Prima festa non domenicale dell’anno,
e si continua a tramar festando. Tornando sulla collana estiva degli Inediti
dei Corriere, con una seconda tornatona di racconti. Quattro di autori che già
conoscevo e quattro di autori a me nuovi. I vecchi, nel bene e nel male, si
confermano (e soprattutto Buticchi che non mi piacque allora né mi piace ora).
Dei nuovi, mi convince Nesi (che cercherò in altre prove), e gli altri mi
lasciano perplesso (con una nota negativa in modo speciale per Desiati).
Ma andiamo con ordine cominciando
dal più blasonato.
Andrea Camilleri “La targa” Corriere della Sera euro 1
[in: 27/05/2011 – out:
29/08/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Continuo
a leggere gli inediti che settimanalmente propone il Corriere della Sera. Tocca
ora al nostro caro siciliano (che ha l’indubbio onore di essere il più presente
tra i libri dei miei scaffali). È un racconto, e quindi si colloca nel filone
che ha da poco visto la pubblicazione per Sellerio del “Grande Circo Taddei”.
Infatti, è un’altra storia di Vigata, dove a poco a poco, libro dopo racconto,
si va costruendo una cosmologia analoga ai mondi larianei di Vitali. Anche la
collocazione spaziale è sempre “omogenea”, dato che il più delle volte siamo in
piena epoca fascista, quasi a rimarcare che si parla del ventennio di allora
come se si parlasse dell’attuale ventennio (o quasi) del buon Silvio. Cercando
di tessere trame che in controluce facciano pensare ai nostri guai. Detto ciò,
purtroppo, questo è il massimo della bontà che si può dire dello scritto. Che non
ha molto sugo. Una storia piccola, con caratteristi piccoli e meschini, che a
stento suscitano un sorriso. La lingua, è sempre quella usata nella saga di
Montalbano, e chi è aduso a quella ci si trova a proprio agio
(ragionevolmente). Anche se, per necessità di storia, e visto che il nostro
Salvo non c’è, magari si abusa un po’ di più del dialetto. L’importante è non
farsi bloccare dalle parole, ma lasciarle scorrere. Non è importante
“decrittarle” ad una ad una, ma sentire la loro musica, e il senso arriverà. Ma
il senso questa volta è funzionale a questa piccola storia ambientata nel
giugno del ’40, tra fascisti della prima ora che forse nascondono cadaveri
sotto il letto, mogli giovani in attesa (e/o in cerca) di svaghi migliori,
antifascisti d’onore che poi sono un po’ inconcludenti, e ridda di alleati
vari, ora con questo ora con quello, che tanto mi fanno pensare alle nostre
arene montecitoriane attuali. Non manca il garante dell’ordine, che, in quanto
tale, non può che ricalcare lo stereotipo del fessacchiotto presupponente. E
dopo mille inutili peripezie, qualche disvelamento, ma senza troppi patemi, i
vespri siciliani continueranno a rifulgere come baluardo verso l’imbarbarimento
montante. Insomma una sufficiente prova di scrittura, di quelle a gettone (cioè
un tanto a cartella), con molto mestiere e poco cuore. Come detto, sufficiente.
E niente più.
Edoardo Nesi “Miracolo inevitabile”
Corriere della Sera euro 1
[in: 25/07/2011 – out: 11/09/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
In
attesa di vedere se e quando leggere del suo libro vincitore dello Strega,
eccoci a leggere un raccontino di Nesi, di cui non ho peraltro letto nulla fino
ad ora. Devo dire che è una bella introduzione al libro, che un po’ viene la
voglia. Perché Nesi scrive bene, si fa leggere, e perché le sue ambientazioni
fanno suonare corde neanche tanto antiche. Infatti, se le storie della mia
gente sono ambientate a Prato, qui il racconto si svolge in Versilia. Un
racconto, in realtà, fatto di molto poco. Una partita a pallone tra due
squadrette di dodicenni: i figli delle ville, con le magliette tutte uguali, ed
i figli delle case, ognuno con la sua camicetta ed i suoi jeans. E tutto si
svolge durante un bellissimo tiro a campanile, nell’ultimo momento di gioco, che
uno delle ville riesce a dosare verso la porta avversaria. In questo lungo
istante, Nesi riesce a presentarci qualche storia e darci qualche spunto per il
dopo (questo è sempre un punto a favore di un libro, se riesce a farmi anche
pensare cosa faranno i protagonisti dopo che avrò voltato l’ultima pagina). C’è
Vittorio, il capitano delle ville, sicuro di sé, ma con una madre apprensiva
che lo aspetta a bordo campo per tutta la partita, e che alla fine della
partita lo avvolgerà in un asciugamano per non farlo sudare. E ne vediamo già i
dilemmi ed i traumi da giovane rampollo di una famiglia che ci appare ben
calata nella sua borghesia. C’è Dino, il capitano dell’altra squadra, insicuro
di sé, che non vuole perdere la faccia con i suoi compagni e darla vinta a
quello che potrebbe (ma non è ancora, e forse non sarà mai) essere suo amico. E
c’è Francesca la madre, che ha lasciato il lavoro per dedicarsi alla famiglia,
e lì, nella Renault 5 in attesa della fine della partita, cullata da una Vanoni
che canta “è uno di quei giorni in cui rivedo tutta la mia vita….”. E come la
Vanoni cerca di fare un bilancio che non quadra. Ed infine c’è la Versilia,
stesa nell’antagonismo palpabile tra una ricca Forte dei Marmi ed una
proletaria Vittoria Apuana. Poco altro c’è, e non ne parlo per lasciarvi
qualche briciolo di curiosità. A me ha fatto riandare alla villetta di confine,
al baretto d’angolo, alle pizzette in piazza. Ed alla libreria sul Corso.
Piccole cose gozzaniane, e ringrazio Nesi per avermele fatte tornare alla mente.
Mario Desiati “È proibito amare” Corriere della Sera euro 1
[in: 25/07/2011 – out:
17/09/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Non è facile per me imbattermi in
un autore di cui non so nulla. Merito della collana del Corriere di farmi
incontrare questo tal Desiati che, trentacinquenne pugliese di Martina Franca
(ahi, che nodini di mozzarella…), pare abbia scritto un paio di libri e che
fortunatamente sia anche un toro. Dopo aver letto questo suo racconto,
purtroppo, non credo che andrò per il momento a cercare altro. Non che non
sappia scrivere. La frase fluisce, il senso scorre, cinque anni passano in un
lampo. Ma… cosa ci vuole dire? Qual è la storia che vuole rappresentare?
All’inizio si pensa ad una tormentata storia d’amore, magari osteggiata da
famiglie e convenienze. Poi si scopre che è sì una storia d’amore, ma quasi
sempre a senso unico, che Veleno (questo il nome del protagonista) ama di
sicuro ma Donatella? Poi si scopre che la Donatella di cui sopra è l’insegnante
di tecnica di Veleno, che all’inizio della storia ha tredici anni. E come tutti
i tredicenni è perdutamente innamorato delle sue insegnanti, soprattutto se
giovani, carine, e spigliate. Poi si scopre che Donatella fa innocenti (più o
meno) giochi erotici con i suoi alunni. Ed il dramma, gli psicologi, il
processo, e chi più ne ha più ne metta, di turpitudini. Ma che sono cose turpi
che continuano a non coinvolgere. Come non coinvolge il continuo riandare di
Veleno verso questo amore pre-adolescenziale. Questo non uscirne, innanzi tutto
perché va contro regole e convenzioni. Tanto che l’autore si domanda se sia
proibito amare. E poi tutto va avanti nelle scarse pagine del racconto,
trascinandosi senza un vero perché e finendo senza neanche mezza sorpresa o
mezzo sorriso. Ma che ci volevi dire, caro Desiati? Non l’ho capito. Non ho
capito perché ti scandalizzi che ci siano problemi se una donna di trenta anni
circuisce un ragazzino di quindici. Certo tu li rendi estremi, ma non è facile
avere un sereno rapporto d’amore quando tanti anni dividono i due partner. Ci
vuole forse ironia e spregiudicatezza (magari dovresti andarti a rivedere quel
bellissimo film “Harold e Maude”). Qualità che non traspaiono dalla pagina. Che
mi lascia indifferente sino alla fine. Un incontro non molto fortunato, per
ora.
Giordano Bruno Guerri “Ebo e Gina” Corriere della Sera euro 1
[in: 25/07/2011 – out:
18/09/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Non
ho mai letto nulla dello storico di Monticiano (di ben 10 mesi più giovane dell’unico
Storico cui riconosco questo titolo) per una strana reticenza verso
intrasentite fanfaronate e magari altre leggende metropolitane che circondano
la figura del nostro. Certo alimentate ad arte da una buona capacità di auto –
elogiamento. Forse sarà che viene dalla stessa città di Luciano Moggi, quasi
che in quelle rocche oscure potessero nascere solo personaggi negativi.
Tuttavia, merito alla collana del Corriere che ce lo presenta in veste un po’
di storico di se stesso, con questa cronica familiare dedicata ai suoi
genitori. Febo detto Ebo e Gina. Veniamo così a ripercorrere con lui, a salti e
sprazzi, alcune sue storie familiari, che sembrano riportate con onestà da
sessantenne, anche se poi si ha sempre il sospetto di qualche infiorettatura. Incontriamo
così Nonno Giuseppe detto Pelino rude scavatore di ciocchi di montagna e Nonna
Marianna detta Nanna (che tanto mi ricorda il mio personale lessico di cui
parlerò un giorno sulla nascita dei nomi della mia famiglia) e i loro figli,
tra cui lo scapestrato Ebo, e poi Nonna Pia e Nonno Alfredo, fino a mamma Gina.
Non entra nel merito del proprio nome (già altrove il nostro inventa almeno due
storie differenti su quel Giordano Bruno), ma del suo cognome sì. Perché Ebo si
chiama Anselmi e Guerri è la Gina. E benché fidanzati fin da piccoli (sono nati
a pochi giorni di distanza, ed anche questo mi ricorda…), al ritorno dalla
guerra Ebo si invaghisce della bella Ilenia e la sposa invece della Gina. Ma
Ilenia è traditrice, e vien trovata in altra alcova dai carabinieri. Siamo alla
fine degli Anni Quaranta, c’è solo la separazione. Così sarà, ma Ebo, tornato
solo, chiede perdono alla Gina e andrà a vivere con lei. Non c’è divorzio,
allora, e quando nasce, Giordano Bruno sarà figlio di Gina Guerri e di N.N. Eccolo,
allora, il nostro Giordano Bruno Guerri, che da questa spigolatura (ma poi non
tanto), va su e giù per i suoi tempi privati, con momenti anche toccanti (la
morte del padre, i novanta anni della madre), momenti ironici, e passaggi un
po’ così, senza un vero perché. Come quando disamina la sua onestà di
intellettuale con idee sia di destra che di sinistra. E qualche filippica per
esortare il figlio, che può felicemente portare (ora che le leggi lo
consentono) il suntuoso nome di Nicola Giordano Guerri Anselmi. Unico dato
storto è che a me risulta vada prima il nome paterno, ma forse non sono
aggiornato. Doppio cognome perché, dopo anni ed anni di convivenza poi Gina ed
Ebo si sposano (ed anche qui mi suona familiare). Però alla fine di mordente ce
n’è poco. Come detto spigolature, sensi di campagna toscana, la prima volta del
mare, ed altre piccole pennellate. Forse un po’ poco per fare un racconto
riuscito. Abbastanza da farne uno leggibile.
Gaetano Cappelli “L’ombra del falco obeso” Corriere della Sera euro 1
[in: 25/07/2011 – out:
24/09/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Tre
anni dopo un altalenante “Parenti terribili”, eccomi di nuovo alle prese con
Cappelli. Qui mi è piaciuto di più. Sarà la dimensione racconto che fa si che i
suoi giochini e voletti pindarici non risentano troppa stanchezza, ma mi ha
fatto sorridere, e non è poco. Intanto riportiamo il chilometrico titolo
completo, tagliato dall’editore per ragioni di spazio. Infatti, il racconto si
chiama “L’ombra del falco obeso e la Corvette di Springsteen ovvero Il potere
delle maledizioni sul destino degli uomini con una stima molto approssimativa
del loro tempo di realizzazione“. Ed è moderatamente autobiografico. Seguiamo,
infatti, tal Galliano scrittore lucano (come Cappelli) che raggiunto il
successo, trova una seconda giovinezza accanto alla bella Safira. Viene
invitato al paese natio per ricevere un premio (essendo in denaro non ci si
tira indietro). E lì, in quel di Pisticci (ah, Pierino…) ritrova i volti della
sua gioventù, quelli che ha messo alla berlina nel suo libro di successo. Qui
la parte migliore tra i ricordi ed il presente, con alcune riuscite macchiette
di paese. Compresa la trafila per l’elezione della Miss del paese, e con
qualche gustosa tirata d’orecchie alle grette usanze paesane. Certo poi si
perde un po’, con quelle cornacchie ed il falco obeso del titolo che gliela
tirano a lungo, mettendo il nostro autore in situazioni difficili. Ce la farà a
resistere alle tentazioni della carne e dello spirito? Sarà salvato dalla
misteriosa auto del Boss? Questo lasciamolo ai benintenzionati lettori. Noi
rimaniamo con il raccontino decente e con qualche trovata intelligente. Rimane
il sospetto che Cappelli se la tiri un po’ e questo non glielo perdoniamo
molto. Certo, sarebbe anche bene che avesse (lui o il Corriere della Sera) un
editor decente che eviti di trovare a pagina 88 la citazione della canzone
“Gloria” attribuita immeritatamente ad un inesistente Riccardo Tozzi, invece
che al corretto Umberto. Non si fanno certe sviste (o se anche questa era una
trovata, mi sembra mal riuscita)!
Luca Di Fulvio “Kosher mafia” Corriere della Sera euro 1
[in: 29/07/2011 – out:
30/09/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Direi
un libro intonato con il giorno della sua lettura, il Capodanno ebraico del
2011. Ma detto di questa coincidenza temporale, un’altra ne sorge che il nostro
Di Fulvio ha esattamente 3 mesi meno della mia amica Rosa, stesso anno non dico
quale. Ed anche lui è (è stato) attore, sceneggiatore ed altro di teatro. Poi
comincia anche a scrivere romanzi, e, come dice in una bella intervista uscita
qualche tempo fa, a narrare storie. Le storie non devono avere sempre un
aggancio con il qui ed ora, e questa, infatti, se ne distacca alla grande. Nato
dalla miriade di appunti che uno scrittore fa per preparare i suoi libri, è in
realtà una costola del libro “La Gang dei Sogni” uscito 3 anni fa. Si torna
quindi a parlare dell’America dei primi anni del secolo. Qui, come si intuisce
dal titolo, di quella parte che fa riferimento alla cultura ebraica. Assistiamo
così allo scontro titanico tra due giovani, figli di due amici fuggiti dai
pogrom russi del 1905, che ora nell’America in crescita cercano la loro strada.
Kid si associa ai gangster ed ai violenti. Sholem diventa sindacalista per
proteggere gli operai (ebrei) dalle angherie dei padroni (ebrei essi stessi).
Ed è Sholem che ha l’idea che (come dimostrerà la realtà perché qui è finzione,
ma non lontana dalla verità storica) per proteggere gli operai dai gangster
assoldati dai padroni, bisogna assoldare gli stessi gangster, pagandoli di più.
Così sarà nella realtà, dando vita a quel sindacalismo mafioso che ben
conosciamo dall’interpretazione di Jimmy Hoffa da parte di Jack Nicholosn. Nel
racconto, rimaniamo nel piccolo, perché quello che preme di più a Di Fulvio è
la lotta tra Kid e Sholem che difficilmente potrà avere dei vinti e dei
vincitori. E nel pendant dell’amicizia tra i padri, che si sentono colpevoli di
essere sopravvissuti ai pogrom, e che vedono i loro figli combattersi e
combattere e non ne capiscono i motivi. Ebrei con la testa altrove, direi.
Tutto qui, niente di più approfondito e di più coinvolgente. Un raccontino
scorrevole, con qualche idea, ma poche trovate da “colpo di scena”. Si legge.
Ed ha l’unico e non banale pregio di farmi chiedere, ma chi è questo Di Fulvio?
Marco Malvaldi “Sol levante e pioggia battente” Corriere della Sera
euro 1
[in: 03/08/2011 – out:
07/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Non
è il BarLume e non è un racconto, ma a me continua a piacere la scrittura di
Malvaldi, anche in questo non-libro di confronti tra Olanda e Giappone (e
guarda caso, scaturito a ritroso da una cosa che avevo subodorato fin
dall’inizio, che attiene allo sport e di cui ho già detto troppo, e vediamo se
qualcuno ci arriva). Anche se decolla a fatica (soprattutto per me, che devo
passare attraverso il narrare della sua fatica di viaggiare; ma come? È la cosa
più naturale… Vabbè, ne riparleremo) poi prende il largo attraverso una serie
di spigolature. Sulle due lingue, sulle tipologie “l’olandese”/”il giapponese”;
sulle diversità, ma anche, sorprendentemente, sulle similitudini. Forse le due
cose migliori sono il racconto sull’ossessionante gentilezza nipponica (che se
gli chiedi una strada, al limite ti ci portano a piedi pur di essere gentili) e
sull’altrettanto ossessionante tirchieria nederlandese (quella che sostituisce
i campanelli elettrici con delle cordicelle… per risparmiare elettricità!). E
poi, gli altri momenti ilari: quello dell’agglutinamento delle parole
fiamminghe, che produce il fantastico “plimplemplotteln” (cioè il gioco di
tirare sassi sull’acqua per farli rimbalzare) e la fantasia nipponica che
produce il verbo “kakekomijosha”, cioè affrettarsi ad entrare nella
metropolitana mentre le porte si stanno chiudendo. E che dire dei cognomi?
Entrambi i popoli sono recenti nel loro uso (Settecento per gli olandesi e fine
Ottocento per gli orientali). Ed anche se si ricorda un tale Rembrandt
Harmenszoon va Rijn (Rembrandt figlio di Harmen che vive vicino al Reno)
l’obbligo napoleonico ad usare il cognome porta lo spirito ribelle dei locali
ad usarne di strampalati come Slettenhaar (Capelli di Troia, che da una mia
ricerca nasce con tale Lambert op de Slettenhaar nato intorno al 1638 a Zuna).
Mentre i nipponici più poetici, quando l’Imperatore ne impose l’uso, scelsero
nomi come Yamamoto (ai piedi del vulcano) o Inaoue (ai bordi del pozzo). Non vi
svelo i misteri del cibo e della toilette dei due popoli, che dovete scoprirli
da soli (così come il mio quesito iniziale). Insomma, gradevole lettura, per
non essere niente altro che una scrittura di un racconto tra amici, intorno ad
un bicchiere di rhum ed una tavoletta di cioccolato.
Marco Buticchi “Evil” Corriere della Sera euro 1
[in: 10/08/2011 – out:
11/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2011]
Anni
fa lessi il suo primo libro “La pietra di luna” e trovai che l’autore scriveva
in un modo come dire discretamente presuntuoso. Traspariva dalle righe il
compiacimento di saper scrivere (e questo nessuno lo nega) e quindi di voler
far vedere di essere in grado di imbastire trame complesse e di saperle
maneggiare. Ma una trama complessa necessita altre frecce, che Buticchi non ha.
Lo ribadisco dopo aver letto questo suo inedito. Intanto è della categoria dei
lunghi (su 33 libretti, più di 20 si attestano sulle richieste 60 pagine).
Inoltre impone la presenza (inutile) di due disegni della moglie che ritraggono
la goletta America ed altre immagini, che non aggiungono nulla allo scritto. La
storia, poi, è quanto mai risibile. Cerca di andare su e giù per 150 anni,
dalla costruzione della goletta che darà il nome all’omonima Coppa, che viene
costruita anche con del legno proveniente dai boschi di Salem, direttamente
dalle impiccagioni stregonesche del 1600. E questo legno maledetto porterà
sfortuna alla goletta, ed alla sua ricostruzione recente. Al solito, Buticchi
mescola invenzioni e storie vere. Vere le date e la storia della prima sfida
della coppa, il nome del secondo proprietario e la moderna ricostruzione.
Invenzioni i recuperi dei naufragi, le sfide nel golfo della Sirte (la moderna
goletta naviga solo intorno a San Diego in California) e le belle fanciulle
nascoste nelle tolde, che fanno tanto Edgar Allan Poe senza riuscirci. Di
scarsa cultura le citazioni, dove ad esempio, si mette in bocca al militare che
risponde alla regina la frase “There is no second, her Majesty”, mentre la citazione corretta è "There is no
second, your Majesty." (ipse
dixit Wikipedia). Ed il mistero che si cela nei personaggi apparentemente
cattivi è un banale gioco di parole che farebbe impallidire il mio amico Peres.
Infatti, il primo marinaio cattivo si chiama Gordon Veil! E cercando di creare
atmosfere tra Poe e Lovercraft, le pagine di Buticchi scorrono senza grande
fascino, e soprattutto, senza un vero scopo. Il Male sarà sempre sulla terra e
non saranno i mari a portarcelo via. E perché il male non sa nuotare? Se
Buticchi rispondesse a questa questione avremmo fatto passi avanti nella
comprensione di uno scritto che è scorrevole, ma come un bicchiere d’acqua
minerale naturale senza neanche un po’ di sodio o di altro sapore. Credo che,
potendo, continuerò ad evitare altre prove dell’autore.
Passata è la festa, odo augelli
far tempesta. Si disfano i presepi, si smontano alberi di Natale, si pensa alle
promesse fatte, e ci si ricorda che più del pensare poté l’agire. Per motivi
altri siamo ancora qui, e come si diceva altrove, “Hic manebimus optime”. Tanto
ci risentiamo presto.
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