giovedì 21 giugno 2012

Regali e consigli - 13 maggio 2012

Una settimana dedicata a scelte indirette. A libri regalati. A libri consigliati. Ed a consigli di libri, come fa la mia amica Luciana che, lontano da Rebibbia, ci consiglia di leggere (o almeno consultare) “La musica è leggera” di Luigi Manconi. Intanto qui invece passiamo ai libri regalati, magari per il compleanno del 2011, come il libro sui misteri napoletani, che mi ha lasciato un po’ perplesso, o per l’ultimo Natale, come il libro del centenario che scappa, una piacevole sorpresa. O consigliati, come l’Islampunk dal buon Roberto, o il grande russo, di cui non cessava di parlare Nicoletta. Ed entrambi, invece, poco graditi, anche se pere ragioni diverse, al mio palato.
Dominique Fernandez “Porporino ovvero I misteri di Napoli” Colonnese s.p. (regalo di Rosa)
[A: 17/05/2011 – I: 06/01/2012 – T: 11/01/2012]
[titolo: Porporino ou les Mystères de Naples; lingua: francese; pagine: 303; anno 1974]
Devo dire in tutta onestà che mi aspettavo qualcosa in più. Il libro è composito, molti piani di lettura, quindi diversi tipi di ritorni. L’autore immagina di scrivere tre quaderni dell’autobiografia di un cantore castrato del Settecento, immerso nella vita e nei colori della Napoli della seconda metà di quel secolo. Ebbene, il primo quaderno è interessante, quando si parla della vita nelle campagne calabresi, povertà, miseria, promiscuità e sogni. Ed altrettanto interessante il primo capitolo del terzo quaderno, con una passeggiata per i quartieri di Napoli che vale più di una guida turistica. Il resto, che vuol mischiare storia alta e bassa, non l’ho trovato all’altezza. Primo, che quando si mescolano due piani si deve fare attenzione alla realtà storica cui ci si riferisce, e quindi o si è rigorosi (ed allora nel libro ci sono diversi errori) o si è fantastici (ma allora va in qualche modo dichiarato, e questo l’autore non lo fa). Secondo, mi aspettavo di più sia sul sentire del protagonista, che invece dopo il primo quaderno viene messo un po’ lì come fosse un banditore di storie altrui, senza che mi riesca a comunicare i suoi sentimenti, sia sul sentire dell’epoca, che viene un po’ strascinata tra i concioni di Don Antonio e Don Raimondo, ma risulta alquanto noiosa. La storia immaginata (almeno un po’) dall’autore è direi lineare: per povertà, una famiglia calabrese vende l’ultimo nato, dotato di un bel canto, ad un principe napoletano per farlo diventare sopranista (eufemismo per dire di farlo castrare e rimanere con la voce adolescente come fu per il più noto di loro, Carlo Broschi detto Farinelli). Seguiamo Vincenzo nell’evolversi della povera giovinezza, e questa è la parte migliore, con le ricostruzioni della vita contadina del Settecento, con le sue povertà, ma anche con i suoi riti, che ancora, in parte, sono vivi nelle campagne attuali. Vincenzo castrato studia canto ed altre materie, debutta a teatro con il nome di Porporino (e non è vero che, come dice l’autore, non ci fu cantante di tal nome, che proprio tale soprannome in onore del maestro cantore Nicola Porpora fu preso da Antonio Uberti, vissuto nello stesso periodo), ed attraversa la vita napoletana di quegli anni, incontrando personaggi famosi (bella la scena della visita di Mozart a Napoli), facendo da chaperon alla (possibile) storia d’amore di Don Manuele Carafa, discendente di papa Paolo IV, con il bel Feliciano (questo sì, inventato), fino alle terribili, funeste ed aspettate conclusioni, dove, in seguito alla pazzia del suo mentore, il principe di Sansevero, Porporino decide di auto-esiliarsi in Germania, dove scrive queste memorie. Oltre al primo quaderno, ripeto, è bella la passeggiata che ci fa viaggiare per Napoli, all’inizio del terzo quaderno, scoprendo la vita ed anche alcuni misteri della Napoli del Settecento, da Via dei Tribunali a Via Toledo, dal Foro Carolino (ora piazza del Plebiscito) a via Chiaia e a Monte di Dio. Ma pochi sono i misteri contenuti, anche se belli i tocchi di chi, per anni, ha comunque vissuto a Napoli, come l’autore negli anni Cinquanta. Detto ciò, e supposto che Fernandez non volesse velare di falso i tempi e i modi, rimane la sensazione di delusione nelle mescolanze improprie e negli errori (voluti o meno). Nei mascheramenti, e si capisce che non volendo fare pubblicità occulta chiami Startuffo la migliore pasticceria di Napoli (che è quindi Scaturchio con le sue inimitabili pastiere, dato che ci si trova in piazza Domenico Maggiore, in faccia alla famosa chiesa rovesciata). Ma non capisco perché rinominare Antonio Perocades l’alter-ego di Porporino per la commedia dantesco - napoletana, dicendo che fu personaggio di spicco della politica dell’epoca, quando il personaggio storico si chiamava Antonio Jerocades. Questo fa anche nascere una serie di confusioni di date, perché la vicenda si colloca, bene o male, tra il 1765 ed il 1780, con le propaggini verso la rivolta napoletana (che avvenne nel 1799). E l’autore mette Don Antonio tra i sostenitori di quella rivolta, quando il vero Don Antonio muore già nel 1783. E già che ci siamo, Nelson viene per la prima volta a Napoli solo nel 1793, quando le vicende narrate sono concluse, e si invaghisce di Lady Emma Hamilton. Qui l’autore lì fa incontrare 20 anni prima, quando però Lady Hamilton era ancora la prima Lady Catherine, morta nel 1782. Per non parlare del pot-pourri dedicato a Raimondo di Sangro Principe di Sansevero, dove insieme ad una serie di vicende note, storiche e documentate (a chi non lo avesse mai visto consiglio in ogni caso la visita alla Cappella Sansevero, veramente bella, sia per il Cristo velato di Sammartino, sia per gli studi anatomici del principe), l’autore colloca intorno al 1770 la ristrutturazione della famosa cappella, che avvenne invece 15 anni prima. Questo per far coincidere l’apice della vicenda con la vera data della morte di Don Raimondo, il 1771. Creando altra confusione ed ambiguità. Due ultimi dati. Il primo sull’autore ma questo però credo sia solo un errore e non possa mai passare da favolistica invenzione: a pagina 221 si cita Sant’Agata come patrona di Palermo. Dove sappiamo che la santa di Palermo è Santa Rosalia, mentre Agata è santa di Catania. Il secondo sulla traduttrice, che continua ad indicare con il termine francese “dessus” i castrati, quando il termine indica in francese i soprano, nella loro ultima ed alta tonalità, perché sono “dessus” cioè “sopra” a tutte le altre voci. Ultimo invero accenno di simpatia con l’autore, è il suo acting dichiarato scrivendo il libro. Aveva appena divorziato, ma con questa scrittura si dichiara pubblicamente gay, e trenta anni dopo sarà il primo scrittore gay ad essere nominato Accademico di Francia. Bravò Dominique! Ciò nonostante, ripeto e concludo: mi aspettavo di più, che mai riesce Dominique – Porporino a farmi partecipe dei suoi travagli di “semivir” come si definisce ad un certo punto.
“La quintessenza dello spirito napoletano: coscienza della propria buffoneria, auto derisione, orgoglio di questa coscienza, rifiuto di lasciarsi imbrogliare.” (81)
“Non bisogna mai chiedermi di superare un ostacolo per cercare di raggiungere uno scopo … Io sopprimo i limiti per il solo piacere di sognare.” (187)
Michael Muhammad Knight “Islampunk” Newton Compton euro 6,90
[A: 17/05/2011 – I: 13/01/2012 – T: 19/01/2012]
[titolo: The Taqwacores; lingua: inglese; pagine: 309; anno: 2006]
Consigliato da Roberto. E sconsigliato da me. O almeno, da leggere con una esegesi accanto. Ma facciamo un primo punto: ringrazio il suggerimento di Rob, che nel libro realmente si parla (come mi scrisse) “di giovani e di nuovi modi di vivere l'islam nella società contemporanea americana; ma poteva pure parlare di induismo, cattolicesimo, buddismo o quanto possa esserci”. Per questo l’ho letto. Ma il testo non mi ha convinto. Una specie di iniziazione alla vita adulta di un giovane americano d’origine pakistana, in un contesto multietnico e multiculturale, dominato da una comune dove vivono mussulmani e convertiti. Una comune punk, con gente che beve, fuma, si fa tatuaggi, scopa ed altro. Ma anche composita: c’è il sufi con la cresta da gallo, lo scita ubriacone, lo straigth edge, la femminista col burqa. E c’è lui Yusuf, che attraversa questo tempo, cercando di capire le contestazioni e le contraddizioni di un islam nato in Medio Oriente e calato nell’opulenta America. Con tutti questi in un certo senso apostati, che contravvengono sia le più note leggi islamiche, ma anche, e più sottilmente, altre. Come la preghiera guidata da una donna, la promiscuità, pregare senza lavarsi. Ed altro ancora. E c’è tutto il percorso di Yusuf e del suo mentore Jehangir. Fino all’apoteosi del grande rave delle band punk-islamiche e la rissa finale. Per poi risollevarsi, il nostro Yusuf in un’agnizione verso le cose fatte ed un ritirarsi dalla grande mischia. In America è stato visto un po’ come “Il giovane Holden islamico”, ma credo sia un po’ eccessivo. Qui lo si potrebbe leggere, fatte le debite proporzioni, come un altro Moccia. Questo il testo poco accattivante, slabbrato, cattivo gratuitamente. E per la maggior parte, incomprensibile. Perché comunque, ci sono molti piani di lettura in questo libro. Perché un conto è il testo ed un conto è il contesto. Ed il contesto è altro, questo sì molto affascinante, se mi si consente la parola, e portatore di ben altra levatura di interesse. Intanto l’autore è un americano di 35 anni che si è convertito all’Islam. Poi, le prime edizioni, nel 2003, di questo dissacrante libro erano fascicoli fotocopiati che MMK distribuiva davanti alle Moschee Americane. Solo nel 2004 la casa editrice indipendente di Jello Biafra (un mito americano) decide di pubblicarlo in volume, ottenendo un discreto successo (da qui il parallelo sempre con Moccia). Purtroppo, l’edizione italiana ha molte pecche, e, seppur lascia intuire buona parte del mondo descritto da MMK, qualcosa manca. Primo, viene dall’edizione inglese, che omette alcune parti troppo forti (tipo quando il cantante di una band punk fa pipì sul Corano). Secondo, pur contenendo un glossario discretamente fornito alla fine, comunque non tutto viene spiegato. E chi non sa di Islam a volte rimane interdetto e, come me, si interroga su alcuni punti che a prima vista sembrano di poca comprensione. Tipo, una lunga disquisizione sul tatuaggio di Umar lo straigth edge, che sul collo porta “2:219”. Solo dopo lunghe ricerche ho scoperto che si riferisce ad un verso della Sura del Corano detta “La Vacca” che dice “Ti chiedono del vino e del gioco d'azzardo. Di': In entrambi c'è un grande peccato e qualche vantaggio per gli uomini, ma in entrambi il peccato è maggiore del beneficio!". E molte cose si chiariscono. Ma comunque rimangano tante citazioni contorte che o si dovrebbe aumentare il glossario o un buon editor ne farebbe delle note a piè di pagina. Altro esempio, se non si sa che sia Abu Afak, non si capisce l’intento dissacratorio di Jehangir quando lo elegge ad autore eponimo del futuro dell’Islam. Nel romanzo, il nome viene utilizzato per uno scrittore arabo di fantascienza che fa sbarcare i Sauditi su Marte per convertire i marziani all’Islam. Ma Abu Afak non è un nome inventato, ma è il nome di un poeta ebreo saudita, contemporaneo di Maometto, che non si converte e scrive una lunga poesia contro il profeta, in seguito alla quale viene assassinato. Detto del lato islam, altrettanto, se non di più, va detto e spiegato del lato musicale. Anche qui, bisogna essere molto (e)dotti per seguire i voli pindarici di MMK. Ed anche qui ci sarebbero volute alcune spiegazioni. Per capire il punk. Ma per capire meglio anche il libro. Uno dei momenti topici di disvelamento della filosofia degli islam punk, è quando uno di loro fa un panegirico di Johnny Cash e della canzone “A Boy Named Sue”. Forse qualcuno conosce Cash, che tra l’altro è stato un ottimo country man. Ma è la canzone ad essere importante. Lì Cash racconta di uno il cui padre, prima di abbandonare la famiglia, dovendolo battezzare lo fa chiamare Sue, un nome da donna. E questo segnerà tutta la vita del ragazzo, che dovrà lottare per farsi strada tra i rudi americani. Ed andrà per le strade a cercare il padre per ucciderlo. Trovatolo, si prendono a pugni, poi fanno la pace, ed il ragazzo capisce che il nome gli era stato dato dal padre proprio per farlo forte in una società dura. Sta tutta qui, la filosofia del libro. Dire e fare cose dure, fuori dalle righe, per sopravvivere in una società dura. Per non essere omologati. Ma ci sarebbero righe e righe da scrivere ancora su tutti i gruppi citati, dai più noti, almeno per me, come i Sex Pistols o Iggy Pop, fino ai più ignoti come i Propagandhi o i Germs. Con lunghe disquisizioni su i Minor Threat, il primo e più noto gruppo straigth edge. Andrebbe fatto poi un distinguo tra gruppi veri e gruppi inventati. Se non altro per chiarire la causticità del gruppo di punk islamico Bilal’s Boulder, un gruppo punk che recita il Corano durante il rave, il cui nome deriva da Bilal, il primo muezzin dell’Islam, e che scatenerà la rissa finale quando Jehangir canta “My Way” nella versione di Sid Vicious. E per ricollegarsi appunto a quel contesto che ritengo più forte e degno di significato del testo. Veniamo così all’ultimo passo di questa lunga trama. Il titolo. Perché il titolo originale è “Taqwacore” una crasi tra il punk hardcore ed il termine Taqwa che sta ad indicare il concetto islamico di amore e timore verso Allah. È un termine inventato da MMK, e, a valle del libro, utilizzato per indicare band punk che prima non esistevano. Come The Kominas, i Zaqqum o i Vote Hezbollah. Cioè, MMK ha scritto un libro che è imbevuto di band taqwacore che non esistevano prima del libro. Qualcosa per cui verrà comunque ricordato. Certo molto meno della Newton Compton, che, oltre a tutti i guasti che ho sopra citato, traduce il titolo con “Islampunk” (!!). E non è la stessa cosa. Insomma, e qui concludo, un degno contesto, che mi ha incuriosito e stimolato per un testo un po’ povero e volutamente scorretto, senza però esserne intrigantemente pervaso.
Jonas Jonasson “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” Bompiani s.p. (regalo di Ale)
[A: 01/01/2012 – I: 20/01/2012 – T: 22/01/2012]
[titolo: Hunderaåringen som klev ut genom fönstret och försvann; lingua: svedese; pagine: 446; anno 2009]
Un libro divertente per una scoperta di un autore (di 13 giorni + piccolo di mio fratello) che non conoscevo. Ingredienti di un ottimo regalo. Ed è anche scritto in modo che ti prende un po’ tutte le parti del corpo, e ti si piazza là, finché non vai avanti. Cervello, gambe, stomaco sono coinvolti, forse solo il cuore rimane un po’ fuori, anche se di lato e di lontano fa le sue comparse. Un Forrest Gump dall’intelligenza di Zelig attraversa le oltre 400 pagine portandoci in un turbine di avvenimenti che riescono a non stancare e a non essere neanche ripetitivi (rischio che poteva esserci). Seguiamo così Allan il centenario che fugge dall’ospizio il giorno del suo centesimo compleanno, ed avventurandosi per il mondo con le sue forze limitate ma con quell’acume che scopriremo ben presto ha, si incarta in una serie di vicende che potrebbero portarlo presto fuori strada. Ed invece… Invece si ritrova in fuga con una valigia piena di milioni, inseguito da una banda di spacciatori scalcagnati. E trova man mano l’aiuto di Julius un ladro sessantenne, di Benny un quaranta-cinquantenne che si è quasi laureato in dieci discipline diverse e di Bella una signora di 43 anni, con cane ed elefante (una delle tante invenzioni di Jonas, farci trovare una fattoria nella profonda Svezia dove si rifugia un elefante in fuga da un circo). E questa banda di svitati riesce a mettere in scacco i malviventi della banda “Never Again” (cioè mai più… dietro le sbarre di una prigione). Ed anche a prendere in giro la polizia svedese, ed il pubblico ministero incaricato delle indagini sulla morte dei malviventi. Da ricordare tutto il controinterrogatorio in cui i 4 mettono sotto scacco il GIP, con un dialogo che sembra essere il contro esempio di un manuale di comunicazione di Paul Grice, dove tutto è consequenziale, ma interpretato fuori dal contesto, in modo che per il GIP diventa assurdo ma farà in modo che la nostra banda esca vincente dalla contesa. Già questo sarebbe un bel romanzo, ma lo scrittore – giornalista Jonas lo inframmezza con la storia della vita del nostro centenario. E qui vengono fuori gli altri momenti da un lato esilaranti, dall’altro che, coinvolgendo tutti i grandi attori del secolo, ne tratteggiano tutto il possibile di modo che ne esce un ritratto della storia del Ventesimo secolo, disincantato ed un po’ anarchico. Cominciando dal padre di Allan, comunista sfegatato, che fugge in Russia, dove conosce Fabergé e si mette in contrasto con Lenin quando questi sale al potere. Allan, rimasto solo ed orfano, si dedica allo studio degli esplosivi (d’altra parte siamo nella patria di Nobel), e questo lo porterà in giro per il mondo, e per le sue vicende, nel corso degli anni. Nella fabbrica di esplosivi conosce un rifugiato spagnolo, e con lui decide di andare in Spagna quando scoppia la Rivoluzione. Per la sua esperienza viene reclutato nel far saltare i ponti, cosa che fa con coscienza, ma cercando di non uccidere nessuno. Tanto che quando qualcuno sta per saltare in aria con il ponte lo salva. Peccato che sia il generalissimo Franco. E questo lo imbarca in una serie di improbabili avventure. Franco gli fa una lettera di encomio e lo imbarca su una nave spagnola, che arrivata a New York viene sequestrata. Ma lui non è spagnolo ed è esperto di esplosivi, per cui viene mandato a Los Alamos. Lì, suggerisce ad Oppenheimer il modo di far funzionare la fissione con l’esplosivo. Quindi si ubriaca con il presidente Truman, che lo invia in missione “esplosiva” in Cina con Chiang Kai-shek. Ma Allan non sopporta i boriosi e presupponenti. Quindi abbandono il Kuomintang, salvando nel contempo la moglie di Mao Tse-Tung. Vuole tornare a casa, e si avvia a piedi dalla Cina verso l’Europa. Ma in Iran viene coinvolto in altri attentati, e per salvare la pelle (sua) salva anche quella di Winston Churchill. Tornato in patria, viene reclutato dai russi per fabbricare la bomba atomica russa. Aiuta il buon Popov, ma entra in urto con l’antipatico Stalin, che lo spedisce in Siberia. Dove fugge dopo 5 anni verso la Corea. Per trovare il modo di tornare a casa, riesce ad avere un colloquio con Kim Il-Sung, che vorrebbe però ucciderlo, ma viene salvato da Mao, presente al colloquio, quando questi scopre che lui salvò la moglie. E così si ritrova a passare 15 anni di ozio a Bali a spese della Cina comunista. E tanto altro, in modo che sarà a Parigi nel maggio del ’68 ed a Mosca nell’89. Per finire chiudendo il cerchio, centenario recalcitrante nella moderna Svezia. Il bello della scrittura di Jonas è l’uso del paradossale come se fosse normale. Con il nostro Allan - Forrest Gump che non si meraviglia di nulla, basta che non lo opprimiamo con lunghe discussioni su politica e religione e che gli facciamo avere un po’ d’acquavite. Non ci chiediamo qui se il verosimile delle storie sia anche plausibile, perché ne godiamo il lato ironico pensando che, anche se non fosse così, sarebbe carino fosse stato così. Alla fine un libro che merita il successo che ha avuto. E che mi ha fatto piacere leggere, tanto che riusciva a farmi ridere fra me e me come non succedeva da tempo. Un piccolo appunto all’editore che ha lasciato un refuso nell’indicazione del titolo originale (certe attenzioni ormai sono fuori dalle logiche di chi stampa libri, peccato).
“Lei è un pensionato …. Particolare che gli fece capire che, contro tutte le previsioni e senza averci mai pensato prima, era inaspettatamente invecchiato. E lo attendevano ancora molti, molti, molti anni di vita.” (435)
Michail Bulgakov “Il Maestro e Margherita” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 27/03/2012 – T: 06/04/2012]
[titolo: Master i Margarita; lingua: russo; pagine: 447; anno: 1940]
Si può parlare male di un capolavoro? Io, continuando nell’opera di sincerità soprattutto verso i classici, dico di sì. E lo dico per tutti e due i termini. Cioè, è un capolavoro, indubbiamente. Ma altrettanto chiaramente non mi è piaciuto. È un’opera senza dubbio complessa, piena di scrittura, e piena di giochi, rimandi, citazioni, descrizioni possibili di situazioni impossibili, travestimenti del reale. E via discorrendo. Ma non mi prende, non mi coinvolge. La maggior parte degli accenni (ed anche qualche punto di scrittura) lo trovo datato, senza che riesca a resistere all’usura degli anni. Gli unici tre capitoli che mi sono rimasti, che ho letto con voluttà, sono quelli dedicati a Ponzio Pilato, al Nazareno, a Levi Matteo. Potenti, da mettere vicino (e sopra) alle altre prove di diversa scrittura degli stessi episodi (De Luca, Schmitt, Baricco tanto per citare gli ultimi che ho letto). Ma il resto? Il diavolo Woland che si aggira per il mondo con il suo stuolo di cortigiani. Il gatto Behemoth, il gobbo, Azazello, e via citando. Personaggi immaginifici che fanno cose mirabolanti (fuggono con fornelli, si aggrappano a lampadari per non essere colpiti dalle pallottole, ipnotizzano migliaia di persone scambiando etichette di bottiglie con rubli sonanti, e via magicando), ma di cui non seguo, non capisco i nessi. I motivi delle loro belle o turpi azioni. Da quel punto di pista, si seguono meglio e si comprendono (proprio perché in trasparenza si vedono difetti umani sempre presenti) sono i vari personaggi russi: il letterato Berlioz che perderà (letteralmente) la testa, il poeta che comprende l’inutilità dei suoi versi, tutta la gente di spettacolo, dall’organizzatore al direttore del teatro, il cuoco. Insomma tutti i vari meschini individui che cercano dei loro piccoli tornaconti particolari. E che Woland ed i suoi smascherano senza (giustamente) alcuna pietà. Nessuna pietà, questo il motto di Bulgakov. Nessuna pietà per chi inganna, chi cerca il proprio piccolo tornaconto personale quando intorno ci sarebbe il teatro per dare spazio a grandi avvenimenti. A storiche prese di posizione. Tutti dovrebbero fare un esame di coscienza. E fare i passi misurati alla propria gamba. Di una ferocia, ed attualità, straordinaria il passo in cui i due diavoli cercano di entrare nel circolo degli scrittori, e vengono fermati perché non hanno la tessera. Perché solo se qualcuno certifica chi sei tu, allora tu sei quella persona. Come dire che senza un pezzo di carta Shakespeare non sarebbe Shakespeare, perché non è sufficiente quello che scrisse. Che d’altra parte viene letto e censurato, ed il più delle volte nascosto. Così come succede al libro del Maestro. Che non viene capito perché “troppo avanti”. Ed il Maestro viene stritolato dagli ingranaggi degli apparati burocratici, tanto da rasentare la follia. Si salverà, sarà salvato, soltanto dall’amore della bella Margherita. Che lo ama (e qui c’è veramente un canto d’amore altissimo) al di là di ogni apparenza e convenienza. Perché Bulgakov ci dice che quando c’è, l’amore viene fuori, si manifesta. E bene o male trionfa. Anche se per trionfare deve passare mille prove, e superare mille ostacoli. E magari, non sarà come ce lo aspettiamo. In un mondo che non può riconoscere il loro amore, la loro esistenza, il Maestro e Margherita non hanno spazi. Meglio morire, e continuare, immortali, a vivere il proprio rapporto, via da questa pazza folla che ci circonda. Ecco, ho ripreso altri passi che non possono che ri-sottolineare la natura eccezionale dello scritto. Ma proprio per come sono espressi, me li hanno fatti sospirare. E leggere con fatica. Arrancando per più di dieci giorni intorno alle 400 pagine dello scritto. Certo, e concludo, non si può scindere il romanzo dall’autore. Che Bulgakov è tutto in questo libro (ci si ritrovano tutte le invenzioni, le ironie, ed i dolori di tutte le sue altre opere). Un libro che lo accompagna gli ultimi 15 anni della sua vita. Ma che vedrà luce e fama solo molti decenni dopo la sua morte. Concludo, dicendo tuttavia che, benché non mi abbia coinvolto, benché continuo a vederne i limiti verso il mio modo di leggere ed interpretare il mondo, ritengo che sia in ogni caso un libro da leggere. Magari qualcuno più in gamba di me lo troverà più facile e me ne illuminerà le parti oscure. Aspetto con ansia.
Metà del mese di maggio ormai trascorso, così come le feste ed altre vicende. Il lavoro mi vedrà ancorato ancora per mesi, e vedremo insieme se sarà un bene o un male. Per ora quanto meno una sfida.

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