Visto che non c’è ordine da
nessuna parte, dedichiamo questa trama pre-festiva anch’essa al più completo
“casino”. Un testo teatrale di cui ho sentito tanto parlare ma che mi ha
lasciato un po’ deluso, un creativo che fa la parodia delle poesie di
Ungaretti, un giornalista polacco che scrive articoli sulla gente “normale” e
le confessioni di un amante del football come il caro Hornby (che preferisco
come amante di musica, tuttavia). Ma alziamo il sipario.
Yasmina Reza “Il dio del massacro” Adelphi euro 9 (in realtà, scontato
7,65 euro)
[in: 06/11/2011 – out:
30/12/2011]
[tit. or.: Le
Dieu du Carnage; ling. or.: francese; anno 2007]
Non
ho visto il film che ne ha tratto Polanski, ed ero molto indeciso se comprare
il testo o meno (solito problema: autore francese à leggere in originale).
Poi, sconti e offerte mi hanno portato all’acquisto, ad inserirlo tra le
letture, ed ora ad anticiparla per permettere qualche svago alla mente in un
viaggio di bagagli leggeri fatto tra le bellezze sicule. La Reza (ovviamente un
toro!) figlia di un iraniano ed un’ungherese entrambi rifugiati a Parigi, è un
bell’esempio (e se hanno anche qui) di attrice, poi autrice, poi anche regista
ed altro (forse quasi tutto, ma non docente). E che tanti premi ha ottenuto in
patria e altrove. Ma veniamo al testo (ed al contesto). Come penso sia noto ai
più, è un pezzo di teatro, di quelli che si svolgono in un solo ambiente, anche
scarnamente sceneggiato (una casa, forse dei divani). Lì sono riunite due
coppie di genitori. Riunite dall’occasione di una lite forte che hanno avuto i
loro rispettivi figli maschi sugli undici - dodici anni finita con Ferdinand,
figlio degli ospitati, che ha dato una bastonata in bocca al figlio degli
ospitanti. Questi, Michel e Veronique, sono una coppia in arrivo alla soglia
borghese. Lui è un rivenditore di articoli casalinghi, un po’ rozzo e rude. Lei
si definisce scrittrice (ha collaborato ad un libro sul Darfour) e si occupa di
arte, volontariato, eclettica e inconcludente. Gli altri, Alain e Annette, sono
invece pienamente borghesi e con qualche puzza sotto il naso. Lui è avvocato e
difende una grande industria farmaceutica in una “class action” per dei
medicinali per anziani con innegabili effetti collaterali, e vive praticamente
in simbiosi con il cellulare, cui si attacca anche per tutta la discussione tra
le coppie. Lei si occupa di gestione patrimoniale, ma soprattutto del
patrimonio del marito, e deve fare la moglie – mamma 24 ore al giorno. La
trama, se si vuole, è linearmente banale. Una specie di versione anni 2000 di
“Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Albee. Qui ora ci sono i figli che li mancavano.
E non ci sono tradimenti “palesi”. Ma come non riconoscere l’escalation che da
una pacifica (almeno all’apparenza) discussione sulle malefatte (anche gravi,
se vogliamo) dei figli, mette tutto in discussione. Il rapporto interno tra le
coppie. Le diverse personalità. Le meschinità. Il razzismo. E chi più ne ha più
ne metta. Michael ha l’ansia del parvenu e le tipiche incapacità di capire le
situazioni (continuando a volte a raccontare barzellette che nessuno capisce,
di berlusconiana memoria). Veronique un po’ si sente in colpa per un marito non
“culturalmente” all’altezza, e di conseguenza vorrebbe volare alto, in una casa
dove appunto la cultura non sembra essere compresa. Alain e Annette fanno
specularmente lo stesso. Lui è insopportabile con la sua presupponenza ed il
suo cellulare (tanto che ci si aspetta un applauso a scena aperta, quando
Annette glielo butta nel vaso pieno d’acqua). Lei è insicura, succube del
marito, e di un menage familiare tutto sulle sue spalle. E questa spirale
monta, mostrando anche la completa incapacità di tutti e 4 di sapersi
rapportare con i figli, di capirli, ne fanno solo un esempio in minore della
vita che loro vivono, giustificandone tutto, anche gli eccessi. E come, al
fine, non trovare un collegamento sul filo della musica. Lì, nella Virginia
Woolf, si cantava dei porcellini e del lupo cattivo (“Who’s afraid of the Big
Bad Wolf?”). Qui siamo a Parigi, ed allora si cita Paolo Conte e la sua “Vieni
via con me” (Alain chiama Chips la moglie, dal refrain chips, chips, dudududu
chi bum chi bum bum). E per tenere il passo, Michel chiama Darji la sua Veronique,
abbreviazione di Darjiling, regione indiana che ha visto il loro viaggio di
nozze. Certo la Reza è ben abile nel passare tra i vari registri, nel salire e
scendere, sempre usando un linguaggio molto piano, molto accattivante. E ci fa
vedere velocemente banalità e ipocrisie, che ben rappresentano questi anni 2000
privi di etica. Un testo che andrebbe recitato alternandolo ad un saggio di
Baumann sulla moderna vita liquida. Che i nostri eroi ne sono i campioni e gli
epigoni. Si adattano al mondo moderno, senza criticarlo, senza capirlo,
cercando solo di rimanere a galla. Conclusione senza speranza, che con un moto
di ribellione si porta a compimento, ma tutto rientra, tutto svanisce nel nulla
della falsità. Rimane solo questo Dio del Massacro che, contrastando
solidarietà ed etica, rimane l’unico attore della vita dei protagonisti. Una bella
foto (simile a quelle di Schmitt, e non è un caso che i francesi riescano a ben
fotografare la realtà), ma un po’ deludente. Mi aspettavo di meglio. Ed ora
sono anche curioso di vedere come lo ha trasformato Polanski.
“Michel – I figli ci portano alla rovina …
Ho … [un amico] che sta per avere un
figlio da una nuova ragazza. Gli ho detto, un figlio alla nostra età, che
follia! I dieci, quindici anni decenti che ci restano prima del cancro o
dell’infarto vuoi romperti le palle con un marmocchio?” (67)
Vincenzo Vigo “Sorry, mister Ungaretti” Aliberti editore euro 9,90
[A: 17/05/2011 – I: 25/01/2012 – T: 26/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127;
anno: 2010]
Un
tentativo di “parodia”, fatto forse un po’ troppo con lo spirito di “Cuore”
(quello di Sabelli Fioretti non di Serra) un po’ troppo lontano dal “Quasi
come” di Almansi e Fink. Non un rimando casuale, che Vincenzo Vigo ha
lungamente militato nelle file parodistiche e umoristiche italiane, proprio in
“Cuore”. Certo ora verso altri lidi dirige il suo acume, visto che è uno dei
direttori creativi della “Armando Testa” (sua, ad esempio, la campagna
dell’Aceto Ponti con Ricky Tognazzi). D’altra parte, il mio cuore (ah ah) è
sempre vicino alla parodia (da cui “la letteratura come parodia e la parodia
come letteratura” del sopra citato libro di Fink) e per questo cercai e trovai
questo libricino di cui avevo sentito parlare. Pur contenendo momenti topici,
non mi ha esaltato (né purtroppo mi ha convinto la prefazione di Starnone). Non
si tratta di restituirci un Ungaretti più umano, con i vizi e le virtù di
ognuno. Come passando dall’originale Mattino del 1917 alla parodistica Verginità
(collocata nel ’20, che Vigo fa opere multiple di inganno, citando anche luoghi
ed anni) che recita “M’illumino / d’imene”. O al tentativo di ricollegarsi agli
anni giovanili africani, collocando ad Addis Abeba nel ’29 un rude Parto
dello scimpanzé: “Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le doglie”. Mi
sembra si resti sempre sul lato goliardico senza fare uno sforzo per entrare
dentro un ermetismo umoristico. Del tipo di raffrontare due versi e chiedere
quale dei due sia vero e quale falso, come per i seguenti: Senilità “Gli
anni passano / orami / senza / salutare” o Allegria “Non mi rimane che
rassegnarmi a morire / Alleverò dunque tranquillamente una prole”. Per poi
cadere in parodie ermetico – canore, che avrebbero trovato ben spazio nella
Rassegna Stampa dei tempi di Radio Spazio Aperto (vero Luciano?), come: Ma
come cazzo cucini? “Quando sei qui / con me / questo soffritto / viola / no
/ non esiste / più” o Amore diverso (a Franco I) “Ho scritto / Tano /
sulla sabbia”. L’unica salverei da questa parte musicale, è la dolente
invocazione per l’Alzheimer “Eppur / mi son scordato / di me”. Quindi, mentre
passerei pagine e pagine a commentare Vita-Finzi che rifà Montale, trovandoci
elementi di gioco, ma anche scoperchiamenti (scusate il neologismo) di elementi
montaliani ignoti allo stesso Eugenio, qui l’operazione di Vigo ha il fiato
corto e ben presto il gioco si esaurisce. Ho letto dotte disquisizioni su
questo libretto, sulla Gazzetta del Sud e sull’Avvenire, ma le trovo un po’
troppo benevole. Sarà l’attuale ruolo dello scrittore che ne fa parlare in
positivo. Un commento deve essere positivo dove ci sono elementi buoni, ma deve
pur dire dove non ci sono, e dove si cade nel banale e nel triviale. Con tutto
l’affetto che comunque un’operazione del genere suscita in me, preferisco in
ogni caso la Vispa Teresa commentata da Mario Praz, Baudelaire riscritto a
versi alterni da Paolo Milano e Umberto Eco, Spillane mimato da Woody Allen,
Dryden che riscrive la Tempesta, Fielding che prende in giro la Pamela del
contemporaneo Richardson, fino a Leopardi riscritto senza mai usare la
"a" e Belli che riscrive la Bibbia. Perché se uno scrittore scrive,
il suo scrivere sarà sempre avvicinabile ad un “quasi come” qualche d’un altro.
Qui, invece, è solo altro. Gradevole, ma altro.
Mariusz Szczygieł “Reality” Nottetempo euro 8
[A: 31/01/2012 – I: 13/02/2012 – T: 14/02/2012]
[titolo: Kaprysik. Damskie
historie; lingua: polacco; pagine: 151; anno:
2010]
Uno
strano librettino dove il giornalista polacco dal nome impronunciabile racconta
(come dice il sottotiolo polacco) alcune storie di donne. Avevo preso la
segnalazione dalla rivista Satisfiction, e devo dire che concordo con la
segnalazione che ne hanno fatto. Una bella scrittura (ovviamente giornalistica,
dato l’autore), con alcune belle punte, e begli spunti. Il nostro Mariusz,
spulciando tra tutte le notizie che circolano intorno alla sua Gazeta tira
fuori quattro storie di donne, le prime due mi hanno preso, la terza quasi
nulla, la quarta a metà. Da tutte esce fuori se non il senso della vita, almeno
l’immagine di alcune vite vissute, con la capacità dello scrittore di tirar
sempre fuori il significato anche da quanto sembra insignificante. Ci lasciano
di stucco i quaderni di Janina, che per sessanta anni appunta sulla carta tutto
quanto le avviene intorno. Ma non come se tenesse un diario, solo il fatto, e
la sua enumerazione. Così troviamo che ad un certo punto incontro un tizio che
le ricorda tal Tadeusz (incontro n. 27.835). Che nel ’53 lascia 2 złoty per la
chiesa, e nel ’90 20.000 (ahi l’inflazione). Che ha comprato delle patate. Che
ha divorziato (ma poi scopriamo che è rimasta in amicizia e l’ex la va a
trovare e le porta i fiori n. 9.346 come regalo). Una vertigine di numeri, e di
fatti minuti, che il giornalista ci riporta facendone trapelare in controluce
la realtà. Realtà di una vita trascorsa magari chiedendosi altro, magari
sognando altro. Intanto però elencando fatti e cose, per non perdere contatto
con sé stessa. Quasi che a definire Janina siano proprio le azioni, reali, che
compie. Non a caso, intitola il racconto “Reality”, quasi fosse un grande
fratello in diretta. Lasciandoci poi con la sorpresa, oramai morta Janina, di
trovare una scatola di cartoline, dirette a tante persone e mai imbucate.
Cartoline dove non c’erano più i fatti, ma i pensieri. Una realtà di donne che
traspare anche nel quarto racconto, laddove ci sono due amiche, Henryka e
Teresa, che si scrivono lettere ogni settimana per più di trenta anni. Lettere
che si rimbalzano, dove (leggendone gli estratti sapientemente curati da
Mariusz) vediamo scorrere le loro vite, i matrimoni, i figli che crescono e si
sposano, i grandi e piccoli drammi quotidiani, i problemi di lavoro, il
licenziamento, la pensione, la legge marziale e Solidarnosč, la morte dei
mariti, la consolazione dei nipoti. Vivono a poca distanza l’una dall’altra, ma
non si vanno a trovare. Mantengono in vita la loro reciprocità epistolarmente.
E senza narrare un avvenimento che è uno, Mariusz, con le sue scelte, ci fa
fare un viaggio di trent’anni nelle loro vite e nella vita della Polonia.
Questo, dicevo mi è piaciuto a metà, perché l’alternanza delle lettere è
asimmetrica (a volte due, tre di Teresa, poi il salto di un anno, poi i nomi
polacchi, mai facili da digerire), e solo la testa tiene alta la tensione.
Elemento invece che viene a mancare nel meno felice del lotto, laddove il
rettore dell’Università, fa erigere una statua in bronzo nel posto dove vide
per la prima volta la sua Małgosia. Certo, il racconto è sia un canto d’amore,
sia la fotografia del rapporto di una coppia che sta ancora bene insieme
propria per la diversità dell’approccio alla vita. Ne esce fuori una
complementarietà ed un’alternanza che scaldano il cuore. Finisco con il secondo,
che torna e forse supera, il livello del primo. Qui seguiamo Mariusz in una
specie di indagine nata senza un particolare scopo: trova per caso un foglio
con una lista di nomi femminili con data di nascita e strani segni accanto.
Spinto dalla curiosità (in fondo è pur sempre un giornalista) comincia ad
interrogarsi sul significato della lista. Una lista di amanti? Di bimbe ebree
sfuggite all’olocausto (la lista è stata sicuramente scritta prima del ’55 e le
donne sono nate tra il ’29 ed il ’35)? Di signorine che hanno interrotto la
gravidanza? E tanti altri motivi, che escono fuori, a poco a poco, man mano che
rintraccia le varie persone della lista, ormai anziane ma non tutte morte. La
soluzione (che non vi dico) è un’altra trovata di ingegno di quella fantastica
cosa che è la vita che viviamo. Insomma, una novità (nello stile e nel contenuto)
positiva e rincuorante. Come una Żubrówka (l’ottima vodka polacca), da
sorseggiare in quella bellissima piazza al centro di Cracovia.
“Vivo o fingo di vivere? Tutti questi appunti, queste statistiche, non
saranno solo un modo per ingannarmi? … Volevo amare, ma desideravo anche essere
amata.” (35)
“Quelli che vivono murati dentro al proprio segreto, finiscono per
morire di crepacuore.” (45)
“Non dica mai che è troppo presto per qualcosa. Si renderà conto in
fretta che è già troppo tardi per tutto.” (55)
“Lo stile di vita di un pensionato non ha a che fare con la sua età
anagrafica, bensì con le sue convinzioni.” (142)
Nick Hornby “Febbre a 90’” Guanda euro 7,50 (in realtà, scontato 6
euro)
[A: 11/06/2011 – I: 13/03/2012 – T: 18/03/2012]
[titolo: Fever Pitch; lingua: inglese; pagine: 224;
anno: 1992]
Mi è discretamente piaciuto,
anche se sono contento di averlo letto ora e non allora, quando Nick lo scrisse
una ventina di anni fa, e che vidi alla metà degli anni Novanta. Perché in
realtà non è un romanzo (ed io avevo appena letto “Alta fedeltà” che ho trovato
stupendo). Non è una cronaca sportiva. Non è un’autobiografia. È un ibrido, in
effetti. Contiene un po’ di tutto, anche se il filo conduttore è comunque il
pallone. Il calcio. La nascita di una passione. I guasti che ne derivano a chi
ne rimane “addicted”. L’autore, ormai trentacinquenne, sta cercando di
praticare la sua autentica passione, quella di scrivere. Ma, come tutti gli
aspiranti scrittori, dovrà passare sotto mille forche caudine di illusione e
delusioni prima di riuscire a trovare una sua via per vivere con quelle che ama
fare. Ha già fatto tanti mestieri (insegnante, impiegato, giornalista) e
nell’attesa di sfondare, decide di buttare su carta quello che conosce meglio.
Quello che lo accompagna ormai da venti anni: il calcio e la passione per la
squadra della Londra del Nord, l’Arsenal. Ne esce fuori questo ibrido, che,
seppur maggiormente dedicato al calcio, nel filo dei ricordi, partita dopo
partita, ricostruisce da un lato la biografia di Nick (il rapporto con il
padre, soprattutto quando questi divorzia e va a vivere con un’altra donna,
dalla quale avrà altri figli, il rapporto con il fratellastro, le tante storie
di lavori iniziati e lasciati, le tante storie di donne, prese e da cui veniva
lasciato) e dall’altro la biografia mentale di una persona cui entra il calcio
nel sangue e cerca di convivere con questo demone. Difficile, a volte, per chi
non mastica di calcio, districarsi tra le partite di campionato inglese, di
coppa, partite internazionali e partite della nazionale. Ma se si finge di
capire queste parti, e ci si lascia cullare dagli interventi “sociali” di Nick,
si riesce ad entrare in alcune possibili discussioni che prescindono dallo
specifico arsenaliano, in particolare sulla violenza negli stadi (e qui
l’autore fa delle interessanti digressioni sia sull’Heysel che su Hillsbrough)
e sulla psicologia del tifoso (non dell’hooligan, ma del tifoso appassionato di
calcio, anche sciovinista se vogliamo, ma non violento). Mentre sulla prima
lascio la parola all’autore (“non ci sono rimedi e costrizioni, ma solo
possibilità di cambiamento della mentalità”), la seconda mi ha intrigato.
Perché, se estrapoliamo dal contesto calcistico, è anche un po’ la metafora di
chi lega se stesso ad avvenimenti esterni, di chi (anche se non segue dal vivo)
vede una vittoria della propria squadra come un segnale positivo per la propria
vita o una sconfitta (di una squadra, di una macchina, di un tennista, di uno
sciatore, a seconda delle proprie passioni) come un monito che anche qualcosa
d’altro andrà male. Ed è interessante seguire il percorso che ci fa fare
Hornby, cominciando dalle prime partite cui lo porta il padre divorziando.
Partite che diventano l’elemento che lo accomuna a qualcosa che sta perdendo.
Per poi diventare un feticcio (se non vado, la mia squadra perde; se vado,
anche se perde, posso sfogarmi con i miei amici a me sodali). Ed alfine una
malattia, un elemento cui ruotano pomeriggi o sere importanti della propria
vita. Ne riconosco i sintomi, quelli che vidi negli anni sessanta, quando fui
costretto dalla cerchia familiare a trovare qualcosa da tifare (tutti seguivano
il calcio, ed io dovevo omologarmi). Per poi, con il senno della maturità,
allontanarsene in modo critico (mentre padri, madri e cugini continuavano ad
accapigliarsi). Con l’orecchio sentire gente parlare ore ed ore di quello che
avrebbe fatto l’allenatore, il portiere, o altro legato alle partite. E non
capire come si possa buttare tanta parte della propria vita in simili
“palliativi”. Per poi alla fine riconoscere che, se la tua squadra (di calcio,
di bridge) vince, sei comunque più contento ed affronti meglio il futuro. Mi
accorgo di aver parlato poco del libro in se, ma forse non c’è molto da dire.
Meglio averne discusso sugli stimoli che propone. Un solo accenno: mi ha fatto
piacere ricordare nelle sue pagine la figura di un bravo calciatore come fu
Liam Brady. Alla fine, non è il miglior Hornby che conosco, ma un bel prodotto,
degno di aprire una bella discussione su tifosi e sportivi.
“Gli ossessionati [del calcio] … devono mentire. Se dicessimo sempre la
verità, non riusciremmo a mantenere rapporti con chi vive nel mondo reale.” (8)
“Una volta credevo … che crescere e diventare adulti fossero due cose
analoghe. … Adesso penso che diventare adulti sia una cosa dominata dalla
volontà, che si possa scegliere di diventare adulti.” (97)
Dicevo
qualche giorno fa che il mio oroscopo prediceva un mese fortunato. Per ora, non
si sono ancora scatenate le potenze della fortuna. Anzi, ho faticato e molto in
questi primi cinque giorni maggiolini. E non mi sembra che l’immediato futuro
porti cambiamenti radicali. Vediamo e viviamo.
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