venerdì 1 giugno 2012

Inediti 2, la vendetta - 06 gennaio 2012

Prima festa non domenicale dell’anno, e si continua a tramar festando. Tornando sulla collana estiva degli Inediti dei Corriere, con una seconda tornatona di racconti. Quattro di autori che già conoscevo e quattro di autori a me nuovi. I vecchi, nel bene e nel male, si confermano (e soprattutto Buticchi che non mi piacque allora né mi piace ora). Dei nuovi, mi convince Nesi (che cercherò in altre prove), e gli altri mi lasciano perplesso (con una nota negativa in modo speciale per Desiati).
Ma andiamo con ordine cominciando dal più blasonato.
Andrea Camilleri “La targa” Corriere della Sera euro 1
[in: 27/05/2011 – out: 29/08/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Continuo a leggere gli inediti che settimanalmente propone il Corriere della Sera. Tocca ora al nostro caro siciliano (che ha l’indubbio onore di essere il più presente tra i libri dei miei scaffali). È un racconto, e quindi si colloca nel filone che ha da poco visto la pubblicazione per Sellerio del “Grande Circo Taddei”. Infatti, è un’altra storia di Vigata, dove a poco a poco, libro dopo racconto, si va costruendo una cosmologia analoga ai mondi larianei di Vitali. Anche la collocazione spaziale è sempre “omogenea”, dato che il più delle volte siamo in piena epoca fascista, quasi a rimarcare che si parla del ventennio di allora come se si parlasse dell’attuale ventennio (o quasi) del buon Silvio. Cercando di tessere trame che in controluce facciano pensare ai nostri guai. Detto ciò, purtroppo, questo è il massimo della bontà che si può dire dello scritto. Che non ha molto sugo. Una storia piccola, con caratteristi piccoli e meschini, che a stento suscitano un sorriso. La lingua, è sempre quella usata nella saga di Montalbano, e chi è aduso a quella ci si trova a proprio agio (ragionevolmente). Anche se, per necessità di storia, e visto che il nostro Salvo non c’è, magari si abusa un po’ di più del dialetto. L’importante è non farsi bloccare dalle parole, ma lasciarle scorrere. Non è importante “decrittarle” ad una ad una, ma sentire la loro musica, e il senso arriverà. Ma il senso questa volta è funzionale a questa piccola storia ambientata nel giugno del ’40, tra fascisti della prima ora che forse nascondono cadaveri sotto il letto, mogli giovani in attesa (e/o in cerca) di svaghi migliori, antifascisti d’onore che poi sono un po’ inconcludenti, e ridda di alleati vari, ora con questo ora con quello, che tanto mi fanno pensare alle nostre arene montecitoriane attuali. Non manca il garante dell’ordine, che, in quanto tale, non può che ricalcare lo stereotipo del fessacchiotto presupponente. E dopo mille inutili peripezie, qualche disvelamento, ma senza troppi patemi, i vespri siciliani continueranno a rifulgere come baluardo verso l’imbarbarimento montante. Insomma una sufficiente prova di scrittura, di quelle a gettone (cioè un tanto a cartella), con molto mestiere e poco cuore. Come detto, sufficiente. E niente più.
Edoardo Nesi “Miracolo inevitabile” Corriere della Sera euro 1
[in: 25/07/2011 – out: 11/09/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
In attesa di vedere se e quando leggere del suo libro vincitore dello Strega, eccoci a leggere un raccontino di Nesi, di cui non ho peraltro letto nulla fino ad ora. Devo dire che è una bella introduzione al libro, che un po’ viene la voglia. Perché Nesi scrive bene, si fa leggere, e perché le sue ambientazioni fanno suonare corde neanche tanto antiche. Infatti, se le storie della mia gente sono ambientate a Prato, qui il racconto si svolge in Versilia. Un racconto, in realtà, fatto di molto poco. Una partita a pallone tra due squadrette di dodicenni: i figli delle ville, con le magliette tutte uguali, ed i figli delle case, ognuno con la sua camicetta ed i suoi jeans. E tutto si svolge durante un bellissimo tiro a campanile, nell’ultimo momento di gioco, che uno delle ville riesce a dosare verso la porta avversaria. In questo lungo istante, Nesi riesce a presentarci qualche storia e darci qualche spunto per il dopo (questo è sempre un punto a favore di un libro, se riesce a farmi anche pensare cosa faranno i protagonisti dopo che avrò voltato l’ultima pagina). C’è Vittorio, il capitano delle ville, sicuro di sé, ma con una madre apprensiva che lo aspetta a bordo campo per tutta la partita, e che alla fine della partita lo avvolgerà in un asciugamano per non farlo sudare. E ne vediamo già i dilemmi ed i traumi da giovane rampollo di una famiglia che ci appare ben calata nella sua borghesia. C’è Dino, il capitano dell’altra squadra, insicuro di sé, che non vuole perdere la faccia con i suoi compagni e darla vinta a quello che potrebbe (ma non è ancora, e forse non sarà mai) essere suo amico. E c’è Francesca la madre, che ha lasciato il lavoro per dedicarsi alla famiglia, e lì, nella Renault 5 in attesa della fine della partita, cullata da una Vanoni che canta “è uno di quei giorni in cui rivedo tutta la mia vita….”. E come la Vanoni cerca di fare un bilancio che non quadra. Ed infine c’è la Versilia, stesa nell’antagonismo palpabile tra una ricca Forte dei Marmi ed una proletaria Vittoria Apuana. Poco altro c’è, e non ne parlo per lasciarvi qualche briciolo di curiosità. A me ha fatto riandare alla villetta di confine, al baretto d’angolo, alle pizzette in piazza. Ed alla libreria sul Corso. Piccole cose gozzaniane, e ringrazio Nesi per avermele fatte tornare alla mente.
Mario Desiati “È proibito amare” Corriere della Sera euro 1
[in: 25/07/2011 – out: 17/09/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Non è facile per me imbattermi in un autore di cui non so nulla. Merito della collana del Corriere di farmi incontrare questo tal Desiati che, trentacinquenne pugliese di Martina Franca (ahi, che nodini di mozzarella…), pare abbia scritto un paio di libri e che fortunatamente sia anche un toro. Dopo aver letto questo suo racconto, purtroppo, non credo che andrò per il momento a cercare altro. Non che non sappia scrivere. La frase fluisce, il senso scorre, cinque anni passano in un lampo. Ma… cosa ci vuole dire? Qual è la storia che vuole rappresentare? All’inizio si pensa ad una tormentata storia d’amore, magari osteggiata da famiglie e convenienze. Poi si scopre che è sì una storia d’amore, ma quasi sempre a senso unico, che Veleno (questo il nome del protagonista) ama di sicuro ma Donatella? Poi si scopre che la Donatella di cui sopra è l’insegnante di tecnica di Veleno, che all’inizio della storia ha tredici anni. E come tutti i tredicenni è perdutamente innamorato delle sue insegnanti, soprattutto se giovani, carine, e spigliate. Poi si scopre che Donatella fa innocenti (più o meno) giochi erotici con i suoi alunni. Ed il dramma, gli psicologi, il processo, e chi più ne ha più ne metta, di turpitudini. Ma che sono cose turpi che continuano a non coinvolgere. Come non coinvolge il continuo riandare di Veleno verso questo amore pre-adolescenziale. Questo non uscirne, innanzi tutto perché va contro regole e convenzioni. Tanto che l’autore si domanda se sia proibito amare. E poi tutto va avanti nelle scarse pagine del racconto, trascinandosi senza un vero perché e finendo senza neanche mezza sorpresa o mezzo sorriso. Ma che ci volevi dire, caro Desiati? Non l’ho capito. Non ho capito perché ti scandalizzi che ci siano problemi se una donna di trenta anni circuisce un ragazzino di quindici. Certo tu li rendi estremi, ma non è facile avere un sereno rapporto d’amore quando tanti anni dividono i due partner. Ci vuole forse ironia e spregiudicatezza (magari dovresti andarti a rivedere quel bellissimo film “Harold e Maude”). Qualità che non traspaiono dalla pagina. Che mi lascia indifferente sino alla fine. Un incontro non molto fortunato, per ora.
Giordano Bruno Guerri “Ebo e Gina” Corriere della Sera euro 1
[in: 25/07/2011 – out: 18/09/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Non ho mai letto nulla dello storico di Monticiano (di ben 10 mesi più giovane dell’unico Storico cui riconosco questo titolo) per una strana reticenza verso intrasentite fanfaronate e magari altre leggende metropolitane che circondano la figura del nostro. Certo alimentate ad arte da una buona capacità di auto – elogiamento. Forse sarà che viene dalla stessa città di Luciano Moggi, quasi che in quelle rocche oscure potessero nascere solo personaggi negativi. Tuttavia, merito alla collana del Corriere che ce lo presenta in veste un po’ di storico di se stesso, con questa cronica familiare dedicata ai suoi genitori. Febo detto Ebo e Gina. Veniamo così a ripercorrere con lui, a salti e sprazzi, alcune sue storie familiari, che sembrano riportate con onestà da sessantenne, anche se poi si ha sempre il sospetto di qualche infiorettatura. Incontriamo così Nonno Giuseppe detto Pelino rude scavatore di ciocchi di montagna e Nonna Marianna detta Nanna (che tanto mi ricorda il mio personale lessico di cui parlerò un giorno sulla nascita dei nomi della mia famiglia) e i loro figli, tra cui lo scapestrato Ebo, e poi Nonna Pia e Nonno Alfredo, fino a mamma Gina. Non entra nel merito del proprio nome (già altrove il nostro inventa almeno due storie differenti su quel Giordano Bruno), ma del suo cognome sì. Perché Ebo si chiama Anselmi e Guerri è la Gina. E benché fidanzati fin da piccoli (sono nati a pochi giorni di distanza, ed anche questo mi ricorda…), al ritorno dalla guerra Ebo si invaghisce della bella Ilenia e la sposa invece della Gina. Ma Ilenia è traditrice, e vien trovata in altra alcova dai carabinieri. Siamo alla fine degli Anni Quaranta, c’è solo la separazione. Così sarà, ma Ebo, tornato solo, chiede perdono alla Gina e andrà a vivere con lei. Non c’è divorzio, allora, e quando nasce, Giordano Bruno sarà figlio di Gina Guerri e di N.N. Eccolo, allora, il nostro Giordano Bruno Guerri, che da questa spigolatura (ma poi non tanto), va su e giù per i suoi tempi privati, con momenti anche toccanti (la morte del padre, i novanta anni della madre), momenti ironici, e passaggi un po’ così, senza un vero perché. Come quando disamina la sua onestà di intellettuale con idee sia di destra che di sinistra. E qualche filippica per esortare il figlio, che può felicemente portare (ora che le leggi lo consentono) il suntuoso nome di Nicola Giordano Guerri Anselmi. Unico dato storto è che a me risulta vada prima il nome paterno, ma forse non sono aggiornato. Doppio cognome perché, dopo anni ed anni di convivenza poi Gina ed Ebo si sposano (ed anche qui mi suona familiare). Però alla fine di mordente ce n’è poco. Come detto spigolature, sensi di campagna toscana, la prima volta del mare, ed altre piccole pennellate. Forse un po’ poco per fare un racconto riuscito. Abbastanza da farne uno leggibile.
Gaetano Cappelli “L’ombra del falco obeso” Corriere della Sera euro 1
[in: 25/07/2011 – out: 24/09/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Tre anni dopo un altalenante “Parenti terribili”, eccomi di nuovo alle prese con Cappelli. Qui mi è piaciuto di più. Sarà la dimensione racconto che fa si che i suoi giochini e voletti pindarici non risentano troppa stanchezza, ma mi ha fatto sorridere, e non è poco. Intanto riportiamo il chilometrico titolo completo, tagliato dall’editore per ragioni di spazio. Infatti, il racconto si chiama “L’ombra del falco obeso e la Corvette di Springsteen ovvero Il potere delle maledizioni sul destino degli uomini con una stima molto approssimativa del loro tempo di realizzazione“. Ed è moderatamente autobiografico. Seguiamo, infatti, tal Galliano scrittore lucano (come Cappelli) che raggiunto il successo, trova una seconda giovinezza accanto alla bella Safira. Viene invitato al paese natio per ricevere un premio (essendo in denaro non ci si tira indietro). E lì, in quel di Pisticci (ah, Pierino…) ritrova i volti della sua gioventù, quelli che ha messo alla berlina nel suo libro di successo. Qui la parte migliore tra i ricordi ed il presente, con alcune riuscite macchiette di paese. Compresa la trafila per l’elezione della Miss del paese, e con qualche gustosa tirata d’orecchie alle grette usanze paesane. Certo poi si perde un po’, con quelle cornacchie ed il falco obeso del titolo che gliela tirano a lungo, mettendo il nostro autore in situazioni difficili. Ce la farà a resistere alle tentazioni della carne e dello spirito? Sarà salvato dalla misteriosa auto del Boss? Questo lasciamolo ai benintenzionati lettori. Noi rimaniamo con il raccontino decente e con qualche trovata intelligente. Rimane il sospetto che Cappelli se la tiri un po’ e questo non glielo perdoniamo molto. Certo, sarebbe anche bene che avesse (lui o il Corriere della Sera) un editor decente che eviti di trovare a pagina 88 la citazione della canzone “Gloria” attribuita immeritatamente ad un inesistente Riccardo Tozzi, invece che al corretto Umberto. Non si fanno certe sviste (o se anche questa era una trovata, mi sembra mal riuscita)!
Luca Di Fulvio “Kosher mafia” Corriere della Sera euro 1
[in: 29/07/2011 – out: 30/09/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Direi un libro intonato con il giorno della sua lettura, il Capodanno ebraico del 2011. Ma detto di questa coincidenza temporale, un’altra ne sorge che il nostro Di Fulvio ha esattamente 3 mesi meno della mia amica Rosa, stesso anno non dico quale. Ed anche lui è (è stato) attore, sceneggiatore ed altro di teatro. Poi comincia anche a scrivere romanzi, e, come dice in una bella intervista uscita qualche tempo fa, a narrare storie. Le storie non devono avere sempre un aggancio con il qui ed ora, e questa, infatti, se ne distacca alla grande. Nato dalla miriade di appunti che uno scrittore fa per preparare i suoi libri, è in realtà una costola del libro “La Gang dei Sogni” uscito 3 anni fa. Si torna quindi a parlare dell’America dei primi anni del secolo. Qui, come si intuisce dal titolo, di quella parte che fa riferimento alla cultura ebraica. Assistiamo così allo scontro titanico tra due giovani, figli di due amici fuggiti dai pogrom russi del 1905, che ora nell’America in crescita cercano la loro strada. Kid si associa ai gangster ed ai violenti. Sholem diventa sindacalista per proteggere gli operai (ebrei) dalle angherie dei padroni (ebrei essi stessi). Ed è Sholem che ha l’idea che (come dimostrerà la realtà perché qui è finzione, ma non lontana dalla verità storica) per proteggere gli operai dai gangster assoldati dai padroni, bisogna assoldare gli stessi gangster, pagandoli di più. Così sarà nella realtà, dando vita a quel sindacalismo mafioso che ben conosciamo dall’interpretazione di Jimmy Hoffa da parte di Jack Nicholosn. Nel racconto, rimaniamo nel piccolo, perché quello che preme di più a Di Fulvio è la lotta tra Kid e Sholem che difficilmente potrà avere dei vinti e dei vincitori. E nel pendant dell’amicizia tra i padri, che si sentono colpevoli di essere sopravvissuti ai pogrom, e che vedono i loro figli combattersi e combattere e non ne capiscono i motivi. Ebrei con la testa altrove, direi. Tutto qui, niente di più approfondito e di più coinvolgente. Un raccontino scorrevole, con qualche idea, ma poche trovate da “colpo di scena”. Si legge. Ed ha l’unico e non banale pregio di farmi chiedere, ma chi è questo Di Fulvio?
Marco Malvaldi “Sol levante e pioggia battente” Corriere della Sera euro 1
[in: 03/08/2011 – out: 07/10/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Non è il BarLume e non è un racconto, ma a me continua a piacere la scrittura di Malvaldi, anche in questo non-libro di confronti tra Olanda e Giappone (e guarda caso, scaturito a ritroso da una cosa che avevo subodorato fin dall’inizio, che attiene allo sport e di cui ho già detto troppo, e vediamo se qualcuno ci arriva). Anche se decolla a fatica (soprattutto per me, che devo passare attraverso il narrare della sua fatica di viaggiare; ma come? È la cosa più naturale… Vabbè, ne riparleremo) poi prende il largo attraverso una serie di spigolature. Sulle due lingue, sulle tipologie “l’olandese”/”il giapponese”; sulle diversità, ma anche, sorprendentemente, sulle similitudini. Forse le due cose migliori sono il racconto sull’ossessionante gentilezza nipponica (che se gli chiedi una strada, al limite ti ci portano a piedi pur di essere gentili) e sull’altrettanto ossessionante tirchieria nederlandese (quella che sostituisce i campanelli elettrici con delle cordicelle… per risparmiare elettricità!). E poi, gli altri momenti ilari: quello dell’agglutinamento delle parole fiamminghe, che produce il fantastico “plimplemplotteln” (cioè il gioco di tirare sassi sull’acqua per farli rimbalzare) e la fantasia nipponica che produce il verbo “kakekomijosha”, cioè affrettarsi ad entrare nella metropolitana mentre le porte si stanno chiudendo. E che dire dei cognomi? Entrambi i popoli sono recenti nel loro uso (Settecento per gli olandesi e fine Ottocento per gli orientali). Ed anche se si ricorda un tale Rembrandt Harmenszoon va Rijn (Rembrandt figlio di Harmen che vive vicino al Reno) l’obbligo napoleonico ad usare il cognome porta lo spirito ribelle dei locali ad usarne di strampalati come Slettenhaar (Capelli di Troia, che da una mia ricerca nasce con tale Lambert op de Slettenhaar nato intorno al 1638 a Zuna). Mentre i nipponici più poetici, quando l’Imperatore ne impose l’uso, scelsero nomi come Yamamoto (ai piedi del vulcano) o Inaoue (ai bordi del pozzo). Non vi svelo i misteri del cibo e della toilette dei due popoli, che dovete scoprirli da soli (così come il mio quesito iniziale). Insomma, gradevole lettura, per non essere niente altro che una scrittura di un racconto tra amici, intorno ad un bicchiere di rhum ed una tavoletta di cioccolato.
Marco Buticchi “Evil” Corriere della Sera euro 1
[in: 10/08/2011 – out: 11/10/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2011]
Anni fa lessi il suo primo libro “La pietra di luna” e trovai che l’autore scriveva in un modo come dire discretamente presuntuoso. Traspariva dalle righe il compiacimento di saper scrivere (e questo nessuno lo nega) e quindi di voler far vedere di essere in grado di imbastire trame complesse e di saperle maneggiare. Ma una trama complessa necessita altre frecce, che Buticchi non ha. Lo ribadisco dopo aver letto questo suo inedito. Intanto è della categoria dei lunghi (su 33 libretti, più di 20 si attestano sulle richieste 60 pagine). Inoltre impone la presenza (inutile) di due disegni della moglie che ritraggono la goletta America ed altre immagini, che non aggiungono nulla allo scritto. La storia, poi, è quanto mai risibile. Cerca di andare su e giù per 150 anni, dalla costruzione della goletta che darà il nome all’omonima Coppa, che viene costruita anche con del legno proveniente dai boschi di Salem, direttamente dalle impiccagioni stregonesche del 1600. E questo legno maledetto porterà sfortuna alla goletta, ed alla sua ricostruzione recente. Al solito, Buticchi mescola invenzioni e storie vere. Vere le date e la storia della prima sfida della coppa, il nome del secondo proprietario e la moderna ricostruzione. Invenzioni i recuperi dei naufragi, le sfide nel golfo della Sirte (la moderna goletta naviga solo intorno a San Diego in California) e le belle fanciulle nascoste nelle tolde, che fanno tanto Edgar Allan Poe senza riuscirci. Di scarsa cultura le citazioni, dove ad esempio, si mette in bocca al militare che risponde alla regina la frase “There is no second, her Majesty”, mentre la citazione corretta è "There is no second, your Majesty." (ipse dixit Wikipedia). Ed il mistero che si cela nei personaggi apparentemente cattivi è un banale gioco di parole che farebbe impallidire il mio amico Peres. Infatti, il primo marinaio cattivo si chiama Gordon Veil! E cercando di creare atmosfere tra Poe e Lovercraft, le pagine di Buticchi scorrono senza grande fascino, e soprattutto, senza un vero scopo. Il Male sarà sempre sulla terra e non saranno i mari a portarcelo via. E perché il male non sa nuotare? Se Buticchi rispondesse a questa questione avremmo fatto passi avanti nella comprensione di uno scritto che è scorrevole, ma come un bicchiere d’acqua minerale naturale senza neanche un po’ di sodio o di altro sapore. Credo che, potendo, continuerò ad evitare altre prove dell’autore.
Passata è la festa, odo augelli far tempesta. Si disfano i presepi, si smontano alberi di Natale, si pensa alle promesse fatte, e ci si ricorda che più del pensare poté l’agire. Per motivi altri siamo ancora qui, e come si diceva altrove, “Hic manebimus optime”. Tanto ci risentiamo presto.

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