giovedì 14 giugno 2012

Impegno - 15 aprile 2012

In letteratura, nella vita, ovunque. Questa settimana affrontiamo autori di diversi continenti, ma tutti legati dall’impegno, dal mettere la propria vita al servizio di idee, e di infondere di queste idee la propria scrittura. Partiamo dal Sudamerica e dai percorsi dell’ex-guardia del corpo di Allende. Puntiamo in Europa, con un ricordo di tempi passati “oltre-cortina”. Restiamo in Europa ma con una trama tutta sudamericana. E terminiamo con i grandi e piccoli drammi dell’apartheid sudafricano.
Luis Sepulveda “La frontiera scomparsa” Guanda euro 7,50 (in realtà, scontato 1,50 euro con Feltrinelli +)
[in: 09/08/2011 – out: 11/12/2011]
[tit. or.: La frontera extraviada; ling. or.: spagnolo; anno 1994]
Un libro di racconti, ma con un filo comune, doloroso, perché siamo ancora negli anni in cui Sepulveda stava cercando di tirar fuori tutto dalle tristi vicende personali degli anni cileni giovanili. E legate da quel titolo, alla ricerca della scomparsa frontiera verso la felicità. Qui siamo nel versante che più mi piace di Sepulveda. Quando parla, affabula, racconta, intreccia storie e contro-storie. Sul versante di Patagonia Express, tanto per ricordare. E tanto per non dimenticare, prendendo spunto da quegli anni, quei decenni, dolorosi per tutto il Sudamerica, iniziati con l’assassinio di Allende, e con le repressioni militari, prima di tutto in Cile, ma che hanno coinvolto quasi tutti i paesi dell’area. Ed è per questo che Sepulveda parla della frontiera perduta (non scomparsa, c’è una sottile differenza, ma c’è). Ed utilizza la forma racconto, perché vuole presentarci alcune situazioni, alcuni momenti, alcune tipologie della perdita della felicità. La sua capacità è anche di rendere il protagonista in qualche modo archetipo di una generazione. Che alla fine potrebbe essere (ma non è importante) sempre lo stesso ragazzo in tutte le storie. Sicuramente lo è come emblema di una generazione sudamericana in genere e cilena in particolare. Così seguiamo l’io-narrante nell’arresto senza motivo, nelle torture in mano ai militari, nell’invio in esilio e nello struggente addio al padre, un addio senza parole, ma con una serie di ricordi potenti, dolorosi, belli. E nelle campagne per la sensibilizzazione dei contadini alla rivoluzione imminente, alle lotte tra gruppi e gruppetti, tanto per far prevalere il monolitico colosso nord-americano. I ritrovamenti degli amici perduti in Uruguay (bello l’arrivo a Montevideo). Il vagabondare per il Sud America, alla ricerca di una strada per l’altrove, forse per l’Europa. Ed arenandosi quasi sempre. Lì nel confine tra Argentina e Bolivia, dove le pagine su La Quiaca e Villanzon mi hanno riportato indietro di pochi mesi ai nostri passaggi frontalieri argentino – boliviani. Alla difficoltà di uscire dall’Ecuador senza un soldo. E via discorrendo, ed ogni volta allontanandosi da quella frontiera perduta, alla ricerca, e forse al ritrovamento di altre frontiere, reali, presenti. Ma anche di quella che porta non dico alla felicità, ma almeno a momenti sereni. Con il bel finale dove si chiude il cerchio, e ci si ritrova all’inizio delle proprie radici, di nuovo nella Spagna dei padri e dei nonni. A risentire le dimenticate cadenze andaluse, a bere bicchieri di ‘fino’, ed a sedersi, con un sorriso finalmente, nella sedia accanto al pro-zio don Angel, quello che era rimasto a casa. E stare lì, finalmente anche lui a casa, ed in silenzio. Che la serenità non ha bisogno di parole. Solo di sguardi. Insomma, non è un libro eccelso, ma lo trovo un bel libro, che riscatta la forma – racconto utilizzandola quasi a dipingere un quadro a varie facce. Quasi a ricordarmi quelle pale d’altare dei fiamminghi, dove ogni pezzo è a sé stante, ha una sua storia, ma poi serve, anche, a comporre il grande risultato finale. E mi ha riconciliato con alcuni scritti di Sepulveda che mi avevano lasciato perplesso, e mi spinge a pensare, che, ancora con i dolori sempre presenti nelle ferite latinoamericane, forse bisognerà prendere in mano anche il suo ultimo scritto, quello del ritratto di gruppo con assenza, che torna di nuovo agli anni iniziali di questa frontiera perduta. E poi, non possiamo dimenticarci che Sepulveda è un Bilancia!
“Cañete [è] un paesino del Cile meridionale … dove l’anno si divide in undici mesi di pioggia ed uno di maltempo.” (56)
“Nessuno deve vergognarsi di essere felice.” (116)
Arthur Koestler “Buio a mezzogiorno” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 14/12/2011]
[tit. or.: Darkness at Noon; ling. or.: inglese; anno 1941]
L’ho sempre pensato come una sorte di “Buio oltre la siepe”, associando spesso i due libri. Finalmente trovo il coraggio di leggerlo, e di sentirmi spiazzato. Non è come il libro della Lee, anche perché è stato scritto una ventina di anni prima. E forse sono stati i curatori della Lee ad utilizzare un nome che richiamasse i due libri. Ma questo, direi che è una sorta di “Processo” di Kafka, piuttosto che un libro sul razzismo. Anzi, direi un Processo di Kafka, dove però sappiamo bene quali sono le accuse, quali sono i motivi, cosa si aggira dietro ed intorno sia alla prigione sia a Rubasciov, il perno su cui ruota la vicenda. Domanda: quale vicenda, che in realtà poco succede? E già, perché, in effetti, si tratta di poco movimento (sembra molto adatta al teatro e vorrei trovare quanti adattamenti ha avuto), si va dall’arresto di Rubasciov alla fine che tutti si aspettano dopo una serie di scontri verbali con i suoi accusatori. E dopo una serie di flash-back su piccoli passi della sua vita passata, che servono ad illustrare compiutamente la vicenda. Siamo nel pieno delle purghe staliniane, e la vicenda cerca di diventarne un eponimo. Ma soprattutto cerca di evidenziare i ragionamenti, le motivazioni, storiche e personali, che stanno dietro a quel periodo tumultuoso. Attraverso il simbolo Rubasciov. Eroe della Rivoluzione durante la Guerra Civile. Uno della vecchia guardia. Lo si immagina sodale dei Lenin e dei Trotskij. Ed anche di un certo Stalin. Per conto del quale, va in giro per il mondo a fomentare rivoluzioni, o simili. Anche se poi viene ovviamente coinvolto nel giro mors tua vita mea. Nel giro, quale sia il bene della Patria e quale quello dell’individuo. Così, per il bene della Patria, sacrifica una rete di cospiratori in Germania. Poi un sindacato di portuali in Belgio. Fino a non sostenere la sua segretaria e lasciarla al suo destino. Ma Rubasciov è comunque uno che pensa. E sa che il suo arresto è funzionale alle sorti russe del momento. Si interroga allora (ed è ovvio) su Machiavelli, il fine ed i mezzi. Ed assistiamo a tutta la trafila del suo pensiero. Prima nello scontro con il sodale Ivanov, con il quale lotta ad armi pari, anche se sa che non potrà che essere sconfitto. Ma anche Ivanov è sconfitto, e quando si scontra con Gletkin capisce che non solo sarà sconfitto comunque, ma si interroga sul significato della sua sconfitta. Sul perché lottare, ed altre amenità. Certo, Ivanov e Rubasciov sono sodalmente legati ad un’idea di Rivoluzione, che Gletkin invece stravolge. Ma dove sta la ragione? Alla fine, per la necessità storica, non potrà esserci che un finale. Finale che ora, a settanta anni dall’uscita, consociamo e sappiamo valutare, forse, meglio. Certo che al momento, non poteva che fare scalpore. Ed immagino le accuse che siano state rivolte a Koestler per queste prese di posizione, tutto sommato razionali, anche se la loro condivisione può essere problematica. E certo mi domandavo mentre leggevo, e mentre veniva biasimata, ad esempio, l’inutile lotta (per il momento in cui scrive) di Gandhi contro gli inglesi. E di come, ora, nella prospettiva storica si possano serenamente ribaltare tutti quei giudizi affettati. Belli, anche, e dolorosi, i momenti di carcere. La solidarietà tra detenuti. La diversità tra politici e comuni. Cose che ricordano presenti che ogni tanto vivo. Tuttavia tutta la materia è trattata, anche, con toni e linguaggi ed immagini che da un lato sono molto datati, dall’altro sono anche molto interni. Tutte le discussioni che si avevano un dì sulle masse, sul proletariato, sulla giustizia, sulla rivoluzione in un solo paese, sulla necessità della difesa dal capitalismo corrotto, sono di faticosa lettura, ora. Koestler indaga come un uomo, preso da un perverso ingranaggio di accuse false e torture psicologiche e fisiche, sia indotto a confessare crimini che non ha commesso e che, comunque, non sono tali. E ben si può leggere in trasparenza come tutta la vicenda sia collegabile al grande processo a Bukharin di soli due anni prima. Koestler, ungherese di nascita e britannico d’adozione iniziò come giornalista, comunista ed inviato alla Guerra di Spagna nel ’36. Ma durante le purghe del ’38 ebbe la grossa crisi, uscì dal Partito e scrisse questo “buio”. Che ripeto e concludo, è datato, pieno di simboli legati al periodo storico, ma alla fine un libro che va letto, se non lo si è fatto in gioventù come io non avevo fatto. Anche per chiudere il libro e dire di non essere d’accordo. Né con Koestler né con Stalin.
“Tutti i nostri principi erano giusti, ma i risultati sono sbagliati.” (57)
“Noi tutti [dice Rubasciov] abbiamo creduto di poter trattare la Storia come un esperimento di fisica. La differenza è che in fisica si può ripetere l’esperimento migliaia di volte, ma nella Storia si può fare una volta sola… E allora?, fece Ivanov, Dobbiamo stracene seduti con le mani in mano solo perché le conseguenze di una data azione non sono mai completamente prevedibili, e quindi ogni azione è dannosa? Noi rispondiamo di ogni azione con la nostra testa.” (137)
“Ogni balzo in avanti dei progressi tecnici si lascia un passo indietro il relativo sviluppo intellettuale delle masse, determinando così una caduta del termometro della maturità politica.” (144)
Massimo Carlotto ”Le irregolari” E/O euro 9,50
[in: 29/07/2011 – out: 15/12/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1996]
Bello, intenso, partecipato. Forse a volte troppo didascalico. Perché, in realtà, non è romanzo, ma racconto, testimonianza, caduta nei profondi abissi dei problemi dei “desaparecidos” sudamericani. E non solo. Ben evidenziato, tra l’altro, dal sottotitolo “Buenos Aires Horror Tour”. Anche se poi al filone principale si agganciano punti personali, spunti, elementi di contorno. Carlotto, dopo essere riuscito a trovare il bandolo della matassa dei suoi problemi giudiziari (quelli ben descritti ne “Il fuggiasco”) e chiusi finalmente con una grazia presidenziale e provvidenziale, torna in Sud America. Cerca sull’onda del ricordo di ri-costruire la figura di un nonno (o bisnonno) emigrato in Argentina e poi tornato in Veneto. Ma l’Argentina del ’96 è ancora in pieno subbuglio, dopo i golpe militari e la (prima) restaurazione democratica. E quasi senza volerlo, Carlotto si trova invischiato con quelle che, come dal titolo, sono le irregolari. Quelle che continuano a combattere, con diversi mezzi, per ottenere un riconoscimento. Di cosa? Purtroppo solo della morte. Sono le Nonne e le Madri di Plaza de Mayo. Alla ricerca dei figli e dei nipoti “spariti” durante la presa militare del potere. L’assurdità e l’atrocità non è solo (ma già sarebbe tanto) nel rapimento che i militari fanno di qualsiasi opposizione (anche quella che si limita a leggere un libro, non dico quella che, pur avendone motivo, si dava alla lotta organizzata). Rapimento che veniva seguito nell’internamento in campi di concentramento, che veniva seguito da torture varie, e che finiva, nel 99% dei casi, con la morte. Ma nel fatto che, quando i sequestrati erano donne, e per di più incinta, venivano tenute in vita fino alla nascita. Poi il figlio veniva fatto sparire, segretamente adottato. E la madre, uccisa. Loro, le irregolari di Plaza de Mayo, cercavano 15 anni fa e cercano ancora, di ritrovare i corpi dei figli e di sapere che fine hanno fatto i nipoti. Sempre, e comunque, ostacolate dai militari. Per completare la discesa verso l’abisso, Carlotto entra anche in contatto con uno strano tipo che, alla guida di un pullman, gira per le strade di Buenos Aires, facendo tappa in tutti i posti dove le pattuglie militari rapivano le persone. E fermandosi in ogni luogo. E raccontandone la storia. Questa è un po’ la parte didascalica, che si fonda sul grande orrore che suscita. Che tuttavia, purtroppo, risulta alla fine molto ripetitiva. Anche se ogni volta è un orrore diverso. Una storia diversa. Una madre diversa. In questa discesa, Carlotto incontra i suoi parenti, ed in particolare Estela Carlotto, l’animatrice delle Nonne. Con la quale farà due viaggi nel passato. Uno per ricordare la memoria della cugina Laura desaparecida. L’altra per ritrovare le radici del parente emigrato. E di quelli che sono restati, lì ad essere i Carlotto d’Argentina. Piena di storie, il racconto. Perché ad ogni passo ci imbattiamo in una vita spezzata. E quelli che sono riusciti a fuggire, altrettanto spezzati sono. Incontriamo anche altri filoni della storia di Carlotto, che si intrecciamo con quelli che conosciamo dai racconti della fuga. I fuoriusciti incontrati in Francia. I sandinisti. Il disilluso “El Chino”, che torna a Santiago, in Cile. Lì dove Carlotto recita una grande pagina, per ricordare una sua amica, anch’essa poi morta, questa volta per mano dei militari cileni. Compra una potente radio, si piazza davanti al Palazzo della Moneda, sì quello che era la residenza di Allende. E per gli emuli di Pinochet, mette a tutto volume la canzone “Fango” di Ricky Gianco. Momento sublime, anche se poi se la deve dare a gambe. E che ripeterà davanti alla Scuola Militare di Buenos Aires, dove torturarono la cugina Laura, portandoci un amico sassofonista, e questa volta Ricky Gianco in persona, a cantare una nenia contro i militari e per ricordare Laura. Ecco, quello che serve e tanto, è questa sottolineatura a ricordare, a non dimenticare. I crimini perpetrati sono tanti ed afferrati, che non ci potrà, non ci dovrà mai essere un colpo di spugna. Sperando, con Carlotto, che alla fine, ogni tanto, si riesca in qualche cosa!
“Non hai nemmeno idea su quante tombe di compagni, dall’Europa al Centro America, ho pianto e giurato di non dimenticare. Oggi, ricordo appena volti e nomi. L’enormità della sconfitta della nostra generazione si misura proprio sul numero di promesse fatte e mai mantenute.” (87)
“Sono stanco di accumulare sconfitte, sia personali che generazionali. Ogni tanto mi piacerebbe vincere qualche battaglia.” (108)
Nadine Gordimer “Nessuno al mio fianco” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 29/01/2012 – T: 05/02/2012]
[titolo: None to accompany me; lingua: inglese; pagine: 284; anno: 1994]
Decisamente un bel libro ed un romanzo interessante. Erano anni che non prendevo in mano uno scritto del premio Nobel del 1991, e devo dire che mi dispiace. Primo, perché rispetto ad altri e più recenti Nobel ho trovato una scrittura che a me è sicuramente più congeniale. Secondo perché nello specifico mi piace il suo modo di raccontare e le tematiche che affronta. La sua mescolanza tra pubblico e privato mi trova a vibrare su accenti simili. E mi ricordo di aver letto qualcosa dei suoi primi libri, bandita dalla sua patria, il Sudafrica, in quanto anti-apartheid. Ed in questo libro, scritto pochi anni dopo sia il Nobel sia la liberazione di Mandela e l’inizio della rinascita sudafricana, Nadine Gordimer cerca di mostrare uno spaccato della vita locale, proprio a cavallo della svolta epica del ’90. Lo fa seguendo, anche se in modo diseguale, due mature coppie sudafricane, di storie a volte distinte ma certo non distanti. I coniugi Stark, bianchi, e i coniugi Maqoma, neri. Anche se poi il centro della narrazione gravita essenzialmente su Vera Stark. Quasi un alter-ego della stessa Nadine. Impegno sociale e brandelli della vita privata che si sovrappongono. Vera conosce Ben Stark mentre è sposata con un altro, se ne innamora, divorzia e vive una vita felice con il suo Ben. Almeno sembra, ed almeno è così per buona parte della sua vita. È Ben che (come Randolph il secondo marito di Nadine) dedica la sua vita a Nadine. Decidendo di lavorare per poter permettere a Vera prima di allevare i figli e poi di impegnarsi nell’attivismo anti-apartheid in un centro legale per gente di colore. A scapito della sua vena artistica. Vera sosterrà tutta la vita questa idealizzazione di sé che ha Ben, ma alla fine, ormai entrambi nella seconda giovinezza (dopo 40 anni di matrimonio) decidono quasi senza decidere di continuare le loro vite su binari paralleli. Vera sempre a Johannesburg, ad impegnarsi nel momento epico della nascita del nuovo Sudafrica. Ben rifugiandosi dal figlio Ivan che vive a Londra. Perché Vera, benché ami Ben, ha avuto altre storie, momenti isolati, più o meno lunghi, che Nadine ci presenta nei suoi su e giù per la scala del tempo. Ha tradito forse il corpo di Ben, mai l’amore. Ma ora, avviatasi oltre la sessantina, preferisce continuare da sola, come dice il titolo, senza nessuno che mi accompagni. Senza Ben. Senza Ivan. Senza Annika, la secondogenita, di cui pur accetta la relazione omosessuale con Lou. E senza i Maqoma, amici di gioventù, poi dovuti riparare per lunghi anni all’estero. Dove Did faceva il rivoluzionario a tempo pieno e Sally badava a tirar avanti le redini della famiglia. Ora ritornano, ma Did viene emarginato dai suoi compagni di un tempo: troppo a sinistra, troppo esposto. Mentre Sally entra a far parte del nuovo establishment governativo, che deve preparare le prime elezioni libere sudafricane. Qui viviamo il contraltare delle vicende degli Stark, dove chi era più in vista si trova improvvisamente messo da parte. Mentre Sally diventa una delle protagoniste della rinascita. Ma queste sarebbero solo vicende private (anche se gli interrogativi che ci pone sono forti ed universali: fino a dove e se negare sé stessi per amore? Fino a dove si può, si deve andare insieme? Fino a dove si deve dire tutto di sé?). Sarebbe monco il libro se non contenesse un’altrettanto vasta serie di vicende pubbliche, che hanno tessuto il corpo della vita sudafricana in tutti questi anni. L’arroganza della classe governativa bianca, poi sfociata anche in elementi sovversivi para-nazisti. L’oltranzismo dei proprietari terrieri. I neri senza casa che occupano le terre. I mutamenti della geografia urbana delle città con l’arrivo dei coloured. La violenza, forte, insensata, che ancora sentivo due anni fa quando ho fatto il mio primo lungo giro nel paese. E dove mi piacerebbe, nonostante tutto ritornare. La maestria di Nadine Gordimer è quella di intrecciare questi piani, con la naturalezza con la quale si intrecciano nella vita quotidiana. Non vengono presentati come momenti eccezionali, ma come tasselli che costruiscono la vita difficile del popolo sudafricano. Anche attraverso le lingue che lo attraversano (dall’inglese all’afrikaner ai dialetti xhosa e via complicando). Nessuno, alla fine, è esente da colpe e privo di macchie, come nessuno lo è nella realtà. Ma la novantenne Nadine, pur con tutte le contraddizioni che si possono trovare in una vita piena di avvenimenti, complicati ed a volte dolorosi, mi rimane vicina all’occhio, come una nonna che racconta ancora storie. Storie per poter cambiare il mondo. Pensate che utopia!
“Sai che è davvero brutto essere vecchi, quando nessuno vuole più toccarti.” (119)
 “Alcuni mutamenti della comprensione reciproca possono avvenire soltanto quando si è soli, lontani da ciò che è contenuto nella forma delineata da un altro. E questi mutamenti non possono essere condivisi, si è per sempre soli con se stessi.” (122)
“Ora sono abbastanza vecchio da capire quello che non si sa a vent’anni: la vita non finisce con la catastrofe dei quarant’anni, è molto probabile che continui ancora per molto tempo.” (198)
“Non si può appartenere a qualcun altro… si può desiderarlo, ma non è possibile.” (198)
“Tutti finiscono col muoversi da soli verso se stessi.” (270)
E visto che anche noi ci s’impegna, vi invito a visitare il sito dei GARSS (www.garss.org) un’idea ed una sfida. E di segnarvi il 20 maggio per vedere il primo assaggio. Per ora, molta stanchezza e bisogno di riposo che domani si torna al lavoro.

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