mercoledì 27 giugno 2012

Eurogiugno - 17 giugno 2012

Perché mese di europei (calcistici e monetari) e quindi diamo un’occhiata ai francesi, che è un po’ che non li guardiamo, con una punta di spagnolo, anche se parliamo di Sudamerica. Riprendiamo, in attesa dell’economica della Vargas, l’accademico Orsenna ed una nuova puntata della grammatica ragionata, un salto sui racconti di Schmitt (in attesa di Ulisse) ed un tentativo di apertura di orizzonti diversi con un libro “amoroso” ma che poi non è stato così come mi aspettavo. Il boliviano è un sentito omaggio al viaggio della scorsa estate in America Latina. In attesa di nuove partenze.
Erik Orsenna « La Révolte des accents » Livre de Poche euro 5,60
[A: 02/02/2012 – I: 02/02/2012 – T: 03/02/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 117; anno 2007]
Terzo episodio della saga grammaticale dell’Accademico di Francia Erik Orsenna (seduto sulla poltrona n° 17 che fu di Louis Pasteur e di Jacques-Yves Cousteau) dove il funambolo della grammatica mescola un po’ di cose per cercare di creare un cocktail più saporito della trama un po’ banalotta del precedente sul congiuntivo. Troviamo quindi la nostra eroina, la simpatica Jeanne (quella che cerca di capire cosa fosse l’amore nei romanzi precedenti) che qui è un po’ cresciuta (ma non sappiamo quanto, e viene tutto un po’ lasciato all’immaginazione, come giusto in una “favola”) scoprire durante un lavoro estivo come aiuto del guardiano del faro della nostra isola grammaticale, che, in seguito alla visita di una compagnia di attori, dall’isola sono sparite le spezie e dai discorsi degli isolani gli accenti. Nell’assemblea cittadina per capirne di più Orsenna ci da una simpatica lezione dell’uso e del significato dell’accentuazione nella lingua (l’uso dei segni diacritici, cioè quelli che servono a distinguere una lettera da un’altra dalla scrittura uguale ma dal suono differente seppur simile). E ci dà anche il primo dei due colpi di genio del racconto lungo: sono sparite cose che servono ad insaporire. Le spezie insaporiscono il cibo e gli accenti insaporiscono la costruzione delle frasi. I segni diacritici danno senso e profondità alle parole. Le modificano, fanno passare i verbi dal presente al passato. E via accentuando. Certo stiamo parlando della lingua francese, dove gli accenti di base (acuto, grave e circonflesso) hanno una loro funzione insostituibile. Non sarebbe così facile trattarne in italiano dove, ad esempio, il circonflesso praticamente è inesistente (anche se si dovrebbe utilizzare nel plurale delle parole in –io come condominî per non confonderlo con condomini). E gli accenti grave ed acuto sono quasi solo in fine di parola. Ma, come direbbe la mia maestra di francese, “Revenons à nos moutons”, cioè torniamo all’argomento principale della nostra trama (e ricordate che voilà ha l’accento e voila delle nostre trame … no). Spariti spezie e accenti, la nostra intrepida Jeanne si prende, come al solito, l’incarico di risolvere il mistero. E dietro il suggerimento di una povera accentuazione slovena, la Kljukica (che non è altro che l’accento “v”, cioè il circonflesso rovesciato), rimasta sull’isola perché innamorata di un accento circonflesso, parte in quarta alla ricerca degli scomparsi che si dovrebbero trovare in una misteriosa valle indiana. Lì, avendo come Virgilio uno sconclusionato internauta che, dall’India, regola il traffico e le multe della città di Brest (primo accenno ad un sottotema del racconto, sull’uso e l’abuso della globalizzazione e della tecnologia), viene a conoscenza del mistero della valle misteriosa. E ci viene introdotto il secondo elemento suggestivo della fervida mente di Orsenna. La valle, in fatti, è anche piena di attori. Che anche loro (e ben lo sappiamo) danno colore e sapore alla nostra vita. Ed è divertente la narrazione del Dio stanco che decide di introdurre prima le spezie e poi gli attori nella quotidianità indiana. Qualche altra invenzione minore (che vi lascio scoprire), una bella citazione d’amore della Principessa di Clèves, ed una di una poesia di Pessoa. E poi, finalmente, si arriva alla valle incantata. Con tutti i segni diacritici del mondo. Gli usuali, i quasi esotici (la tilde, la cediglia, i due punti, i segni sopra e sotto la riga dell’arabo e dell’ebraico), quelli veramente diversi (l’hamza araba, che serve a dare un colpo di glottide prima della lettera che lo precede, il sapore forte e dolce dei greci, fino ai belli, discreti e misteriosi accenti tibetani, che non posso mostrarvi avendo bisogno di un diverso insieme di caratteri grafici, ma che sono ben disegnati nel libro). Qui il racconto lungo è un po’ irrisolto, che non sappiamo se gli accenti torneranno alla base, ma sappiamo perché se ne sono andati. L’uso smodato del “non accento” dovuto al diffondersi perverso di Internet e delle tastiere semplificate. Ci viene però lasciata una bella immagine: Jeanne si ricopre di accenti a mo’ di tatuaggi. Perché fanno i nostri segni per distinguere, anche per distinguere le persone normali d quelle innamorate. Così Jeanne saprà di essersi innamorata. Ma di chi? E l’amore trionferà come in tutte le saghe? Speriamo di scoprirlo prima o poi nel prossimo racconto dedicato alle virgole. Per ora, un nuovo plauso ad Orsenna, alla sua fantasia, ed alla realizzazione di questi libretti, pieni di disegni ed immagini grafiche che consentono di ritenere ben spesi i 5 euro del costo.
“Si tu avais voulu être comédienne, ce qui s’appelle vouloir, vraiment vouloir au lieu d’en rêvasser vaguement, tu le serais déjà.” [Se volevi fare l'attrice, ciò che si chiama volere, volere veramente, invece di sognare vagamente, lo saresti già] (26)
“Mais votre histoire … a une suite ? … Bien sur … Avez-vous déjà rencontré une histoire sans suite ? Toutes les fins d’histoire sont des fausses fins. Sitôt qu’on a les dos tourné, l’histoire repart.” [Ma ... la tua storia ha un seguito? … Sicuro ... Avete mai incontrato una storia senza seguito? Tutte le fini delle storie sono delle fini false. Non appena si girano le spalle, la storia riparte.] (69)
“- Ramenez-moi donc ceux qui regardent et qui voient. – Vous voulez parler des artistes ? … Il faut vous prévenir, majesté, … les artistes … souffrent d’une maladie grave : ils mentent. – Le silence ment bien plus que la mensonge.” [- Portatemi coloro che guardano e vedono. – Volete dire gli artisti? … Dobbiamo avvertirvi ... maestà ... gli artisti ... soffrono di una grave malattia: mentono. – Il silenzio mente molto più di una menzogna.] (73)
“Une histoire qu’on n’arrive pas à raconter ressemble à un amour qu’on n’ose pas s’avouer.” [Una storia che non si riesce a raccontare assomiglia ad un amore che non osiamo confessarci.] (116)
Eric-Emmanuel Schmitt « La Rêveuse d’Ostende » Livre de Poche euro 6,50
[A: 02/02/2012 – I: 04/02/2012 – T: 06/02/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 246; anno 2007]
Una nuova puntata anche degli scritti del drammaturgo – scrittore francese cui mi sono appassionato negli ultimi anni. Trovato a Bruxelles, tra una riunione e l’altra, ho cominciato a leggerlo in aeroporto avendo a) finito i libri italiani (pochi) che avevo portato e b) nell’attesa che prima o poi partisse un volo per Roma. Sapevo già che erano racconti e certo, nella mia nota diffidenza verso lo scritto breve, ero pronto ad essere molto critico. Alla fine il giudizio è però sulla via mediana. Due buoni testi e due meno, più una punta di penna di dieci pagine non eccelsa ma quasi bozza per altro scrivere. Mi è piaciuto il racconto del testo, che ha anche un respiro maggiore. Tra l’altro si svolge ad Ostenda (città natale di Magritte), ed avendolo letto in Belgio mi faceva sentire vicino. Vicino a quello strano mare del Nord, ed a quelle atmosfere di qualche decennio fa che ritrovai sulle coste olandesi. Pur tuttavia, non è quello il fulcro del romanzo. Il centro è la solitaria Emma, di cui, pagina dopo pagina, entriamo a penetrare il mistero. Lei ormai anziana si confida con lo scrittore venuto a curare le sue piaghe amorose. A lui sembra sognatrice, ma si appassiona alla trama della strana vita di questa ottuagenaria, che, pur paraplegica, racconta di una bellissima storia d’amore. Saltando dall’Africa al mare del Nord, dai palazzi principeschi alle stradine piene di salsedine. Vita che Emma si affanna a raccontare sentendosi alla fine della sua strada. Ma talmente improbabile, che nello scrittore si introduce potente il tarlo del dubbio. Sarà tutto vero? Saranno fantasie di una povera signora persa tra i suoi libri e il mare? Ovviamente non vi sciolgo l’enigma, ma passo all’altro bel racconto, il terzo. La storia di una guarigione. C’è un’infermiera che cura un bel fotografo ridotto maluccio da un incidente. Tra l’altro è diventato cieco (ritorna il tema di Piccoli crimini coniugali). La nostra infermiera si sente sempre fuori posto, grassa, sgraziata, colpevolizzata nell’aspetto fisico da una madre bella ed esigente. Ma il cieco ne sente il profumo, la immagina, la vive nel ricordo delle sue modelle bellissime (ed oche). E a poco a poco riesce a far uscire il cigno interiore del brutto anatroccolo. Sarà quindi il malato che farà guarire la persona supposta sana. Anche se… E non dico altro. I due che mi hanno convinto di meno sono un po’ più truculenti, e forse linearmente concepiti, ma non raggiungono punte di coinvolgimento. Una donna uccide il marito pensando che questi, dopo trenta anni di matrimonio, gli nasconda dei segreti cui lei non riesce a penetrare. Scoprendo alla fine che l’unico vero segreto era l’amore del marito nei suoi confronti. Nell’altro seguiamo le vicende di un professore di liceo che odia e non legge i romanzi, ma solo saggi e libri dotti. Solitario ed impaurito fa il solito viaggio estivo con la cugina adorata, che riesce a farlo appassionare ad un romanzo. Qui la trama si fa flebile, che troppo scontato è l’innamoramento per una trama d’azione del nostro. Che si immerge a tal punto nella lettura da confondere, come è facile prevedere, realtà e fantasia. La breve punta di penna si aggira intorno ad una strana signora che da quindici anni si presenta tutti i giorni alla banchina numero 3 della stazione di Zurigo con un mazzo di fiori in mano. Non c’è azione, non c’è reale rivelazione. Solo interrogativi che lo scrittore si pone sul perché, immaginando storie possibili. Ma quale sarà la realtà? La scrittura di Schmitt qui non è potente come altrove, ma è sicuramente maturata negli anni (questi racconti ne hanno solo cinque sulle spalle). E Schmitt riesce sempre, nelle pieghe dei suoi testi, a porci qualche domanda su di noi, sul nostro vivere, sui nostri sogni e sulla rispondenza tra sogno e realtà. I suoi personaggi positivi hanno solo bisogno di un piccolo aiuto per uscire dai pantani cui si vengono a trovare. E quando arriva (se arriva) possono finalmente veleggiare sugli altipiani della serenità. Beh, a me continua a piacere, e continuerò a cercare altre “sue” prove.
“Certaines femmes sont des trappes où l’on tombe. Parfois, de ces pièges, on ne veut plus sortir. ” [Alcune donne sono trappole in cui si cade. A volte da queste trappole, non vogliamo più uscire.] (9)
“Parfois des êtres constitués pour s’enflammer ne vivent pas la grande passion qui leur était destinée car l’un est trop jeune, l’autre trop âgé.” [A volte le persone fatte per innamorarsi non vivono la loro grande passione, perché uno/a è troppo giovane, l’altro/a troppo vecchio.](26)
“Lire et écrire, ça n’a aucun rapport. Est-ce que je vous demande, moi, si vous allez vous transformer en femme sous prétexte que vous aimez le femme ?” [Leggere e scrivere, non hanno alcun rapporto. Non le chiedo certo se lei si trasformerà in una donna solo perché ama le donne?](49)
“Je vais vous expliquer … pourquoi on ne doit jamais être jaloux. Parce que si vous créez une relation unique avec quelqu’un, elle ne se reproduira pas.” [Ti spiego ... perché non dobbiamo mai essere gelosi. Perché se si crea un rapporto unico con qualcuno, questo non si ripeterà mai.] (180)
Anna Gavalda « Je l’aimais » J’ai lu euro 4,80 (in realtà, scontato a 4,50 euro con FNAC BXL)
[A: 22/06/2011 – I: 18/02/2012 – T: 18/02/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 157; anno 2002]
Avevo sentito parlare di questa scrittrice, insegnante di francese, come una specie di Moccia d’oltralpe. Curioso, compro e leggo. Niente Moccia, per fortuna. Scrittura molto più robusta, anche se piana e senza intoppi. Ed alla fine più sul versante che da Sveva Casati va a Federica Bosco, inciampando in Chiara Gamberale (questo per dare riferimenti ai miei italici lettori). Ed in realtà, più che un romanzo, sembra essere la trasposizione di una piéce teatrale. In effetti, ci sono solo due personaggi, Chloé e suo suocero Pierre, che non fanno altro che parlare per tutte e 150 le pagine. Parlare all’inizio un po’ di tutto, per poi concentrarsi su due filoni di racconto. Uno che dà un po’ il filo al romanzo, l’ossatura, è lo spunto iniziale. Chloé è stata lasciata dal marito Adrien. Hanno 2 figlie. Chloé si è sacrificata in un lavoro poco soddisfacente per fare in modo che Adrien si laureasse ed intraprendesse una brillante carriera (ahi, quante storie simili ho sentito!). E poi Adrien incontra una ragazza giovane e brillante. E prende le sue decisioni. Chloé ne esce distrutta. E passa tutto il tempo, lì in campagna con il suocero, a piangere. Qui si innesta la figura di Pierre. Che vuole bene alla nuora. E vuole bene anche al figlio. E cerca le motivazioni, le ragioni. Trovandole solo nel raccontare, e questo è il secondo e robusto filone, la storia del suo innamoramento per tale Mathilde. Una storia che inizia, si svolge, ed avrà una sua fine, lasciando Pierre nella sua “comoda” situazione familiare, con la moglie Suzanne ed il figlio Adrien. Esce così la figura di questa persona che pur sposatasi con amore, non è mai riuscita a dimostrare affetto né per la moglie né per il figlio. Figlio che allora ha sempre cercato di fare tutto per trovare il modo di farsi amare dal padre. Facendo, come si dice, le scelte corrette. Ma questa scelte lo hanno portato al bivio, davanti al quale ha fatto la scelta che Pierre non ha avuto il coraggio di fare. Ha scelto il rischio. Pierre no. Anche se Mathilde aveva tutte le qualità complementari alle sue. Lo faceva stare bene. E si capisce quando si sta bene con una persona se si fanno cose anche senza parlare, e se ne esce contenti. Pierre si occupava di progetti internazionali. Mathilde era interprete dal francese all’inglese. E si incontrano ad Hong Kong e per cinque anni proseguono la loro storia in giro per il mondo. Mai a Parigi, dove Pierre ha la sua vita. Ma Mathilde è veramente innamorata, ed in un bel pezzo di bravura descrittiva, narra a Pierre tutte le piccole minute cose che avrebbe voluto fare con lui. Non i grandi viaggi, le scoperte eclatanti, ma “fare la siesta lungo un fiume, mangiare gamberetti, comprare delle scarpe, prendere la metro…”. E l’impossibilità di tutto ciò porta alla loro fine. Che Pierre non lascia la sua situazione, anche se continua a ripetere che lui Mathilde, l’amava. E con questo apologo, cerca di convincere Chloé che suo figlio Adrien è molto al di sotto della bravura della nuora. E che questa per lei è un’opportunità. Anche se dolorosa. Poiché la storia, poi, non fa che adombrare la vicenda personale della scrittrice, intuiamo che forse c’è del vero, che Anna Gavalda, dopo essere stata lasciata, ha un bel successo come scrittrice. Ma ritorniamo al testo, ed ai suoi messaggi. Dove c’era veramente l’amore? Dove incominciava l’egoismo di ognuno? Pierre ottiene tutto da Mathilde, ma rimane con Suzanne e continua la sua vita “normale”. Ma Pierre amava veramente Mathilde? E fino a che punto bisogna tenere in considerazione le compatibilità? E i figli? Il mondo gavaldiano sarebbe bello se tutti fossero onesti con sé stessi e leali verso gli altri. Ma il mondo, purtroppo, non è così. Quasi mai. Ecco, con questi interrogativi l’andamento un po’ piatto sembra riscattarsi un po’. Ma immagino che altra forza avrebbe avuto se ad impugnar la penna ci fosse uno Schmitt dei “Piccoli crimini coniugali”.
“C’est la vie. Il y a les courageux et puis ceux qui s’accommodent. C’est tellement moins fatigant de s’accommoder…” [Questa è la vita. Ci sono i coraggiosi e quelli che si accontentano. E talmente mento faticoso accontentarsi.] (123)
“Jusqu’à présent, la Vie s’était si bien chargée de tout décider à ma place, pourquoi aurait-il fallu que ça change ?... Je préférais rêver ou regretter.” [Fino ad ora, la Vita si era incaricata di prendere decisioni al posto mio, perché si sarebbe dovuto cambiare? … Preferivo sognare o rimpiangere.] (138)
“Toi … tu as la nostalgie des montagnes. – De quelles montagnes ? … - De celles que tu n’as pas connues.” [Tu ... hai nostalgia delle montagne – Di quali montagne? … - Di quelle che non hai conosciuto.] (139)
Jaime Mendoza “En las tierras del Potosì” Puerta del Sol euro 2
[A: 25/07/2011 – I: 12/04/2012 – T: 16/04/2012]
[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 153; anno 1911]
Un romanzo nel complesso minore, ma che porta con sé altro di cui narrare. Prima di tutto, l’acquisto, avvenuto durante l’ultimo viaggio in Sud America. Trovandomi nella città di Sucre, ho a lungo girato per libreria alla ricerca di un libro di autore locale (come spesso faccio in giro per il mondo, la dove la lingua lo consente). E mi imbatto in questo che il buon libraio mi definisce una delle opere della storia letteraria boliviana. Già mi sembra un bel fatto, unito alla considerazione che si parla del Potosì, la regione mineraria boliviana per eccellenza. Scopro poi che l’autore, Jaime Mendoza, è proprio natio di Potosì. E che ho acquistato il suo libro con due ricorrenze significative: sarebbe il compleanno dell’autore (25 luglio) e sono 100 anni esatti dalla sua pubblicazione (1911). Tutto questo me lo ha reso caro, e con un bel sorriso interno l’ho messo lì, nel calderone delle letture. E visto i ben numerosi libri che compongono la fila in attesa, non meraviglia che siano passati 8 mesi prima di iniziarlo. Ma dalla prima pagina, sono tornato al vento boliviano, ai grandi spazi, ma anche alle visioni angosciose delle sue miniere, alle improbe condizioni dei minatori. Leggendone la cadenza, mi ritrovavo a percorrere non le squadrate vie di Sucre la bianca, ma le salite mozzafiato di Potosì, con i suoi quasi 4000 metri di altitudine che ti rimangono tutti in gola ed in testa. E la visita alla miniera di Cerro Rico, dove scendemmo con l’elmetto in testa, per un kilometro nella pancia della montagna, guidati dal piccolo faro a batteria. Che sensazione di claustrofobia (ed io non sono claustrofobico). E la liberazione di uscire all’aperto. E l’angoscia di vedere i minatori ubriachi dalla mattina. E sentir parlare di crolli. E poi tornare alla città, ai non minatori, ai passanti dalla corporatura compressa e dalla faccia rubizza, dalle donne indios ed i loro (comunque) sorrisi nel veder stranieri passeggiare per le loro terre. Lo spagnolo di Mendoza mi culla, ma la storia non è di un grande intreccio. La storia racconta la vita di Martin Martinez, uno studente di legge che va da Sucre a Llallagua a lavorare nelle miniere, perché lì si dice ci sia abbondante ricchezza per tutti. C'è, invece, una vita dura, piena di incidenti, malattie, vizi, ingiustizie e corruzione. Martin cercherà di opporre i suoi buoni sentimenti a tutto ciò, ma ne verrà sconfitto e tornerà a Sucre per cercare di laurearsi e trovare altri modi di vivere. Il romanzo ha tuttavia, al di là di questa trama miserella, alcuni spunti notevoli. Alcuni caratteristi, che popolano le giornate di Martin: il giovane Lucas, che ruba lo stagno nelle miniere per venderlo e distribuire una parte dei soldi ai poveri della città, la bella india Catalina che per un po’ attrae Martin, ma che fugge con un altro, e soprattutto il medico senza nome, che adombra la figura stessa di Mendoza, che proprio a Llallagua cominciò la sua carriera come medico (si laurea a Sucre nel 1901) e che userà i suoi ricordi per scrivere il romanzo. L’altro spunto sono le descrizioni: sia delle miserande condizioni dei lavoratori nelle miniere, con le cruente descrizioni delle morti, per dinamite mal posta, in genere, ma anche e soprattutto per tubercolosi e tifo (due malattie endemiche che il medico Mendoza tentò di arginare). E sia delle terre boliviane: nel viaggio da Sucre a Llallagua, nelle passeggiate tra Llallagua e Uncía, nelle miniere. Insomma, come disse la critica, un libro che inaugura il realismo boliviano di denuncia. Dopo verranno altri, anche se a noi poco noti, e riprenderanno principalmente i temi di denuncia. Mendoza ha il merito di aver innestato un volano che ha proseguito la sua corsa. Forse con successi limitati nel campo minerario puro (visto che cento anni dopo le condizioni sono cambiate di poco) ma con indubbi avanzamenti sul piano della salute al contorno. Chiudo il libro, sento ancora mancare il fiato delle alture boliviane, sento nelle ossa il freddo e il vento di Uyunì. Ma come sempre, se mi dici partiamo, io ti rispondo: ci sono.
Ricordo che questa settimana c’è stata un’ottima iniziativa sulla scrittura in carcere presso il Museo di Criminologia di Roma, e rammento a chi è interessato i titoli della scrittura in carcere usciti presso Sinnos edizioni: “Attimi che cambiano la vita”, “Malgrado tutto”, “Identità sospese”, “L’umano e il suo rovescio”. Inoltre tra poco si va tutti al Dinamofestival a Testaccio a vedere un nuovo saggio-assaggio di “Ho sete”. Per il resto una buona settimana

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