mercoledì 13 giugno 2012

Pasqua con chi vuoi - 06 aprile 2012

Come dice il vecchio adagio. Ed allora, visto che a Pasqua in quanto giorno sarò si spera in giro, a riposarmi dopo queste prime due settimane di lavoro “matto e disperatissimo” come diceva l’Alfieri, vi lascio questi piccoli ovetti pasquali, senza purtroppo molte sorprese. Certo c’è il sempre di buon livello selvaggio americano e la sua prosa scarna. Ma c’è anche un poco felice Gore Vidal. Un a me ostico Bukowski. E l’argentino Sasturain, sul quale fondavo speranze che non si sono rivelate fondate.
Cormac McCarthy “Cavalli selvaggi” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 18/11/2011]
[tit. or.: All the Pretty Horses; ling. or.: inglese; anno 1992]
C’è tutto McCarthy in questi “graziosi cavalli” che vanno su e giù tra il Texas ed il Messico. Le atmosfere, la natura, il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, il rimpianto per un certo modo di vivere, il nuovo che avanza, i contrasti tra generazioni, i contrasti tra ricchi e poveri. Una summa, scritta in quel suo modo inconfondibile, senza le punteggiature dei dialoghi, che forse è l’elemento cui mi abituo di meno. Seguiamo così la storia di un passaggio della linea d’ombra, come direbbe il non amato Conrad. Della maturazione, presa di coscienza o simile del sedicenne John Grady. Figlio di un giocatore d’azzardo che ha vinto e perso fortune al tavolo da gioco e della bella della fattoria, che non ha mai amato, e da cui è fuggita, lasciando tutto e tutti per andare a fare l’attrice in città. John vive con il nonno e da lui impara l’amore per la terra, ma soprattutto per gli animali, ed in particolare i cavalli. Muore il nonno, la madre vende tutto, e John decide con il cugino Lacey che deve andare a trovare un posto per vivere vicino ai cavalli. Ne seguiamo le peregrinazioni, l’incontro con il ragazzino Jimmy, quello fuori di testa che ha paura di morire colpito da un fulmine. Fino a che non trovano una momentanea pace nell’hacenda “La Purisima” in una sperduta vallata messicana. Lì finalmente John ritrova i cavalli, trova il modo di farsi valere, e trova anche il modo di innamorarsi di Alejandra, la figlia del padrone. E di instaurare un rapporto di confidenza e stima con Donna Alfonsa, la zia che tiene le redini del potere e della borsa. Ma è comunque un emigrante rovesciato, che tutti cercano di andare dal Messico in America e non viceversa. E questa condizione di spaesato non può che portarlo fuori di pista. Che non conosce i modi, anche brutali. Che pensa la verità sia sempre comprensibile a tutti. Non sempre purtroppo è così. Soprattutto per chi non la vuole o non la sa capire. Incolpevolmente coinvolto da Jimmy in una confusa storia di rapine e contro-rapine di cavalli, si scontra con la (inesistente) giustizia messicana. Con i bandidos, con le guardie. Ne uscirà a prezzi durissimi, indurito nel corpo e nell’anima. E capiranno, prima Lacey, poi lui, che il Messico non può essere il loro posto. John cerca ancora una via d’uscita, con un confronto dura con Donna Alfonsa prima e con Alejandra poi. Ma non potrà che uscirne sconfitto. Dovrà anche lui tornare in Texas, per saldare qualche debito. Ma non potrà rimanere in quella terra (siamo più o meno negli anni cinquanta) che sta scoprendo il petrolio. Ed andrà alla ricerca di altri pascoli felici. Se tutta la prima parte è giocata sul filo del rimpianto per un mondo che va scomparendo, lo spartiacque si ha nello scontro con la polizia ed il carcere. E le ultime sessanta pagine sono quante di più felice esce dalla penna del buon Charles (che in gaelico si dice Cormac, e capiamo meglio i discorsi sulla modernità non accettata). Le due lunghe tirate con le donne, l’anziana e la giovane, danno il senso al romanzo. Con Donna Alfonsa che si lancia in un’analisi della rivoluzione di Francisco Madero, attraverso la quale cerca di far capire a John un mondo che John non ha gli strumenti per interpretare. Con Alejandra, scontrando la sua incosciente irruenza con l’ardente pragmatismo della bella. E come detto, in entrambi i casi verrà sconfitto. Solo i cavalli non lo deludono mai. Né lui li delude. Ma John tratta gli uomini come i cavalli e vorrebbe essere ricambiato. Purtroppo l’animale-uomo non ha l’istinto di un cavallo, che comprende il cavaliere anche dall’odore. Di certo non sono d’accordo nel piangere sul mondo che cambia. Perché non è certo stando fermi che si riesce a mantenere quello che si ha o si è. Bisogna cambiare. O meglio evolversi. Certo, e qui sono in sintonia, avendo rispetto. Dell’ambiente. Dell’altro. Uno di quei libri che non è scritto nelle mie corde, ma che è riuscito, pagina dopo pagina, a farmi entrare nel suo mondo. Ed a rispettarlo. Un’ultima annotazione sulla casualità, come ne parla Donna Alfonsa. Che rifiuta l’affidamento a destini appunto casuali, andando in profondità sul testa e croce della moneta. Non solo è casuale quella di scelta. Ma a monte, è anche casuale la scelta che fa il forgiatore di moneta, quando prendendo un tondino metallico decide quale sia la testa e quale sia la croce. Se non lo avete capito, che sono troppo conciso, possiamo aprirci un dibattito. E non andate a vedere il film che ne è stato tratto con Matt Demon e Penelope Cruz “Passione ribelle”, classico esempio di come fare un brutto film a partire da un bel libro. Vi cito solo il commento del New York Times: sembra la brutta copia della pubblicità della Marlboro.
“Non ti senti a disagio? … Ogni tanto. Se uno sta in un posto sbagliato si sente a disagio.” (38)
“Io faccio sempre sogni strani … I sogni hanno vita lunga. Ancora oggi sogno cose che sognavo da piccola.” (129)
“Non mi risulta che le difficoltà della vita rendano la gente più compassionevole.” (219)
“Nella storia non ci sono gruppi di controllo [come negli esperimenti di laboratorio] e nessuno può dire cosa sarebbe successo altrimenti.” (228)
Gore Vidal “L'età dell'oro” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 03/12/2011]
[tit. or.: The Golden Age; ling. or.: inglese; anno 2000]
Credo che nei miei appunti sparsi lungo gli anni ci sia una nota che ricorda, prima o poi, di leggere “Giuliano” il libro sull’imperatore apostata di Gore Vidal. Beh, il libro non c’è ancora ed ho invece affrontato questo, che sempre di storia parla. Ma di quella recente, attuale, contemporanea. È, infatti, l’ultimo di 7 volumi di storia romanzata che Vidal dedica alle vicende della storia americana, dalla nascita della nazione al suo passaggio ad Impero mondiale. Il libro è un po’ lento, risente molto del fatto che viene dopo altri sei, e quindi ci sono continui rimandi. Inoltre è molto pieno di storia americana (fortunatamente con molte note a piè pagina che tentano di dare informazioni a noi di qua dell’Oceano). Ma i capisaldi ci sono, chi non conosce i Roosevelt, Truman, i Kennedy, Hearst della carta stampata e via discorrendo. Ben si capisce che Vidal parla qui di cose che conosce bene. Della storia recente fa pure parte, sia come scrittore, ma anche come politico (il nonno era senatore), che come uomo di spettacolo (sceneggiatore ad Hollywood, poi saggista, commentatore televisivo). Il libro ci accompagna dal 1939, quando Hitler invade la Cecoslovacchia e Roosevelt decide di presentarsi per la terza volta come presidente (solo negli anni Cinquanta fu fatta la legge che impediva di presentarsi per più di due mandati consecutivi). Fino al 1954, alla fine della guerra di Corea, con la fine di molte delle illusioni che una classe medio - alta americana aveva verso una possibile età dell’ora, verso un’era di stabilità e concordia. Con una breve chiusa sull’anno 2000 che serve a Vidal per tirare un po’ le fila di tutti e sette i suoi romanzi sull’America. Il tutto visto con gli occhi dei personaggi fittizi, ma plausibili, inseriti nella storia. Quelli della dinastia dei Sanford. Prima con quelli di Carolina (personaggio centrale dei precedenti Hollywood e Impero), poi con quelli di suo nipote Peter (eroe del primo romanzo Washington D.C.).  Anzi, molti degli avvenimenti sono ripresi proprio dal primo libro, che attraversa lo stesso periodo. Ma lì erano soprattutto i personaggi inventati che tenevano banco, mentre ora entrano, e di potenza, anche quelli storici. Non a caso sono passati più di trenta anni tra i due scritti. Certo, la vena democratica e liberal di Vidal qui si esprime in pieno, presentando le meschinerie del mondo politico americano, il modo assurdo con cui vengono affrontati i grandi temi. Perché in fondo gli Americani sentono la mancanza di un retroterra culturale, ed andranno a dominare il mondo in virtù della loro potenza economica. Ci da uno sguardo interno all’atteggiamento di Roosevelt verso la guerra con il Giappone, così come della miopia di Truman sia per l’uso della bomba atomica, sia per la sfrontata avventatezza con cui consegna anni ed anni americani al viscerale anticomunismo di McCarthy e soci. Ma l’ansia di spiegare le mosse politiche, lascia poco spazio alla costruzione dei caratteri di finzione, che avevano caratterizzato al meglio alcuni libri precedenti. I personaggi scorrono, e le loro vite, eponime di quelle di tanti e tanti americani, non hanno presa. Perché poi si torna sempre lì, alla ricca dinastia dei Sanford, ed ai loro intrecci pubblici e privati. Ma sono sterili e poco coinvolgenti, tanto che basta leggere la prima pagina, con la cronologia dei personaggi, che già si capiscono le loro storie. Chi va con chi. Chi lascia chi. Quando ci sono. Quando muoiono. Alla fine, il cammeo del 2000 è forse la punta più bassa di tutto il libro. Cammeo, perché presenta in una ventina di pagina un lungo duetto televisivo tra Peter Sanford, ormai quasi ottantenne, ed il settantacinquenne … Vidal. Sì, perché lo scrittore si inserisce di persona nella storia (ne aveva comunque fatto parte), ma questo inserimento sa tutto di autocompiacimento ed autoincensamento. Certo Vidal soffre di mania di esposizione, e lo possiamo capire. Ma questa parte stona un po’. Mette certo tutti i punti finali sui personaggi che abbiamo incontrato lungo la strada, tuttavia… Non mi è piaciuto, troppa finzione per essere storia, troppa storia per essere finzione. E poca invenzione fantastica, come ad esempio (saltando di palo in frasca) nel gustoso film di Allen “Midnight in Paris”, dove la fantasia riscatta la presenza benché onirica di personaggi storici. E ci da una risposta, almeno quella di Allen, che la vera età dell’oro è solo il presente, che dobbiamo vivere e godere, perché qui e ora siamo. Aderisco alle richieste di Allen e lascio da parte il buon vecchio Vidal.
“È triste che non sappiamo mai dove abbiamo sbagliato come genitori finché non è troppo tardi.” (218)
Charles Bukowski “Post Office” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 05/12/2011]
[tit. or.: Post Office; ling. or.: inglese; anno 1971]
Continuo ogni tanto a leggere qualcosa del vecchio ubriacone Americano. E continuo a non essere del tutto convinto. A parte che alla fine del libro esci fuori ubriaco come una cucuzza. Non di parole, purtroppo. Ma proprio di alcool. Che il vecchio Charles non passa pagina che non si attacchi a qualche liquido. Birra, whiskey e tutto quanto possa avere dai 40° in su. Tanto che alla fine vive in un perenne stato etilico. Se poi togliamo tutto questa sovrastruttura alcolico –anarchica, cosa rimane del testo? Una lunga galoppata di circa 20 anni, dentro e fuori la società americana, cercando di trarne qualche beneficio (posto fisso, stipendio) ma mal sopportandoli. Uscendone appena possibile. Per giocare ai cavalli (passione che spesso ritorna in Bukowski) e vivacchiare di quello. E soprattutto, spendendo tutti i soldi e tornando sempre al punto di partenza. Quello di dover trovare un lavoro. E di rodersi il fegato di lavorare come dipendente di qualcuno. Ogni tanto Harry, il protagonista alter – ego dello scrittore (non ha caso lo battezza Cinaski per assonanza), fa qualche incontro. Soprattutto con alcune donne. Ma anche lì, passa il tempo a bere (tanto che Betty morirà di cirrosi epatica), a scopare (ma poi non è che anche lì sia sempre pronto, tanto che si lascia con Joyce la ninfomane), anche a fare figli (con Fay, che lo lascia per andare a vivere con la figlia). Lui si fa passare tutto sopra. Perché deve mantenere il posto fisso. Quello alle Poste. E le poste sono un’istituzione in America. E deve fare fronte alle angherie dei superiori. E alle rotture dei colleghi. E quando fa il postino itinerante, anche ai cani, alle vecchie signore, ed a tanti personaggi che incontra lungo le vie della città. Sempre in ritardo, sempre in affanno, sempre pronto, se c’è la possibilità, a fermarsi da qualche parte a bere un goccio (ma va, direte voi, non lo avevamo capito!). La sua penna è comunque mirabile, ci regala in poche righe bozzetti affascinanti del degrado della vita americana. Della fine del grande sogno americano nelle strade bagnate della città. Della lotta per la sopravvivenza. Delle storture dei sistemi di controllo del lavoro (esempi spiccioli di taylorismo applicati allo smistamento delle lettere per codice postale). Per essere un libro che ha 40 anni, non serve spostare una virgola per fotografare qualsiasi situazione lavorativa. Chiudendo un poco gli occhi, si potrebbe leggerne in controluce la trama di quel film italiano sui Call Center (quel “Tutta la vita davanti” di Virzì, tra l’altro tratto dal bel romanzo di Michela Murgia) senza quasi cambiare una parola. Ma, va bene, hai descritto un mondo che va male. Hai descritto le persone alla deriva, sia che accettino quel mondo (come il postino che poco prima di andare in pensione esce di senno davanti allo smistatore di cartoline) sia che non lo accettino (come Betty e la sua bottiglia eterna). Hai descritto il tuo tragitto in quel mondo, cercando di prenderne il buono (i soldi, la sicurezza) senza mai fare un compromesso. Tipo continuare a bere e scopare tutti i giorni fino alle due di notte per poi alzarsi alle 5 ed andare a distribuire lettere. Tu, Bukowski – Cinaski non ti sei piegato, ed alla fine ne hai scritto e lo hai esorcizzato. Ma è una battaglia tutta tua, anarchica come dicevo prima. Non c’è salvezza collettiva. E forse nemmeno personale. C’è solo la possibilità di scavarsi un buco solitario e viverci dentro, fregandosene di tutto, anche di tua figlia Marina. Per poi? Per poi attaccarsi ad una bottiglia e giocare ai cavalli. No, non mi convince. La filosofia, la scrittura, il messaggio, anche la descrizione del mondo. Procedo a macchie, ma niente più. Ecco perché alla fine, non mi è piaciuto. L’ho letto, va letto (o forse andava letto qualche decennio fa). Ma non mi sento di consigliarlo.
Juan Sasturain “La mujer ducha” Debolsillo  euro 6,72
[in: 25/07/2011 – out: 24/12/2011]
[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; anno 2001]
Una doppia delusione, questo libro che immaginavo migliore. Come molti sanno, quando giro per il mondo, mi piace portarmi in ricordo un libro, ovviamente da quei posti dove si parlano lingue comprensibili. Per questo, ero stato contento di trovare una bella libreria al Paseo de la Florida (bel nome, eh), e di aver avuto il consiglio del libraio per un romanzo di autore argentino contemporaneo. Ora finalmente l’ho preso dalla libreria, e l’ho letto. Prima delusione: non è un romanzo, ma una serie di racconti. Certo, i racconti sono una forma altrettanto gradevole di lettura (a parte la mia nota ritrosia nell’affrontarli). Tuttavia, un romanzo in lingua ha un respiro diverso, consente magari di recuperare il senso della frase nel contesto più ampio della narrazione. Un racconto, no. E soprattutto se si parla di autori contemporanei. Che usano frasi gergali, accenni. Insomma, un libro di difficile lettura (una settimana per 200 paginette è fuori da tutti i miei ritmi). La seconda delusione è venuta dall’autore. Cioè, dal suo modo di scrivere. Capisco che essere argentini pesa, per avere alle spalle un macigno come Borges, che nella forma-racconto ha dato la sua massima espressione. Qui però Sasturain non fa altro che imitarlo. Ed in particolare in tutti quei racconti incentrati su qualche personaggio. Come nella storia di Lecadamo, il cacciatore di draghi. O nell’epopea del generale Rasca, conquistatore del nulla. O nella dolorosa istoria di Campitos, genio misconosciuto della statistica e scopritore di talenti calcistici. Si copia, si copia, o al massimo, si cerca di aggiornare il modello borgesiano. Narratore che sa, che racconta, che descrive i personaggi. Che entra ed esce dalla storia. Ma mentre lì c’era comunque un intento, a volte grottesco, a volte che capovolgeva le regole del vivere, a volte di tristezza (penso a Ireneo o della memoria, o al Giardino dei sentieri che si biforcano, tanto per non arrivare alla somma Biblioteca o all’impareggiabile Menard autore del Chisciotte). Qui sembrano esercizi letterari, punte di spillo. Come la storia del supereroe Ramos Martinez, quello che volava come Superman. Che prende il nome d’arte di Zenitram (che scarsa fantasia!) e che non vuole andare in pensione da supereroe allo scoccare dei 50 anni. O i tentativi di scrivere o riscrivere storie all’americana, con gangster o altro. Come Nick Frascara. O la storia del falso racconto di Hammett. Piccolezze, pochi spunti. Neanche acquarelli, come poteva essere la gita in Spagna della famiglia Truzzo, che si ritrova in Andalusia a veder girare un western-spaghetti. L’unico che sembrava, almeno fino ad un certo punto, dar tono alla raccolta, è quello del titolo. Quello della “Mujer ducha”. Dove si narrano le vicende di un “tomber de femme” argentino, che non perde colpi. E che espone la sua teoria sulle donne. E su quello che fanno “dopo” (capisci a me). C’è quindi la donna -  bidet, che subito si lava, come a voler mettere una cesura, una distanza con l’uomo. C’è la donna – bagno, che si immerge nell’acqua, nei profumi e nelle essenze, quasi a volersi installare subito da te, a prendere un posto stabile nella vita. E c’è la donna – doccia, quella che è indipendente, che si mette sul tuo piano, e con la quale si può (si potrebbe) instaurare un rapporto paritario. Ed il nostro Distefano cadrà alfine in un gioco duro con Angela, una donna – doccia. Ed inevitabilmente ne uscirà sconfitto. Ma non è questo il bello del racconto, che è, esposto così, banalino e poco più. Sono due elementi, contingenti, di spaesamento, che me lo hanno, per un po’, fatto apprezzare. La descrizione del freddo di luglio, che può capire solo chi è stato in luglio a Buenos Aires. E la stranezza di questa gioventù che passa le notti a dipingere murales. Quasi fosse una sorta di lavoro, e non come da noi, un’opera “alternativa”. Ma anche questo racconto poi, scivola via in una sorta di imperfetto modo di scrivere. Per culminare poi nel poco comprensibile racconto di San Jodete, tutto giocato sul ricordo del peronsimo e sul “jodere” (che non sta per godere, ma per fottere). Un racconto tutto giocato sui doppi sensi, e sulle parole forti (che in genere sono le ultime che si imparano in una lingua straniera). Peccato, che mi aspettavo molto, in particolare dall’autore stesso, che altrove avevo apprezzato. Quando ha sceneggiato la bellissima graphic-novel del maestro argentino Alberto Breccia. Peccato. Sarà per una prossima volta.
Eh, si, mi ripeto. Lunghe giornate di lavoro, una nuova scommessa sul tavolo della mia vita. Che per ora ne è bellamente scombussolata. Mi fermo per Pasqua, tiro il fiato, e cerco di ragionare. Ma chissà se ne sono capace…

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