Cormac McCarthy “Cavalli selvaggi” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out:
18/11/2011]
[tit. or.: All the Pretty Horses; ling. or.: inglese; anno 1992]
C’è
tutto McCarthy in questi “graziosi cavalli” che vanno su e giù tra il Texas ed
il Messico. Le atmosfere, la natura, il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, il
rimpianto per un certo modo di vivere, il nuovo che avanza, i contrasti tra
generazioni, i contrasti tra ricchi e poveri. Una summa, scritta in quel suo
modo inconfondibile, senza le punteggiature dei dialoghi, che forse è
l’elemento cui mi abituo di meno. Seguiamo così la storia di un passaggio della
linea d’ombra, come direbbe il non amato Conrad. Della maturazione, presa di
coscienza o simile del sedicenne John Grady. Figlio di un giocatore d’azzardo
che ha vinto e perso fortune al tavolo da gioco e della bella della fattoria,
che non ha mai amato, e da cui è fuggita, lasciando tutto e tutti per andare a
fare l’attrice in città. John vive con il nonno e da lui impara l’amore per la
terra, ma soprattutto per gli animali, ed in particolare i cavalli. Muore il
nonno, la madre vende tutto, e John decide con il cugino Lacey che deve andare
a trovare un posto per vivere vicino ai cavalli. Ne seguiamo le peregrinazioni,
l’incontro con il ragazzino Jimmy, quello fuori di testa che ha paura di morire
colpito da un fulmine. Fino a che non trovano una momentanea pace nell’hacenda
“La Purisima” in una sperduta vallata messicana. Lì finalmente John ritrova i
cavalli, trova il modo di farsi valere, e trova anche il modo di innamorarsi di
Alejandra, la figlia del padrone. E di instaurare un rapporto di confidenza e
stima con Donna Alfonsa, la zia che tiene le redini del potere e della borsa.
Ma è comunque un emigrante rovesciato, che tutti cercano di andare dal Messico
in America e non viceversa. E questa condizione di spaesato non può che
portarlo fuori di pista. Che non conosce i modi, anche brutali. Che pensa la verità
sia sempre comprensibile a tutti. Non sempre purtroppo è così. Soprattutto per
chi non la vuole o non la sa capire. Incolpevolmente coinvolto da Jimmy in una
confusa storia di rapine e contro-rapine di cavalli, si scontra con la
(inesistente) giustizia messicana. Con i bandidos, con le guardie. Ne uscirà a
prezzi durissimi, indurito nel corpo e nell’anima. E capiranno, prima Lacey,
poi lui, che il Messico non può essere il loro posto. John cerca ancora una via
d’uscita, con un confronto dura con Donna Alfonsa prima e con Alejandra poi. Ma
non potrà che uscirne sconfitto. Dovrà anche lui tornare in Texas, per saldare
qualche debito. Ma non potrà rimanere in quella terra (siamo più o meno negli
anni cinquanta) che sta scoprendo il petrolio. Ed andrà alla ricerca di altri
pascoli felici. Se tutta la prima parte è giocata sul filo del rimpianto per un
mondo che va scomparendo, lo spartiacque si ha nello scontro con la polizia ed
il carcere. E le ultime sessanta pagine sono quante di più felice esce dalla penna
del buon Charles (che in gaelico si dice Cormac, e capiamo meglio i discorsi
sulla modernità non accettata). Le due lunghe tirate con le donne, l’anziana e
la giovane, danno il senso al romanzo. Con Donna Alfonsa che si lancia in
un’analisi della rivoluzione di Francisco Madero, attraverso la quale cerca di
far capire a John un mondo che John non ha gli strumenti per interpretare. Con
Alejandra, scontrando la sua incosciente irruenza con l’ardente pragmatismo
della bella. E come detto, in entrambi i casi verrà sconfitto. Solo i cavalli
non lo deludono mai. Né lui li delude. Ma John tratta gli uomini come i cavalli
e vorrebbe essere ricambiato. Purtroppo l’animale-uomo non ha l’istinto di un
cavallo, che comprende il cavaliere anche dall’odore. Di certo non sono
d’accordo nel piangere sul mondo che cambia. Perché non è certo stando fermi
che si riesce a mantenere quello che si ha o si è. Bisogna cambiare. O meglio
evolversi. Certo, e qui sono in sintonia, avendo rispetto. Dell’ambiente.
Dell’altro. Uno di quei libri che non è scritto nelle mie corde, ma che è
riuscito, pagina dopo pagina, a farmi entrare nel suo mondo. Ed a rispettarlo.
Un’ultima annotazione sulla casualità, come ne parla Donna Alfonsa. Che rifiuta
l’affidamento a destini appunto casuali, andando in profondità sul testa e
croce della moneta. Non solo è casuale quella di scelta. Ma a monte, è anche
casuale la scelta che fa il forgiatore di moneta, quando prendendo un tondino
metallico decide quale sia la testa e quale sia la croce. Se non lo avete
capito, che sono troppo conciso, possiamo aprirci un dibattito. E non andate a
vedere il film che ne è stato tratto con Matt Demon e Penelope Cruz “Passione
ribelle”, classico esempio di come fare un brutto film a partire da un bel
libro. Vi cito solo il commento del New York Times: sembra la brutta copia
della pubblicità della Marlboro.
“Non ti senti a disagio? … Ogni tanto. Se uno sta in un posto sbagliato
si sente a disagio.” (38)
“Io faccio sempre sogni strani … I sogni hanno vita lunga. Ancora oggi
sogno cose che sognavo da piccola.” (129)
“Non mi risulta che le difficoltà della vita rendano la gente più
compassionevole.” (219)
“Nella storia non ci sono gruppi di controllo [come negli esperimenti
di laboratorio] e nessuno può dire cosa sarebbe successo altrimenti.” (228)
Gore Vidal “L'età dell'oro” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 03/12/2011]
[tit. or.: The Golden Age; ling. or.: inglese; anno 2000]
Credo
che nei miei appunti sparsi lungo gli anni ci sia una nota che ricorda, prima o
poi, di leggere “Giuliano” il libro sull’imperatore apostata di Gore Vidal.
Beh, il libro non c’è ancora ed ho invece affrontato questo, che sempre di
storia parla. Ma di quella recente, attuale, contemporanea. È, infatti,
l’ultimo di 7 volumi di storia romanzata che Vidal dedica alle vicende della
storia americana, dalla nascita della nazione al suo passaggio ad Impero
mondiale. Il libro è un po’ lento, risente molto del fatto che viene dopo altri
sei, e quindi ci sono continui rimandi. Inoltre è molto pieno di storia
americana (fortunatamente con molte note a piè pagina che tentano di dare
informazioni a noi di qua dell’Oceano). Ma i capisaldi ci sono, chi non conosce
i Roosevelt, Truman, i Kennedy, Hearst della carta stampata e via discorrendo.
Ben si capisce che Vidal parla qui di cose che conosce bene. Della storia
recente fa pure parte, sia come scrittore, ma anche come politico (il nonno era
senatore), che come uomo di spettacolo (sceneggiatore ad Hollywood, poi
saggista, commentatore televisivo). Il libro ci accompagna dal 1939, quando
Hitler invade la Cecoslovacchia e Roosevelt decide di presentarsi per la terza
volta come presidente (solo negli anni Cinquanta fu fatta la legge che impediva
di presentarsi per più di due mandati consecutivi). Fino al 1954, alla fine
della guerra di Corea, con la fine di molte delle illusioni che una classe
medio - alta americana aveva verso una possibile età dell’ora, verso un’era di
stabilità e concordia. Con una breve chiusa sull’anno 2000 che serve a Vidal
per tirare un po’ le fila di tutti e sette i suoi romanzi sull’America. Il
tutto visto con gli occhi dei personaggi fittizi, ma plausibili, inseriti nella
storia. Quelli della dinastia dei Sanford. Prima con quelli di Carolina
(personaggio centrale dei precedenti Hollywood e Impero), poi con quelli di suo
nipote Peter (eroe del primo romanzo Washington D.C.). Anzi, molti degli avvenimenti sono ripresi
proprio dal primo libro, che attraversa lo stesso periodo. Ma lì erano soprattutto
i personaggi inventati che tenevano banco, mentre ora entrano, e di potenza,
anche quelli storici. Non a caso sono passati più di trenta anni tra i due
scritti. Certo, la vena democratica e liberal di Vidal qui si esprime in pieno,
presentando le meschinerie del mondo politico americano, il modo assurdo con
cui vengono affrontati i grandi temi. Perché in fondo gli Americani sentono la
mancanza di un retroterra culturale, ed andranno a dominare il mondo in virtù
della loro potenza economica. Ci da uno sguardo interno all’atteggiamento di
Roosevelt verso la guerra con il Giappone, così come della miopia di Truman sia
per l’uso della bomba atomica, sia per la sfrontata avventatezza con cui
consegna anni ed anni americani al viscerale anticomunismo di McCarthy e soci.
Ma l’ansia di spiegare le mosse politiche, lascia poco spazio alla costruzione
dei caratteri di finzione, che avevano caratterizzato al meglio alcuni libri
precedenti. I personaggi scorrono, e le loro vite, eponime di quelle di tanti e
tanti americani, non hanno presa. Perché poi si torna sempre lì, alla ricca
dinastia dei Sanford, ed ai loro intrecci pubblici e privati. Ma sono sterili e
poco coinvolgenti, tanto che basta leggere la prima pagina, con la cronologia
dei personaggi, che già si capiscono le loro storie. Chi va con chi. Chi lascia
chi. Quando ci sono. Quando muoiono. Alla fine, il cammeo del 2000 è forse la
punta più bassa di tutto il libro. Cammeo, perché presenta in una ventina di
pagina un lungo duetto televisivo tra Peter Sanford, ormai quasi ottantenne, ed
il settantacinquenne … Vidal. Sì, perché lo scrittore si inserisce di persona
nella storia (ne aveva comunque fatto parte), ma questo inserimento sa tutto di
autocompiacimento ed autoincensamento. Certo Vidal soffre di mania di
esposizione, e lo possiamo capire. Ma questa parte stona un po’. Mette certo
tutti i punti finali sui personaggi che abbiamo incontrato lungo la strada,
tuttavia… Non mi è piaciuto, troppa finzione per essere storia, troppa storia
per essere finzione. E poca invenzione fantastica, come ad esempio (saltando di
palo in frasca) nel gustoso film di Allen “Midnight in Paris”, dove la fantasia
riscatta la presenza benché onirica di personaggi storici. E ci da una
risposta, almeno quella di Allen, che la vera età dell’oro è solo il presente, che
dobbiamo vivere e godere, perché qui e ora siamo. Aderisco alle richieste di
Allen e lascio da parte il buon vecchio Vidal.
“È triste che non sappiamo mai dove abbiamo
sbagliato come genitori finché non è troppo tardi.” (218)
Charles Bukowski “Post
Office” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 05/12/2011]
[tit. or.: Post Office; ling. or.: inglese; anno 1971]
Continuo
ogni tanto a leggere qualcosa del vecchio ubriacone Americano. E continuo a non
essere del tutto convinto. A parte che alla fine del libro esci fuori ubriaco
come una cucuzza. Non di parole, purtroppo. Ma proprio di alcool. Che il
vecchio Charles non passa pagina che non si attacchi a qualche liquido. Birra,
whiskey e tutto quanto possa avere dai 40° in su. Tanto che alla fine vive in
un perenne stato etilico. Se poi togliamo tutto questa sovrastruttura alcolico
–anarchica, cosa rimane del testo? Una lunga galoppata di circa 20 anni, dentro
e fuori la società americana, cercando di trarne qualche beneficio (posto
fisso, stipendio) ma mal sopportandoli. Uscendone appena possibile. Per giocare
ai cavalli (passione che spesso ritorna in Bukowski) e vivacchiare di quello. E
soprattutto, spendendo tutti i soldi e tornando sempre al punto di partenza.
Quello di dover trovare un lavoro. E di rodersi il fegato di lavorare come
dipendente di qualcuno. Ogni tanto Harry, il protagonista alter – ego dello
scrittore (non ha caso lo battezza Cinaski per assonanza), fa qualche incontro.
Soprattutto con alcune donne. Ma anche lì, passa il tempo a bere (tanto che
Betty morirà di cirrosi epatica), a scopare (ma poi non è che anche lì sia
sempre pronto, tanto che si lascia con Joyce la ninfomane), anche a fare figli
(con Fay, che lo lascia per andare a vivere con la figlia). Lui si fa passare
tutto sopra. Perché deve mantenere il posto fisso. Quello alle Poste. E le
poste sono un’istituzione in America. E deve fare fronte alle angherie dei
superiori. E alle rotture dei colleghi. E quando fa il postino itinerante,
anche ai cani, alle vecchie signore, ed a tanti personaggi che incontra lungo
le vie della città. Sempre in ritardo, sempre in affanno, sempre pronto, se c’è
la possibilità, a fermarsi da qualche parte a bere un goccio (ma va, direte
voi, non lo avevamo capito!). La sua penna è comunque mirabile, ci regala in
poche righe bozzetti affascinanti del degrado della vita americana. Della fine
del grande sogno americano nelle strade bagnate della città. Della lotta per la
sopravvivenza. Delle storture dei sistemi di controllo del lavoro (esempi
spiccioli di taylorismo applicati allo smistamento delle lettere per codice
postale). Per essere un libro che ha 40 anni, non serve spostare una virgola
per fotografare qualsiasi situazione lavorativa. Chiudendo un poco gli occhi,
si potrebbe leggerne in controluce la trama di quel film italiano sui Call
Center (quel “Tutta la vita davanti” di Virzì, tra l’altro tratto dal bel
romanzo di Michela Murgia) senza quasi cambiare una parola. Ma, va bene, hai
descritto un mondo che va male. Hai descritto le persone alla deriva, sia che
accettino quel mondo (come il postino che poco prima di andare in pensione esce
di senno davanti allo smistatore di cartoline) sia che non lo accettino (come
Betty e la sua bottiglia eterna). Hai descritto il tuo tragitto in quel mondo,
cercando di prenderne il buono (i soldi, la sicurezza) senza mai fare un
compromesso. Tipo continuare a bere e scopare tutti i giorni fino alle due di
notte per poi alzarsi alle 5 ed andare a distribuire lettere. Tu, Bukowski –
Cinaski non ti sei piegato, ed alla fine ne hai scritto e lo hai esorcizzato.
Ma è una battaglia tutta tua, anarchica come dicevo prima. Non c’è salvezza
collettiva. E forse nemmeno personale. C’è solo la possibilità di scavarsi un
buco solitario e viverci dentro, fregandosene di tutto, anche di tua figlia
Marina. Per poi? Per poi attaccarsi ad una bottiglia e giocare ai cavalli. No,
non mi convince. La filosofia, la scrittura, il messaggio, anche la descrizione
del mondo. Procedo a macchie, ma niente più. Ecco perché alla fine, non mi è piaciuto.
L’ho letto, va letto (o forse andava letto qualche decennio fa). Ma non mi
sento di consigliarlo.
Juan Sasturain “La mujer ducha” Debolsillo euro 6,72
[in: 25/07/2011 – out:
24/12/2011]
[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; anno 2001]
Una
doppia delusione, questo libro che immaginavo migliore. Come molti sanno,
quando giro per il mondo, mi piace portarmi in ricordo un libro, ovviamente da
quei posti dove si parlano lingue comprensibili. Per questo, ero stato contento
di trovare una bella libreria al Paseo de la Florida (bel nome, eh), e di aver
avuto il consiglio del libraio per un romanzo di autore argentino
contemporaneo. Ora finalmente l’ho preso dalla libreria, e l’ho letto. Prima
delusione: non è un romanzo, ma una serie di racconti. Certo, i racconti sono
una forma altrettanto gradevole di lettura (a parte la mia nota ritrosia
nell’affrontarli). Tuttavia, un romanzo in lingua ha un respiro diverso,
consente magari di recuperare il senso della frase nel contesto più ampio della
narrazione. Un racconto, no. E soprattutto se si parla di autori contemporanei.
Che usano frasi gergali, accenni. Insomma, un libro di difficile lettura (una
settimana per 200 paginette è fuori da tutti i miei ritmi). La seconda
delusione è venuta dall’autore. Cioè, dal suo modo di scrivere. Capisco che
essere argentini pesa, per avere alle spalle un macigno come Borges, che nella
forma-racconto ha dato la sua massima espressione. Qui però Sasturain non fa
altro che imitarlo. Ed in particolare in tutti quei racconti incentrati su
qualche personaggio. Come nella storia di Lecadamo, il cacciatore di draghi. O
nell’epopea del generale Rasca, conquistatore del nulla. O nella dolorosa
istoria di Campitos, genio misconosciuto della statistica e scopritore di
talenti calcistici. Si copia, si copia, o al massimo, si cerca di aggiornare il
modello borgesiano. Narratore che sa, che racconta, che descrive i personaggi.
Che entra ed esce dalla storia. Ma mentre lì c’era comunque un intento, a volte
grottesco, a volte che capovolgeva le regole del vivere, a volte di tristezza
(penso a Ireneo o della memoria, o al Giardino dei sentieri che si biforcano,
tanto per non arrivare alla somma Biblioteca o all’impareggiabile Menard autore
del Chisciotte). Qui sembrano esercizi letterari, punte di spillo. Come la
storia del supereroe Ramos Martinez, quello che volava come Superman. Che
prende il nome d’arte di Zenitram (che scarsa fantasia!) e che non vuole andare
in pensione da supereroe allo scoccare dei 50 anni. O i tentativi di scrivere o
riscrivere storie all’americana, con gangster o altro. Come Nick Frascara. O la
storia del falso racconto di Hammett. Piccolezze, pochi spunti. Neanche
acquarelli, come poteva essere la gita in Spagna della famiglia Truzzo, che si
ritrova in Andalusia a veder girare un western-spaghetti. L’unico che sembrava,
almeno fino ad un certo punto, dar tono alla raccolta, è quello del titolo.
Quello della “Mujer ducha”. Dove si narrano le vicende di un “tomber de femme”
argentino, che non perde colpi. E che espone la sua teoria sulle donne. E su
quello che fanno “dopo” (capisci a me). C’è quindi la donna - bidet, che subito si lava, come a voler
mettere una cesura, una distanza con l’uomo. C’è la donna – bagno, che si
immerge nell’acqua, nei profumi e nelle essenze, quasi a volersi installare
subito da te, a prendere un posto stabile nella vita. E c’è la donna – doccia,
quella che è indipendente, che si mette sul tuo piano, e con la quale si può
(si potrebbe) instaurare un rapporto paritario. Ed il nostro Distefano cadrà
alfine in un gioco duro con Angela, una donna – doccia. Ed inevitabilmente ne
uscirà sconfitto. Ma non è questo il bello del racconto, che è, esposto così,
banalino e poco più. Sono due elementi, contingenti, di spaesamento, che me lo
hanno, per un po’, fatto apprezzare. La descrizione del freddo di luglio, che
può capire solo chi è stato in luglio a Buenos Aires. E la stranezza di questa
gioventù che passa le notti a dipingere murales. Quasi fosse una sorta di
lavoro, e non come da noi, un’opera “alternativa”. Ma anche questo racconto
poi, scivola via in una sorta di imperfetto modo di scrivere. Per culminare poi
nel poco comprensibile racconto di San Jodete, tutto giocato sul ricordo del
peronsimo e sul “jodere” (che non sta per godere, ma per fottere). Un racconto
tutto giocato sui doppi sensi, e sulle parole forti (che in genere sono le
ultime che si imparano in una lingua straniera). Peccato, che mi aspettavo
molto, in particolare dall’autore stesso, che altrove avevo apprezzato. Quando
ha sceneggiato la bellissima graphic-novel del maestro argentino Alberto
Breccia. Peccato. Sarà per una prossima volta.
Eh, si, mi ripeto. Lunghe
giornate di lavoro, una nuova scommessa sul tavolo della mia vita. Che per ora
ne è bellamente scombussolata. Mi fermo per Pasqua, tiro il fiato, e cerco di
ragionare. Ma chissà se ne sono capace…
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