Una settimana dedicata a scelte
indirette. A libri regalati. A libri consigliati. Ed a consigli di libri, come
fa la mia amica Luciana che, lontano da Rebibbia, ci consiglia di leggere (o
almeno consultare) “La musica è leggera” di Luigi Manconi. Intanto qui invece
passiamo ai libri regalati, magari per il compleanno del 2011, come il libro
sui misteri napoletani, che mi ha lasciato un po’ perplesso, o per l’ultimo
Natale, come il libro del centenario che scappa, una piacevole sorpresa. O
consigliati, come l’Islampunk dal buon Roberto, o il grande russo, di cui non
cessava di parlare Nicoletta. Ed entrambi, invece, poco graditi, anche se pere
ragioni diverse, al mio palato.
Dominique Fernandez “Porporino ovvero I misteri di Napoli” Colonnese
s.p. (regalo di Rosa)
[A: 17/05/2011 – I: 06/01/2012 – T: 11/01/2012]
[titolo: Porporino ou les
Mystères de Naples; lingua: francese; pagine: 303; anno 1974]
Devo dire in tutta onestà che mi
aspettavo qualcosa in più. Il libro è composito, molti piani di lettura, quindi
diversi tipi di ritorni. L’autore immagina di scrivere tre quaderni
dell’autobiografia di un cantore castrato del Settecento, immerso nella vita e
nei colori della Napoli della seconda metà di quel secolo. Ebbene, il primo
quaderno è interessante, quando si parla della vita nelle campagne calabresi,
povertà, miseria, promiscuità e sogni. Ed altrettanto interessante il primo
capitolo del terzo quaderno, con una passeggiata per i quartieri di Napoli che
vale più di una guida turistica. Il resto, che vuol mischiare storia alta e
bassa, non l’ho trovato all’altezza. Primo, che quando si mescolano due piani
si deve fare attenzione alla realtà storica cui ci si riferisce, e quindi o si
è rigorosi (ed allora nel libro ci sono diversi errori) o si è fantastici (ma
allora va in qualche modo dichiarato, e questo l’autore non lo fa). Secondo, mi
aspettavo di più sia sul sentire del protagonista, che invece dopo il primo
quaderno viene messo un po’ lì come fosse un banditore di storie altrui, senza
che mi riesca a comunicare i suoi sentimenti, sia sul sentire dell’epoca, che
viene un po’ strascinata tra i concioni di Don Antonio e Don Raimondo, ma
risulta alquanto noiosa. La storia immaginata (almeno un po’) dall’autore è
direi lineare: per povertà, una famiglia calabrese vende l’ultimo nato, dotato
di un bel canto, ad un principe napoletano per farlo diventare sopranista
(eufemismo per dire di farlo castrare e rimanere con la voce adolescente come
fu per il più noto di loro, Carlo Broschi detto Farinelli). Seguiamo Vincenzo
nell’evolversi della povera giovinezza, e questa è la parte migliore, con le
ricostruzioni della vita contadina del Settecento, con le sue povertà, ma anche
con i suoi riti, che ancora, in parte, sono vivi nelle campagne attuali.
Vincenzo castrato studia canto ed altre materie, debutta a teatro con il nome
di Porporino (e non è vero che, come dice l’autore, non ci fu cantante di tal
nome, che proprio tale soprannome in onore del maestro cantore Nicola Porpora
fu preso da Antonio Uberti, vissuto nello stesso periodo), ed attraversa la
vita napoletana di quegli anni, incontrando personaggi famosi (bella la scena
della visita di Mozart a Napoli), facendo da chaperon alla (possibile) storia
d’amore di Don Manuele Carafa, discendente di papa Paolo IV, con il bel
Feliciano (questo sì, inventato), fino alle terribili, funeste ed aspettate
conclusioni, dove, in seguito alla pazzia del suo mentore, il principe di
Sansevero, Porporino decide di auto-esiliarsi in Germania, dove scrive queste
memorie. Oltre al primo quaderno, ripeto, è bella la passeggiata che ci fa
viaggiare per Napoli, all’inizio del terzo quaderno, scoprendo la vita ed anche
alcuni misteri della Napoli del Settecento, da Via dei Tribunali a Via Toledo,
dal Foro Carolino (ora piazza del Plebiscito) a via Chiaia e a Monte di Dio. Ma
pochi sono i misteri contenuti, anche se belli i tocchi di chi, per anni, ha
comunque vissuto a Napoli, come l’autore negli anni Cinquanta. Detto ciò, e
supposto che Fernandez non volesse velare di falso i tempi e i modi, rimane la
sensazione di delusione nelle mescolanze improprie e negli errori (voluti o
meno). Nei mascheramenti, e si capisce che non volendo fare pubblicità occulta
chiami Startuffo la migliore pasticceria di Napoli (che è quindi Scaturchio con
le sue inimitabili pastiere, dato che ci si trova in piazza Domenico Maggiore,
in faccia alla famosa chiesa rovesciata). Ma non capisco perché rinominare
Antonio Perocades l’alter-ego di Porporino per la commedia dantesco -
napoletana, dicendo che fu personaggio di spicco della politica dell’epoca,
quando il personaggio storico si chiamava Antonio Jerocades. Questo fa anche
nascere una serie di confusioni di date, perché la vicenda si colloca, bene o
male, tra il 1765 ed il 1780, con le propaggini verso la rivolta napoletana
(che avvenne nel 1799). E l’autore mette Don Antonio tra i sostenitori di
quella rivolta, quando il vero Don Antonio muore già nel 1783. E già che ci
siamo, Nelson viene per la prima volta a Napoli solo nel 1793, quando le
vicende narrate sono concluse, e si invaghisce di Lady Emma Hamilton. Qui
l’autore lì fa incontrare 20 anni prima, quando però Lady Hamilton era ancora
la prima Lady Catherine, morta nel 1782. Per non parlare del pot-pourri
dedicato a Raimondo di Sangro Principe di Sansevero, dove insieme ad una serie
di vicende note, storiche e documentate (a chi non lo avesse mai visto
consiglio in ogni caso la visita alla Cappella Sansevero, veramente bella, sia
per il Cristo velato di Sammartino, sia per gli studi anatomici del principe),
l’autore colloca intorno al 1770 la ristrutturazione della famosa cappella, che
avvenne invece 15 anni prima. Questo per far coincidere l’apice della vicenda
con la vera data della morte di Don Raimondo, il 1771. Creando altra confusione
ed ambiguità. Due ultimi dati. Il primo sull’autore ma questo però credo sia
solo un errore e non possa mai passare da favolistica invenzione: a pagina 221
si cita Sant’Agata come patrona di Palermo. Dove sappiamo che la santa di
Palermo è Santa Rosalia, mentre Agata è santa di Catania. Il secondo sulla
traduttrice, che continua ad indicare con il termine francese “dessus” i castrati,
quando il termine indica in francese i soprano, nella loro ultima ed alta
tonalità, perché sono “dessus” cioè “sopra” a tutte le altre voci. Ultimo
invero accenno di simpatia con l’autore, è il suo acting dichiarato scrivendo
il libro. Aveva appena divorziato, ma con questa scrittura si dichiara
pubblicamente gay, e trenta anni dopo sarà il primo scrittore gay ad essere
nominato Accademico di Francia. Bravò Dominique! Ciò nonostante, ripeto e
concludo: mi aspettavo di più, che mai riesce Dominique – Porporino a farmi
partecipe dei suoi travagli di “semivir” come si definisce ad un certo punto.
“La quintessenza dello spirito napoletano: coscienza della propria
buffoneria, auto derisione, orgoglio di questa coscienza, rifiuto di lasciarsi
imbrogliare.” (81)
“Non bisogna mai chiedermi di superare un ostacolo per cercare di
raggiungere uno scopo … Io sopprimo i limiti per il solo piacere di sognare.”
(187)
Michael Muhammad Knight “Islampunk” Newton Compton euro 6,90
[A: 17/05/2011 – I: 13/01/2012 – T: 19/01/2012]
[titolo: The Taqwacores; lingua: inglese; pagine: 309;
anno: 2006]
Consigliato
da Roberto. E sconsigliato da me. O almeno, da leggere con una esegesi accanto.
Ma facciamo un primo punto: ringrazio il suggerimento di Rob, che nel libro
realmente si parla (come mi scrisse) “di giovani e di nuovi modi di vivere
l'islam nella società contemporanea americana; ma poteva pure parlare di
induismo, cattolicesimo, buddismo o quanto possa esserci”. Per questo l’ho
letto. Ma il testo non mi ha convinto. Una specie di iniziazione alla vita
adulta di un giovane americano d’origine pakistana, in un contesto multietnico
e multiculturale, dominato da una comune dove vivono mussulmani e convertiti.
Una comune punk, con gente che beve, fuma, si fa tatuaggi, scopa ed altro. Ma
anche composita: c’è il sufi con la cresta da gallo, lo scita ubriacone, lo
straigth edge, la femminista col burqa. E c’è lui Yusuf, che attraversa questo
tempo, cercando di capire le contestazioni e le contraddizioni di un islam nato
in Medio Oriente e calato nell’opulenta America. Con tutti questi in un certo
senso apostati, che contravvengono sia le più note leggi islamiche, ma anche, e
più sottilmente, altre. Come la preghiera guidata da una donna, la promiscuità,
pregare senza lavarsi. Ed altro ancora. E c’è tutto il percorso di Yusuf e del
suo mentore Jehangir. Fino all’apoteosi del grande rave delle band punk-islamiche
e la rissa finale. Per poi risollevarsi, il nostro Yusuf in un’agnizione verso
le cose fatte ed un ritirarsi dalla grande mischia. In America è stato visto un
po’ come “Il giovane Holden islamico”, ma credo sia un po’ eccessivo. Qui lo si
potrebbe leggere, fatte le debite proporzioni, come un altro Moccia. Questo il
testo poco accattivante, slabbrato, cattivo gratuitamente. E per la maggior
parte, incomprensibile. Perché comunque, ci sono molti piani di lettura in
questo libro. Perché un conto è il testo ed un conto è il contesto. Ed il
contesto è altro, questo sì molto affascinante, se mi si consente la parola, e
portatore di ben altra levatura di interesse. Intanto l’autore è un americano
di 35 anni che si è convertito all’Islam. Poi, le prime edizioni, nel 2003, di
questo dissacrante libro erano fascicoli fotocopiati che MMK distribuiva
davanti alle Moschee Americane. Solo nel 2004 la casa editrice indipendente di
Jello Biafra (un mito americano) decide di pubblicarlo in volume, ottenendo un
discreto successo (da qui il parallelo sempre con Moccia). Purtroppo,
l’edizione italiana ha molte pecche, e, seppur lascia intuire buona parte del
mondo descritto da MMK, qualcosa manca. Primo, viene dall’edizione inglese, che
omette alcune parti troppo forti (tipo quando il cantante di una band punk fa
pipì sul Corano). Secondo, pur contenendo un glossario discretamente fornito
alla fine, comunque non tutto viene spiegato. E chi non sa di Islam a volte
rimane interdetto e, come me, si interroga su alcuni punti che a prima vista
sembrano di poca comprensione. Tipo, una lunga disquisizione sul tatuaggio di
Umar lo straigth edge, che sul collo porta “2:219”. Solo dopo lunghe ricerche
ho scoperto che si riferisce ad un verso della Sura del Corano detta “La Vacca”
che dice “Ti chiedono del vino e del gioco d'azzardo. Di': In entrambi c'è un
grande peccato e qualche vantaggio per gli uomini, ma in entrambi il peccato è
maggiore del beneficio!". E molte cose si chiariscono. Ma comunque
rimangano tante citazioni contorte che o si dovrebbe aumentare il glossario o
un buon editor ne farebbe delle note a piè di pagina. Altro esempio, se non si
sa che sia Abu Afak, non si capisce l’intento dissacratorio di Jehangir quando
lo elegge ad autore eponimo del futuro dell’Islam. Nel romanzo, il nome viene
utilizzato per uno scrittore arabo di fantascienza che fa sbarcare i Sauditi su
Marte per convertire i marziani all’Islam. Ma Abu Afak non è un nome inventato,
ma è il nome di un poeta ebreo saudita, contemporaneo di Maometto, che non si
converte e scrive una lunga poesia contro il profeta, in seguito alla quale
viene assassinato. Detto del lato islam, altrettanto, se non di più, va detto e
spiegato del lato musicale. Anche qui, bisogna essere molto (e)dotti per
seguire i voli pindarici di MMK. Ed anche qui ci sarebbero volute alcune
spiegazioni. Per capire il punk. Ma per capire meglio anche il libro. Uno dei
momenti topici di disvelamento della filosofia degli islam punk, è quando uno
di loro fa un panegirico di Johnny Cash e della canzone “A Boy Named Sue”.
Forse qualcuno conosce Cash, che tra l’altro è stato un ottimo country man. Ma
è la canzone ad essere importante. Lì Cash racconta di uno il cui padre, prima
di abbandonare la famiglia, dovendolo battezzare lo fa chiamare Sue, un nome da
donna. E questo segnerà tutta la vita del ragazzo, che dovrà lottare per farsi
strada tra i rudi americani. Ed andrà per le strade a cercare il padre per
ucciderlo. Trovatolo, si prendono a pugni, poi fanno la pace, ed il ragazzo
capisce che il nome gli era stato dato dal padre proprio per farlo forte in una
società dura. Sta tutta qui, la filosofia del libro. Dire e fare cose dure,
fuori dalle righe, per sopravvivere in una società dura. Per non essere
omologati. Ma ci sarebbero righe e righe da scrivere ancora su tutti i gruppi
citati, dai più noti, almeno per me, come i Sex Pistols o Iggy Pop, fino ai più
ignoti come i Propagandhi o i Germs. Con lunghe disquisizioni su i Minor
Threat, il primo e più noto gruppo straigth edge. Andrebbe fatto poi un
distinguo tra gruppi veri e gruppi inventati. Se non altro per chiarire la
causticità del gruppo di punk islamico Bilal’s Boulder, un gruppo punk che
recita il Corano durante il rave, il cui nome deriva da Bilal, il primo muezzin
dell’Islam, e che scatenerà la rissa finale quando Jehangir canta “My Way”
nella versione di Sid Vicious. E per ricollegarsi appunto a quel contesto che
ritengo più forte e degno di significato del testo. Veniamo così all’ultimo
passo di questa lunga trama. Il titolo. Perché il titolo originale è
“Taqwacore” una crasi tra il punk hardcore ed il termine Taqwa che sta ad
indicare il concetto islamico di amore e timore verso Allah. È un termine
inventato da MMK, e, a valle del libro, utilizzato per indicare band punk che
prima non esistevano. Come The Kominas, i Zaqqum o i Vote Hezbollah. Cioè, MMK
ha scritto un libro che è imbevuto di band taqwacore che non esistevano prima
del libro. Qualcosa per cui verrà comunque ricordato. Certo molto meno della
Newton Compton, che, oltre a tutti i guasti che ho sopra citato, traduce il
titolo con “Islampunk” (!!). E non è la stessa cosa. Insomma, e qui concludo,
un degno contesto, che mi ha incuriosito e stimolato per un testo un po’ povero
e volutamente scorretto, senza però esserne intrigantemente pervaso.
Jonas Jonasson “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve”
Bompiani s.p. (regalo di Ale)
[A: 01/01/2012 – I: 20/01/2012 – T: 22/01/2012]
[titolo: Hunderaåringen som
klev ut genom fönstret och försvann;
lingua: svedese; pagine: 446; anno 2009]
Un libro divertente per una
scoperta di un autore (di 13 giorni + piccolo di mio fratello) che non
conoscevo. Ingredienti di un ottimo regalo. Ed è anche scritto in modo che ti
prende un po’ tutte le parti del corpo, e ti si piazza là, finché non vai
avanti. Cervello, gambe, stomaco sono coinvolti, forse solo il cuore rimane un
po’ fuori, anche se di lato e di lontano fa le sue comparse. Un Forrest Gump
dall’intelligenza di Zelig attraversa le oltre 400 pagine portandoci in un
turbine di avvenimenti che riescono a non stancare e a non essere neanche
ripetitivi (rischio che poteva esserci). Seguiamo così Allan il centenario che
fugge dall’ospizio il giorno del suo centesimo compleanno, ed avventurandosi
per il mondo con le sue forze limitate ma con quell’acume che scopriremo ben
presto ha, si incarta in una serie di vicende che potrebbero portarlo presto
fuori strada. Ed invece… Invece si ritrova in fuga con una valigia piena di
milioni, inseguito da una banda di spacciatori scalcagnati. E trova man mano
l’aiuto di Julius un ladro sessantenne, di Benny un quaranta-cinquantenne che
si è quasi laureato in dieci discipline diverse e di Bella una signora di 43
anni, con cane ed elefante (una delle tante invenzioni di Jonas, farci trovare
una fattoria nella profonda Svezia dove si rifugia un elefante in fuga da un
circo). E questa banda di svitati riesce a mettere in scacco i malviventi della
banda “Never Again” (cioè mai più… dietro le sbarre di una prigione). Ed anche
a prendere in giro la polizia svedese, ed il pubblico ministero incaricato
delle indagini sulla morte dei malviventi. Da ricordare tutto il
controinterrogatorio in cui i 4 mettono sotto scacco il GIP, con un dialogo che
sembra essere il contro esempio di un manuale di comunicazione di Paul Grice,
dove tutto è consequenziale, ma interpretato fuori dal contesto, in modo che
per il GIP diventa assurdo ma farà in modo che la nostra banda esca vincente
dalla contesa. Già questo sarebbe un bel romanzo, ma lo scrittore – giornalista
Jonas lo inframmezza con la storia della vita del nostro centenario. E qui
vengono fuori gli altri momenti da un lato esilaranti, dall’altro che, coinvolgendo
tutti i grandi attori del secolo, ne tratteggiano tutto il possibile di modo
che ne esce un ritratto della storia del Ventesimo secolo, disincantato ed un
po’ anarchico. Cominciando dal padre di Allan, comunista sfegatato, che fugge
in Russia, dove conosce Fabergé e si mette in contrasto con Lenin quando questi
sale al potere. Allan, rimasto solo ed orfano, si dedica allo studio degli
esplosivi (d’altra parte siamo nella patria di Nobel), e questo lo porterà in
giro per il mondo, e per le sue vicende, nel corso degli anni. Nella fabbrica
di esplosivi conosce un rifugiato spagnolo, e con lui decide di andare in
Spagna quando scoppia la Rivoluzione. Per la sua esperienza viene reclutato nel
far saltare i ponti, cosa che fa con coscienza, ma cercando di non uccidere
nessuno. Tanto che quando qualcuno sta per saltare in aria con il ponte lo
salva. Peccato che sia il generalissimo Franco. E questo lo imbarca in una
serie di improbabili avventure. Franco gli fa una lettera di encomio e lo
imbarca su una nave spagnola, che arrivata a New York viene sequestrata. Ma lui
non è spagnolo ed è esperto di esplosivi, per cui viene mandato a Los Alamos.
Lì, suggerisce ad Oppenheimer il modo di far funzionare la fissione con
l’esplosivo. Quindi si ubriaca con il presidente Truman, che lo invia in
missione “esplosiva” in Cina con Chiang Kai-shek. Ma Allan non sopporta i
boriosi e presupponenti. Quindi abbandono il Kuomintang, salvando nel contempo
la moglie di Mao Tse-Tung. Vuole tornare a casa, e si avvia a piedi dalla Cina
verso l’Europa. Ma in Iran viene coinvolto in altri attentati, e per salvare la
pelle (sua) salva anche quella di Winston Churchill. Tornato in patria, viene
reclutato dai russi per fabbricare la bomba atomica russa. Aiuta il buon Popov,
ma entra in urto con l’antipatico Stalin, che lo spedisce in Siberia. Dove
fugge dopo 5 anni verso la Corea. Per trovare il modo di tornare a casa, riesce
ad avere un colloquio con Kim Il-Sung, che vorrebbe però ucciderlo, ma viene
salvato da Mao, presente al colloquio, quando questi scopre che lui salvò la
moglie. E così si ritrova a passare 15 anni di ozio a Bali a spese della Cina comunista.
E tanto altro, in modo che sarà a Parigi nel maggio del ’68 ed a Mosca nell’89.
Per finire chiudendo il cerchio, centenario recalcitrante nella moderna Svezia.
Il bello della scrittura di Jonas è l’uso del paradossale come se fosse
normale. Con il nostro Allan - Forrest Gump che non si meraviglia di nulla,
basta che non lo opprimiamo con lunghe discussioni su politica e religione e
che gli facciamo avere un po’ d’acquavite. Non ci chiediamo qui se il
verosimile delle storie sia anche plausibile, perché ne godiamo il lato ironico
pensando che, anche se non fosse così, sarebbe carino fosse stato così. Alla
fine un libro che merita il successo che ha avuto. E che mi ha fatto piacere
leggere, tanto che riusciva a farmi ridere fra me e me come non succedeva da
tempo. Un piccolo appunto all’editore che ha lasciato un refuso
nell’indicazione del titolo originale (certe attenzioni ormai sono fuori dalle
logiche di chi stampa libri, peccato).
“Lei è un pensionato …. Particolare che gli fece capire che, contro
tutte le previsioni e senza averci mai pensato prima, era inaspettatamente
invecchiato. E lo attendevano ancora molti, molti, molti anni di vita.” (435)
Michail Bulgakov “Il Maestro e Margherita” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 27/03/2012 – T: 06/04/2012]
[titolo: Master i Margarita; lingua: russo; pagine: 447;
anno: 1940]
Si può parlare male di un
capolavoro? Io, continuando nell’opera di sincerità soprattutto verso i
classici, dico di sì. E lo dico per tutti e due i termini. Cioè, è un capolavoro,
indubbiamente. Ma altrettanto chiaramente non mi è piaciuto. È un’opera senza
dubbio complessa, piena di scrittura, e piena di giochi, rimandi, citazioni,
descrizioni possibili di situazioni impossibili, travestimenti del reale. E via
discorrendo. Ma non mi prende, non mi coinvolge. La maggior parte degli accenni
(ed anche qualche punto di scrittura) lo trovo datato, senza che riesca a
resistere all’usura degli anni. Gli unici tre capitoli che mi sono rimasti, che
ho letto con voluttà, sono quelli dedicati a Ponzio Pilato, al Nazareno, a Levi
Matteo. Potenti, da mettere vicino (e sopra) alle altre prove di diversa
scrittura degli stessi episodi (De Luca, Schmitt, Baricco tanto per citare gli
ultimi che ho letto). Ma il resto? Il diavolo Woland che si aggira per il mondo
con il suo stuolo di cortigiani. Il gatto Behemoth, il gobbo, Azazello, e via
citando. Personaggi immaginifici che fanno cose mirabolanti (fuggono con
fornelli, si aggrappano a lampadari per non essere colpiti dalle pallottole,
ipnotizzano migliaia di persone scambiando etichette di bottiglie con rubli
sonanti, e via magicando), ma di cui non seguo, non capisco i nessi. I motivi
delle loro belle o turpi azioni. Da quel punto di pista, si seguono meglio e si
comprendono (proprio perché in trasparenza si vedono difetti umani sempre
presenti) sono i vari personaggi russi: il letterato Berlioz che perderà
(letteralmente) la testa, il poeta che comprende l’inutilità dei suoi versi,
tutta la gente di spettacolo, dall’organizzatore al direttore del teatro, il
cuoco. Insomma tutti i vari meschini individui che cercano dei loro piccoli
tornaconti particolari. E che Woland ed i suoi smascherano senza (giustamente)
alcuna pietà. Nessuna pietà, questo il motto di Bulgakov. Nessuna pietà per chi
inganna, chi cerca il proprio piccolo tornaconto personale quando intorno ci
sarebbe il teatro per dare spazio a grandi avvenimenti. A storiche prese di
posizione. Tutti dovrebbero fare un esame di coscienza. E fare i passi misurati
alla propria gamba. Di una ferocia, ed attualità, straordinaria il passo in cui
i due diavoli cercano di entrare nel circolo degli scrittori, e vengono fermati
perché non hanno la tessera. Perché solo se qualcuno certifica chi sei tu,
allora tu sei quella persona. Come dire che senza un pezzo di carta Shakespeare
non sarebbe Shakespeare, perché non è sufficiente quello che scrisse. Che
d’altra parte viene letto e censurato, ed il più delle volte nascosto. Così
come succede al libro del Maestro. Che non viene capito perché “troppo avanti”.
Ed il Maestro viene stritolato dagli ingranaggi degli apparati burocratici,
tanto da rasentare la follia. Si salverà, sarà salvato, soltanto dall’amore
della bella Margherita. Che lo ama (e qui c’è veramente un canto d’amore
altissimo) al di là di ogni apparenza e convenienza. Perché Bulgakov ci dice
che quando c’è, l’amore viene fuori, si manifesta. E bene o male trionfa. Anche
se per trionfare deve passare mille prove, e superare mille ostacoli. E magari,
non sarà come ce lo aspettiamo. In un mondo che non può riconoscere il loro
amore, la loro esistenza, il Maestro e Margherita non hanno spazi. Meglio
morire, e continuare, immortali, a vivere il proprio rapporto, via da questa
pazza folla che ci circonda. Ecco, ho ripreso altri passi che non possono che
ri-sottolineare la natura eccezionale dello scritto. Ma proprio per come sono
espressi, me li hanno fatti sospirare. E leggere con fatica. Arrancando per più
di dieci giorni intorno alle 400 pagine dello scritto. Certo, e concludo, non
si può scindere il romanzo dall’autore. Che Bulgakov è tutto in questo libro
(ci si ritrovano tutte le invenzioni, le ironie, ed i dolori di tutte le sue
altre opere). Un libro che lo accompagna gli ultimi 15 anni della sua vita. Ma
che vedrà luce e fama solo molti decenni dopo la sua morte. Concludo, dicendo
tuttavia che, benché non mi abbia coinvolto, benché continuo a vederne i limiti
verso il mio modo di leggere ed interpretare il mondo, ritengo che sia in ogni
caso un libro da leggere. Magari qualcuno più in gamba di me lo troverà più
facile e me ne illuminerà le parti oscure. Aspetto con ansia.
Metà
del mese di maggio ormai trascorso, così come le feste ed altre vicende. Il
lavoro mi vedrà ancorato ancora per mesi, e vedremo insieme se sarà un bene o
un male. Per ora quanto meno una sfida.
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