letto con piacere, anche se
qua e là con qualche riserva, il suo “Rossovermiglio”. Ora, alla prova racconto
(e forse proprio perché più che un racconto è quasi un romanzo breve), devo
dire che la Cibrario si presenta con notevole forza e sicurezza, sfornando una
delle migliori prove sui corti che abbia letto sino ad ora. Non la prima in
assoluto, ma sicuramente nel gruppo di testa (che non è neanche tanto folto).
Come se fosse un marchio di fabbrica, anche in questa prova ci imbattiamo in
una saga familiare. Cioè in un intrecciarsi di azioni ed emozioni intorno a
personaggi legati da qualcosa di comune. Che qui è rappresentata dalla villa
del titolo, Vallestì nel linguaggio popolare campano, Wallenstein come recita
il nome originale. Siamo ancora collocati in un tempo passato (qui l’azione si
svolge alla fine degli anni cinquanta). Incontriamo man mano (ed ognuno ci
viene presentato in poche righe ma con un bel tono) la bella Iris, il ricco e
inconcludente Filippo, con tutta il peso della famiglia Dragonara alle spalle,
ed il soldato inglese Marcus, rimasto zoppo in guerra, e quindi rimasto lì ai
piedi del Vesuvio per coltivare la sua passione per i dipinti. Iris sposa
Filippo e vanno a vivere in villa, dono di nozze del padre, che rimarrà loro se
avranno un erede entro cinque anni. Filippo vuole rimettere in sesto la villa
diroccata ed il pittore Marcus decide di occuparsi del restauro delle antiche
pitture. Destini che si incrociano, poche parole, molti sguardi. Con anche i
personaggi di contorno che sbucano e fanno la loro. Dall’avido fratello di
Filippo, a Maria l’infermiera che cura ed accudisce Marcus, da Don Masino ai
parenti di Iris. E con lo sfondo del Vesuvio, lì dove, nel libro del romanzo,
c’era la campagna toscana. La Cibrario ben conduce la danza, anche sfruttando l’ovvio,
come il facile prevedere dell’innamoramento tra la bella ed il pittore. Ma la
conduce con mano ferma, fino ad una bella conclusione che rende felicemente sia
l’atmosfera della lettura, sia la lettura stessa. Insomma, sarà anche che l’ho
letta in uno dei più brutti e claustrofobici alberghi della mia vita, mi ha
dato un soffio di aria fresca e di libertà, che mi fa pensare al secondo libro
della nostra. Mi sa che sarà da leggere.
Sveva Casati Modignani “Un amore di marito”Corriere della Sera euro 1
[in: 25/07/2011 – out:
22/09/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Non
ho mai avuto una grande predisposizione per il cosiddetto genere “rosa” (a
parte qualche chicca giovanile di Carolina Invernizio, ma più che altro come
super-esempio di kitsch d’epoca) e devo dire che la lettura di questo primo
racconto di genere mi conforta in questa pluriennale decisione. Non so se,
quando era vivo il marito Nullo, gli scritti suoi con la moglie Bice avessero
più carattere. Sì, perché il nome altisonante (che ho sempre storpiato in
Modigliani) nasconde il sodalizio tra Bice Cairati e Nullo Cantaroni, e dove lo
pseudonimo viene ancora usato dalla signora Bice anche dopo che nel 2004 è
deceduto il marito. Detto infine che sotto questo nome sono stati pubblicati
più di 20 libri con un grande successo di vendite, veniamo a questo racconto.
Che è banale, scontato, e senza un briciolo di appiglio di interesse. Alberta è
sposata da 18 anni con Leo, non hanno figli, lui sta scalando i vertici della
multinazionale in cui lavora (è direttore marketing), lei fa la commessa di
lusso in un negozio di intimo in via Montenapoleone. Lei non è particolarmente
bella, ma lui, ragazzo ventenne, se ne innamorò perdutamente, e volle creare
una famiglia con lei, facendole lasciare gli studi, ma colmandola di ogni
attenzione. Lui inoltre è anche orfano (che non guasta un po’ di sfortuna ogni
tanto). Alberta sente che ultimamente il buon Leo è un po’ freddo, distante,
scostante, forse perché non riesce ad ottenere una promozione verso la vetta
per un problema di ignoranza del tedesco. Ma Alberta, vedendolo di spalle in un
ristorante con una bionda, pensa che sia per un problema di corna. E su questa
nota di interpretazione, la Sora Bice (come direbbe la Valori) costruisce tutte
le sue sessanta pagine di nulla. Che fin dalla prima riga del primo SMS si
capisce come stanno le cose. Noi smaliziati lettori speriamo che la scrittrice
ci sorprenda con qualche colpo di coda finale, rovesciando situazioni, ed altre
amenità. Ed invece niente. Tutto procede nel solco del più banale scrivere
mondano. Nessuna invenzione, nessuna sorpresa. Tutto finirà come ci si aspetta
fin dall’inizio. Comprendo che a volte il lettore abbia bisogno di sicurezze
per non essere spazzato via dal terribile maremoto della vita odierna, con
tutti i suoi guasti ed i pochi momenti di felicità. Ma questo sembra peggio di
un brutto sceneggiato pomeridiano di Canale 5. Lettura antropologica, ma non
credo che frequenterò spesso la mielosa isola della Sveva.
Valeria Parrella “Behave” Corriere della Sera euro 1
[in: 29/07/2011 – out:
03/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Siamo all’inedito #18 ed è un po’
che non li trovo molto coinvolgenti. Anche questo, da cui mi aspettavo qualcosa
in più, che la Parrella mi era sempre piaciuta, non mi sembra sia del livello
di altre sue prove. Non c’è l’ironia cattiva, ma anche l’empatia di cui primi
“Mosca + balena” o “Per grazia ricevuta”. Sarà che anche qui, ci si trasporta
altrove, collocando la storia in una Liverpool a metà tra sogno e realtà. Sarà
che anche qui, l’autrice cerca di calarsi in panni maschili, e sono sempre
operazioni che non mi convincono. Assistiamo quindi al lungo monologo di Buddy,
un marinaio che ha deciso, per le alterne vicende della vita, di fermarsi, di
scendere a terra. Lì dove lo aspetta la moglie Jude, sempre più involuta nelle
sue paure, ed il figlio Brandon, affetto da una qualche forma di disabilità.
Sembra autistico, ma parla troppo per esserlo. Tutta la storia passa lì, mentre
Brandon cerca un posto a sedere in pub, rimanendo minuti e minuti ad aspettare
e Buddy a guardarlo, senza intervenire (giustamente) ma anche senza sapere che
fare. Che intanto la moglie Jude è morta di crepacuore per non sapere come fare
con il figlio. E lui rimane lì. Ripensando a quando stava per mare, dove a
volte di notte non si sapeva dove ci si trovava, con il mare sopra, sotto,
davanti, dietro. Senza punti di riferimento. Ma lì Buddy sapeva cosa fare. Ora
non più. E questa la domanda, che fin dal titolo ci pone la Parrella. Titolo
che si riferisce al pub di cui sopra, e che viene da “To Behave” cioè
“Comportarsi”. E perché nella vita nessuno ti insegna come comportarti, né ti
dà il benvenuto, così come non c’è una scritta Welcome quando entri al Behave
inteso come pub. Ecco, sembra una prova un poco forzata, come se la Parrella
dovesse rendere un omaggio alla città dove risiede l’editore che ha pubblicato
in inglese suoi racconti. Certo, la scrittura corre facile. Ma Buddy non ha più
spessore di uno stereotipo che sa solo andare via (uno che sta bene altrove) ed
a casa guarda solo le grosse tette della barista. Insomma, mi è piaciuto poco e
speravo qualcosa in più. Tuttavia le notizie delle ultime prove della Parrella
mi confortano. Forse “Lettera di dimissioni” sembra migliore. Chissà!
Maria Pia Ammirati “Le voci intorno” Corriere della Sera euro 1
[in: 06/08/2011 – out:
10/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Non
conoscevo l’autrice e non è che ora abbia voglia di conoscerla di più. Cioè, so
chi è, della sua direzione di UnoMattina in Rai ed altre telvisionate, ma non
ne avevo letto. E non ne leggerò per un po’. Mi è sembrato un racconto non solo
fasullo, ma volutamente strappalacrime, che cerca di dire, fare o dimostrare
qualcosa, ma con tanto sforzo che alla fine, pur cercando di entrare nella
logica, mi ha lasciato solo un po’ di fastidio. La storia si divide in due
parti ben distinte, come scrittura non come personaggi. Nella prima vediamo lo
sballo dei ragazzi pre-maturi (17 anni e giù di lì) con i vari mix di alcool,
droghette e sesso. Tutto narrato con un po’ di “puzza al naso”. Poi, come
sbagliarsi, l’incidente. C’è chi muore e chi va in coma. E qui c’è tutta la
seconda parte, vista con la testa della persona in coma, che non vede ma sente
“le voci intorno”. Ora non è certo facile dare la voce a persone in questo
stato (quanti sono tornati indietro e riescono a raccontarlo?) e soprattutto
renderne il clima. Io l’ho letto sentendomi molto distante dalle parole. Anche
se le capisco. Anche se penso che non sia facile dirimere se sia vita una vita
vegetativa. Certo, il tentativo della scrittrice è di creare una situazione che
ribalti il paradigma di Welby, che poteva comunicare ma che sceglie di morire.
Qui la persona (e continuo a non dirvi chi è) non comunica ma fa capire che non
sceglie di morire. Certo è difficile, e forse ad un certo punto anche dal coma
è bene uscirne in qualche modo, forse morendo. Ma non viene alla luce un
dibattito lucido. Vediamo (o meglio sentiamo) il padre, la sorella, le
infermiere, i dottori. E sentiamo i ragionamenti di chi cerca di tenere il
conto dei giorni, di seguire un filo al tempo che passa. Ma poi il tempo passa
e… a che serve tutto ciò? L’autrice sembra non prendere posizione, ma nello
stesso tempo, induce a pensare che comunque dall’altra parte del coma la
coscienza è vigile ed è solo una barriera difficilmente superabile che
impedisce la comunicazione. Non so, non mi convince. Non mi convince mettersi
in una parte difficile da controbattere. E difficile in assoluto dire dove
siano i confini del lecito. E, per finire, non mi piace neanche il modo di
scrivere della Ammirati, che mi rimane freddo ed esterno. Pone un problema,
questo sì, ma da lì farei nascere altri dibattiti. E poi lo strappalacrime della
seconda parte fa dimenticare le cose che vengono in mente nella prima, sui
ragazzi sballati. E su come, anche qui, la Ammirati non è che si ponga in
maniera convincente. Ripeto, per me. Ma il dibattito può nascere.
Federica Bosco “L’artista” Corriere della Sera euro 1
[in: 28/08/2011 – out:
14/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Incongruente,
inconsistente, sbagliato, scopiazzato. Non so se nei romanzi la Bosco sia
meglio di questi racconti che ho letto. Questo è il secondo e mi è piaciuto
meno del primo. Ma se un suo romanzo si intitola “101 modi per riconoscere il
tuo principe azzurro (senza dover baciare tutti i rospi)” non è che prometta
bene. L’esile trama potrebbe venir nobilitata solo trasformandola in una sapida
commedia hollywoodiana. Dove si potrebbe trovare una Julia Roberts innamorata
persa di uno sballato Jim Belushi che suona la chitarra in un gruppo rock, che
non risponde al telefono, che manca tutti gli appuntamenti. Ma quando viene, a
Julia saltano tutti i freni e cade sdilinquita ai suoi piedi senza chiedersi
perché non dica mai una parvenza di verità. Certo Jim fa il buffone, la fa
ridere, fa cose pazze. Poi si eclissa e lei cade nella disperazione. Fortuna
che c’è Rupert Everett che cerca di farla ragionare, cerca di farle una terapia
del distacco. E quasi ci riesce. Ma Jim riappare e lei cade come una mela matura.
Solo quando si rende conto che il suddetto Jim è non solo sposato, ma non ha
intenzione di lasciare moglie e figlia, la nostra Julia fa cadere tutte le
fette di prosciutto che aveva sugli occhi. Lo manda a…, si licenzia, ed apre un
bel ristorantino con Rupert. Togliete tutte le cose belle che può avere questa
trama, ed avrete l’inconsistente racconto della Bosco. Incongruente a tratti,
poi, quando ad esempio lui le vanta un concerto in un centro commerciale, lei
ci va e lo trova deserto. E quando lo rivede e lui gli dice che è andato ad un
concerto a Canazei (la scena si svolge nel centro Italia), lei non gli chiede
il perché della buca al centro commerciale. E questo è solo l’esempio più
lampante. E poi sbagliato nel proporre una visione dei personaggi che non hanno
un briciolo di idea autonoma, che “cercano sognando il grande amore”, e dove il
massimo della bella serata è rivedere “Mad Men” in Tv per la 25^ volta. E
l’artista, il Jim non è nel pieno della tarda adolescenza, ma è un egoista
fatto e finito che non può accampare la scusa di avere tra i trenta ed i
quaranta anni per comportarsi come un idiota. Infine, scopiazzato, che appunto
riecheggia tutta una serie di commedie finto - giovanili magari con Cameron
Diaz o con la Ashton, saccheggiando a piene mani nei Diari di Bridget Jones.
Insomma, non mi aspettavo molto, ed ho ricevuto molto meno di quanto si poteva.
Non sarà per la prossima volta (se non costretto da eventi esterni).
Antonia Arslan “Le luci del ‘45” Corriere della Sera euro 1
[in: 28/08/2011 – out:
21/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
La
lettura di queste brevi pagine mi induce alla riflessione se sia possibile
separare un autore dal suo mondo di scrittura. Perché queste righe della Arslan
hanno senso solo se inserite nel grande quadro dell’epopea armena che l’autrice
va disegnando attraverso i suoi scritti. Aveva iniziato con la dolente
“Masseria dell’allodola” per raccontarci lo sterminio degli armeni operato dai
turchi il 24 aprile 1915 e poi proseguito con “La strada di Smirne” che non ho
ancora letto. Qui si fa un salto nel tempo, e ci si ritrova già in Italia, nel
Veneto, alla fine della guerra. E la scrittrice, con gli occhi da bambina, ci
narra alcuni episodi. Questa volta privati, non più intrisi della rabbia e
della dolenza dei giorni della diaspora. Un bozzetto sul fratello, un cammeo
del nonno, il patriarca. La madre, sempre presente, lei italiana, quindi
straniera, ma di polso ed in grado di reggere in piedi la famiglia. La tata, la
guerra, gli sbandati, le prostitute per bisogno. Insomma tutta l’Italia
dell’aprile del ’45. Ben reso è il momento dei bombardamenti, con quel piccolo
bombardiere, chiamato dalla piccola Pippo, che sgancia le prime bombe, e poi lo
stormo di aerei che vomita le sue macerie di guerra. Il patriarca è stanco, e
non va nel rifugio, ma resta nei campi, seduto a guardar le stelle,
accompagnandosi con la scrittrice che non se la sente di lasciarlo solo. Non
avranno un graffio, ma sarà un bel momento di comunità. E poi arriva il 25
aprile (che per gli armeni è comunque associato a ricorrenze altre, come sopra
indicato) e si ritorna in città. E lì
nascerà il fratellino, come speranza di pace e libertà. Ma, ripeto, non è una
storia, sono piccoli episodi, che fanno risaltare le figure, come disegnate col
carboncino tanto per provare come vengono, per poi dedicarsi ad un affresco più
grande, completo, che inglobi le storie, ne tiri i fili, e faccia venire il bel
quadro che ne potrebbe uscire. La Arslan, da cultrice e docente di lingua
italiana, sa usare le frasi, e le sa porgere con garbo. Ma si finisce qui, con
garbo. Non è un racconto che prende ed emoziona. Niente tinte forti, niente
messaggi, positivi e negativi. Un passatempo da dopo pranzo, in un fine
settimana di riposo, che rappacifica l’animo e lo sprona ad altre fatiche.
Michela Murgia “L’incontro” Corriere della Sera euro 1
[in: 28/08/2011 – out:
26/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Primo
scritto letto della scrittrice sarda. La prima parte è molto buona, la seconda
cala un po’. Perché nella prima parte sembra un racconto di iniziazione, quella
del bimbo di dieci anni Maurizio che passa l’estate dai nonni a Cabras (che tra
l’altro è la città natale della Murgia). E quindi un bel raccontare di giovani
che crescono (anzi di bimbi). Con i loro giochi, con le loro amicizie, con
quell’uso del noi come pronome plurale che unisce. Con le storie degli anziani
che stanno sul limitare delle case, seduti sulle sedie a raccontare terribili
storie di fantasmi, di peccati, di donne perdute, di bimbi che muoiono. Poi si
scivola nella seconda parte, tutta incentrata sullo scontro tra la solida
diocesi della Santa, e la nascente diocesi del Santo. Con la nascita delle
divisioni, con il separarsi delle amicizie, con il passaggio dal noi al loro. E
con la bella descrizione (certo la Murgia non scorda il suo passato anche di
insegnante di religione) della processione. Anzi delle processioni del Santo e
della Santa. E del loro incontro, pacificatore ma solo in modo apparente, nella
piazza del Municipio. Perché la pace tra le diocesi ci sarà, ma non ci sarà più
il noi dell’infanzia. Ora ci saranno sempre i noi e i loro. Senza dubbio, mi fa
venire voglia di leggere altro della scrittrice, che mi pare fluente, non
troppo piena di parole da ingolfare la mente quando non serve. E
sufficientemente ricca di immagini, come quella delle storie intorno alle sedie
degli anziani che riportano alla mente tempi antichi (ma non troppo). E
racconti di amici che hanno vissuto fanciullezze campagnole ed hanno avuto la
fortuna di sentire nonni e nonne raccontare storie. Insomma, avrebbe avuto più
peso se la seconda parte fosse stata meno “a tema”, meno a dover dimostrare
quella separazione di cui sopra, e quell’incontro di cui al titolo. Avrei
preferito continuasse con le storie. Ma al fine, non mi dispiace la sua
scrittura, e come molti di questi scrittori inediti che non conosco, un’utile
conoscenza per approfondire altre scritture.
“Noi… non era un pronome come negli altri
posti, ma un tempo verbale collettivo: il presente plurale” (18)
“Chi sono loro?... Loro sono quello che noi
non siamo” (32)
Carla Vangelista “L’attesa” Corriere della Sera euro 1
[in: 10/09/2011 – out:
07/11/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Non
so molto della scrittrice, se non che ha scritto 3 libri, di cui due (il primo
ed il terzo) a quattro mani con Silvio Muccino, e due (il primo ed il secondo)
da cui è stato tratto un film con la regia di Silvio Muccino. Forse è più nota
come doppiatrice, ma qui ne indaghiamo le doti letterarie, che sono buone. Ed è
ovvio, per chi da anni si occupa di parole al cinema. Ripeto, non ho letto le
“muccinate”, ma qui ribalta tutte le sue forme, e ci concede pochi anzi nulli
dialoghi. E ci narra, con diligenza ed ordine, un racconto a tema su di una
bambina un po’ su di peso. Bambina di 10 anni, al mare con madre, padre
ingegnere che pendola verso la città, saggio nonno contadino, amichetti crudeli
come lo si è a quell’età. Seguiamo tutta la parabola di Laura, comprendendola
bene noi ex-(bambini grassi). Cioè sia ex-bambini che ex-grassi. Il sentirsi
esclusi. Mangiare per darsi un po’ di affetto da soli. Insomma tutto lo
stereotipo del bambino poco curato. Che la madre ogni tanto ha “l’emicrania” e
si chiude in camera. Ed il padre bene o male non c’è. Anzi non c’è mai quando
serve. Che tutti gli appuntamenti importanti di Laura (dalla recita a scuola
alla partita a scacchi) li ha sempre mancati. Ma l’amore dei figli verso i
genitori a quell’età è molto più forte della realtà. A meno che non arrivi
qualche folata di vento. E che Laura aspetti l’appuntamento con Emilio. E si
metta a pensare. Non succede niente, se non un’agnizione sua di Laura, piccola
e forse di poco conto. Nostra, da lettori e figli e padri, che ci accorgiamo
come l’egoismo delle persone possa creare dei guasti permanenti nella vita
altrui. Soprattutto in quella che non ha chiesto a noi di esserci. Ma se
abbiamo scelto di farlo, dobbiamo continuare a farlo con la testa. Ecco il
compitino della Vangelista. Ben svolto, curato decentemente, con qualche
messaggio, minimo ma importante. Purtroppo l’atmosfera generale è moscia.
Verrebbe da dire è Moccia, se non temessi di fare battute fuori luogo. Ma poi è
così. Ambienti asettici, o patinati. Ecco, siamo tornati sul set di un film,
dove lo sceneggiatore ha messo tutte le cose al posto giusto. Ma il regista si
è scordato di metterci la vita dentro. Quindi, risultato a metà, forse una di
quelle sufficienze col doppio meno, tanto per tirare su un po’ la media. Niente
di più.
Siamo così arrivati a metà
gennaio, partenze languono, pensieri riposano nel fondo di menti stanche. Si
caricano le batterie che servirà molto gas, tra poco, si pensa e si spera.
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