giovedì 5 gennaio 2012

Italiani, che passione! - 26 luglio 2009


Mi rivolgo ancora ai miei assidui lettori che sanno della mia seconda passione, o meglio, mania. L’autore italiano! Quando mi trovo davanti un libro di autore italiano, è difficile arrestarsi. Perché è scritto nella mia lingua, quindi penso che mi possa offrire tutte quelle sottigliezze che le traduzioni mi negano. Perché leggendo e leggendo della nostra Italia, me ne faccio una foto, me la porto in testa, cerco di capirla e capirmi. Ed anche capire da dove siamo venuti. Come in questo caso, dove, a fronte di due autori maschietti con il loro primo libro, quindi, forse un po’ datato, ma specchio di anni poi non tanto lontani, c’è anche la donna recente, regalo forzato - richiesto di Paola. Andiamo avanti però al solito, in ordine di lettura.
Giuseppe Ferrandino “Pericle il Nero” Adelphi euro 7
Un po’ datato, un noir italiano, hard boiled alla napoletana, ma senza sorriso. Tanta malinconia o qualche sentimento analogo. Si sente subito che Ferrandino viene dal fumetto, ed il racconto scorre come una sceneggiatura dove mancano solo i quadri per darne il contesto giusto. Si sente inoltre che il racconto ha più di dieci anni. Ma detto questo, non sono d’accordo con la critica che ne parlò si bene, ma come un racconto esile. Certo non ha una trama spessa, ma seguiamo la parabola di Pericle, camorrista usato per “convincere”. I giochi e i giochetti con i piccoli e grandi truffatori del sottobosco napoletano. Lo sgarro che lo mette in periclo (sarebbe pericolo, ma non potevo esimermi dal gioco di parole), e decide di sparire. Forse attraverso il sesso troverà anche un amore (giustamente lasciato all’immaginazione del lettore). Quello che viene fuori è invece il percorso verso il riacquistare dell’umanità, uscendo dal torbido gioco dei vicoli napoletani, per arrivare, sulle sponde dell’Adriatico, a ritrovarsi riuscendo a rifiutare le regole del suo vecchio mondo. A me è piaciuto, proprio per questo andare un po’ svagato, trovandosi, quasi senza saperlo, lì dove altri arrivano con percorsi tormentati e duri. Bello infine l’uso della lingua napoletana, presente ma misurata (e da un ischitano non ci si aspettava di meno).
Come detto, poi si passa alla donna.
Rosa Matteucci “Libera la Karenina che è in te” Adelphi s.p. (regalo di Paola)
La prima Rosa che ho letto, quella di “Cuore di mamma” mi era piaciuta e mi ha fatto anche sorridere. Poi “Lourdes” non era proprio alla stessa altezza (anche se è il suo primo). Questo, che è il secondo, è forse il più involuto di tutti. L’idea in sé non è neanche bruttina: l’innamoramento di un tizio senza nessuna ragione mentale. Lei è bella, colta, intelligente. Lui ha solo muscoli. Ma lei parte con la testa, e rischia di perderla con tutto il resto. Di lato, un altro lui che forse è solo un amico, ma che assistendo alle vicende, a poco a poco, scopre che quello che sta aspettando è di innamorarsi della donna. E via con gelosie, ripicche, struggimenti di telefonate che non arrivano, e tanti altri “luoghi comuni dell’innamoramento”. La Matteucci cerca di metterci dell’ironia (la donna vuole morire sotto un treno come l’Anna del titolo, peccato che la ferrovia sia in disuso) ma non è proprio il massimo. Il tutto collocato in una calda Eritrea, che forse è la cosa migliore di tutto il libro. Tra l’altro con quell’uso estenuante di perifrasi, per cui la protagonista viene sempre chiamata “la donna”, il belloccio è “il soldato” ed il geloso è “ il ragazzo che aspettava qualcosa”. E dopo un po’ questo finto gioco viene un attimo a noia. Peccato, le premesse c’erano. Forse anche un bel corpo di testo. Al solito, quello che meno mi piace sono i finali della Matteucci, con improbabili conclusioni che vorrebbero essere catartiche, ma che vanno fuori dei registri del resto.
“la donna … non capiva … quanto lui le mancasse. Era dunque necessario un incontro… [ma] lei non capiva se voleva farlo o doveva” (17-18)
“egli aveva la così detta ‘mano elementare’: tozza, con palmo largo, dita e unghie corte. Poco segnata da linee, con la prima falange del pollice rivolta all’indietro, tipica degli individui di poca fantasia che difficilmente dominano le loro passioni. Soggetti sensibili al dolore e facili allo scoraggiamento, che hanno qualche astuzia istintiva ma difettano di aspirazioni elevate” (46)
E finiamo con il calabrese.
Carmine Abate “La moto di Scanderbeg” Mondadori euro 8,80 (in realtà, scontato 7,04 euro)
Anche Abate, come De Luca, seppur in modo diverso, gira che ti rigira, scrive sempre la stessa storia. O meglio la stessa saga: la storia della sua patria calabro - albanese. Ripubblicato da poco, questo è il secondo libro sugli “arbëresh”, gli albanesi di Calabria. E viene prima di quello da me già recensito “Tra due mari”. Nello specifico, mi è piaciuto, un po’ come l’altro, per quello slancio civile che è sempre presente tra le righe. Qui forse, meno tra le righe, visto che Scanderbeg padre non fa che girare per le campagne a sostenere le lotte dei contadini per la loro terra. Lo fa sulla moto, che diventa poi il filo conduttore del libro, la Guzzi Dondolino che poi passerà al figlio e sulla quale il figlio sigillerà le ultime pagine per andare… dove? Ritornare in Germania al suo lavoro di redattore free lance ad una radio? Ritornare da Claudia, il suo amato-odiato amore da cui ogni volta si avvicina e poi si riallontana? In fondo si sente la sconfitta di chi non ha casa né in Calabria né in Germania (sempre sul filo dell’autobiografia). Per poi riempire le pagine anche di figure ben riuscite, da Scanderbeg del Tempo Grande che guidava gli Albanesi contro i turchi, alla madre Lidia, sempre e per sempre innamorata del suo Scanderbeg che ricostruisce i fili della memoria, all’inquietante Stefano che vede nel futuro e scrive del passato. Fino allo zio Mario ed al suo impossibile integrarsi nel mondo tedesco, di cui pur nota le positive differenze con la vita di giù. Forse la fine mi sarebbe piaciuta più incisiva, ma credo che ne leggerò altri, per vedere un po’ di questo mondo di doppi emigranti (emigranti in patria e fuori, e comunque mai integrati).
“Claudia scuote la testa e mi sorride coi suoi occhi blu luminosi come si sorride ad un bambino insistente. Dice ’Lo sai già cosa ti rispondo, perché me lo chiedi, perché sei così ostinato?’” (50)
“mi sembrava che non facessi niente per bene, neanche l’amore. Mi sembrava di perdere tempo per delle sciocchezze” (78)
“le grido i bei momenti passati insieme, le accarezzo la mano, cerco di commuoverla con gli occhi umidi, faccio l’isterico alla perfezione; allora lei mi stringe per un attimo sul suo petto caldo, ma non appena mi sono calmato e illuso, mi dice che è tutto finito” (94-95)
“mi hai fregato per anni, hai sempre saputo camuffare il tuo egoismo; invece pensi solo ai fatti tuoi. Te l’avevo detto: l’amore bisogna curarlo, come una pianta, altrimenti si secca, muore. Tu non l’hai saputo curare, il nostro amore. E ora è morto. Perciò ti prego, non cercarmi mai più. Non voglio più vederti, ci faremmo solo del male” (95)
“L’uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è l’uomo per cui l’intero mondo è un paese straniero (Ugo di San Vittore)” (127)
“vi state complicando la vita, ma vi amate. Questo è importante. Il dramma è quando non ci si ama più. Ora devi decidere tu. Non puoi continuare all’infinito a fare l’adolescente. Hai trentadue anni [sic!!!]” (177)
Due settimane mancano per quel di Amman e Gerusalemme. I preparativi fervono, e come diceva il poeta risorgimentale, la fame avanza, il bacio manca, sul ponte sventola bandiera bianca (come maestro di ironia avrei una carriera dietro le spalle). Ma tant’è, qui siamo e qui restiamo

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