Visto che non sono ancora riuscito ad organizzare un
giro verso il grande Nord, la lettura della giallista norvegese, mi consente di
chiudere il trio di trame cominciato a dicembre 08 e di cui non si vedeva la
fine. Sì perché oltre ad avere il mio sistema di lettura (che fortunatamente
pochi conoscono) ho anche la pazienza di ordinare le trame in terzetti affini,
magari lasciandone decantare alcune per mesi (tanto non hanno scadenza). Così,
dalla prima lettura di Sjowall e Wahloo di dieci mesi fa non riuscivo a trovare
un terzo elemento. Ora ci sta, nell’omogeneità non solo logistica, ma di
affinità di intenti: l’uso del poliziesco per mettere a nudo elementi
contraddittori della società in cui si vive.
Ricominciamo quindi con la coppia svedese (sperando
che prima o poi Sellerio decida di finire la pubblicazione dei dieci romanzi
del commissario Beck).
Maj Sjowall e Per Wahloo “Omicidio al Savoy” Sellerio euro 14 (in
realtà gratis con Feltrinelli+)
Questa è la sesta inchiesta del
commissario Beck, su cui non torno per spiegare l’idea, bella e foriera di bei
romanzi, della coppia svedese di usare per primi il romanzo giallo come
descrizione e critica della società. Intanto comincia con i punti negativi, per
cui, ad esempio, non si capisce perché la seconda inchiesta sia stata saltata.
Secondo, la coppia aveva deciso programmaticamente di pubblicare 10 libri. Così
ha fatto, e che poi poco dopo Wahloo sia morto non intacca l’idea di base.
Venendo al contesto, poi, i primi tre dovevano essere molto legati al giallo in
quanto tale, e gli altri a poco a poco iniziare a criticare il falso mondo
socialdemocrazia svedese. Questo è già su questa riga, ma lo fa con poco
spessore. Si c’è un omicidio, nelle balle sale dell’Hotel Savoy a Malmoe, c’è
un morto che più capitalista e sfruttatore di così non si può. Non solo, è
anche un trafficante internazionale che fa affari con nazioni che allora
(inizio anni ’70) erano al bando della società (Rhodesia, Mozambico,
Portogallo). Questo rende il tutto molto datato e privo di sprint, che
inutilmente si cerca di ravvivare con un prologo di Camilleri, il loro
ricopritore (che come ricorderanno i miei fedeli lettori, in un suo romanzo fa
leggere a Montalbano il primo libro di Beck, Roseanna). I caratteri si
approfondiscono. I poliziotti di contorno, non pedine, ma poliziotti veri,
prendono il loro posto. L’alter-ego di Beck, l’ex-moglie del poliziotto che
rideva morto un paio di libri prima, i due imbranati pattugliatori che sempre
peggio combinano disastri. Ma la storia si avvia verso la soluzione senza
sussulti, senza neanche che il lettore sia invitato a capire perché si va verso
quel finale. In conclusione un libro di scrittura godibile, ma di resa
discutibile. Un salmone con troppo aneto, per i gusti di noi del Sud.
Dopo 6 mesi ho quindi affrontato
la seconda (in ordine cronologico) inchiesta del commissario.
Maj Sjowall e Per Wahloo “L’uomo che andò in fumo” Sellerio euro 13 (in
realtà gratis con Feltrinelli+)
Questa, invece, pubblicata per
ultima (almeno per ora) è la seconda inchiesta di Martin Beck. Vogliamo tornare
sulle scelte assurde dell’industria editoriale italiana? Forse sarebbe meglio
stendere un pietoso velo di silenzio, tuttavia una buona parte dei piaceri di
storie seriali si perdono andando avanti e indietro nel tempo. Qui ad esempio,
incontriamo di sfuggita due poliziotti di pattuglia che ritroveremo più avanti
nelle storie e ben più imbranati. Ed anche i personaggi-poliziotti hanno alcuni
caratteri poco accentuati e verranno precisati più avanti. Tra l’altro, essendo
al secondo libro, nella genesi della storia, è ancora una storia più poliziesca
che sociale. C’è un più o meno giallo con la scomparsa di un giornalista beone
e attaccabrighe. Il buon Martin costretto a rinunciare alle vacanze per seguire
il caso (e solo più avanti vedremo quali guasti questo può portare). Il solito
commissario straniero prima burbero poi si scopre efficiente ed empatico. E
visto che gran parte del romanzo si svolge a Budapest anche un po’ di critica a
quel paese allora al di là della cortina, noto (allora?) soprattutto per le
donne di facili costumi. Visto che siamo alla metà degli anni sessanta, poi,
qualche chicca di contorno come il fumare sugli aeroplani(!). Qui si apprezza
il lato “umano” della polizia, questo seguire le indagini e mostrare che i
poliziotti sono umani, i loro percorsi mentali seguono binari non fantastici
per cui si trovano soluzioni miracolose. Ma routine, scambi, accumuli e
qualcuno che riesce a far funzionare i suoi due neuroni. Quando nel suo albergo
sul fiume Martin non sa che pesci pigliare, vediamo proprio questo: ci sono
momenti nelle indagini in cui non si sa cosa fare. E quest’opera di umanizzare
la polizia, compito dei primi tre libri della serie, è ben impostata. La
conclusione poi, pur senza grandi fuochi pirotecnici, è anch’essa plausibile e
oserei dire normale. Insomma, sempre leggibili, a parte la nota iniziale di
biasimo. Speriamo ora che si decidano a pubblicare la settima, l’ottava e la
decima storia.
Quindi ho divorato nell’ultima
settimana le più di quattrocento pagine della norvegese.
Anne Holt “Quello che ti meriti” Einaudi
euro 12 (in realtà scontato 8,40 euro)
All’inizio
mi è sembrato un po’ duro da ingranare. E poi era già pieno di elementi
dolenti: rapimenti di bambini, mamma con figlia autistica (o quasi). Poi dopo
la metà prende quota, ed a parte un elemento un po’ macchinoso del sottofinale,
la parte conclusiva è scoppiettante, piena di ritmo, di inventiva, e di quasi
tutte le spiegazioni necessarie. La Holt è comunque un personaggio
interessante, omosessuale con figlia, avvocato ed ex Ministro della Giustizia.
Scriveva prima di entrare in politica ed ha continuato dopo. Come narrato ben
si inserisce nel filone scandinavo – sociale, alla Sjowal e Whaloo, perché ce
ne sono di spunti critici sul (mal-) vivere moderno. Uno su tutti la ricerca
parallela della soluzione ad uno che, se fossi un patito della TV, chiamerei
“Cold Case”. Uno stupro di bimba avvenuto una cinquantina di anni prima, ma il
cui allora colpevole ha tutta l’aria di essere innocente. È lì un po’ di
altarini sul malfunzionamento di un certo tipo di giustizia e di potere vengono
presi di mira. Inoltre, come per gli svedesi, i personaggi sono in realtà
persone, che vivono e si muovono nel loro quotidiano, senza quelle dosi di
singolarità che in genere hanno i personaggi dei polizieschi. Vik è separata
dal marito perché le loro visioni del mondo non erano sincrone. Stubø ha
sofferto una grave perdita ma continua a tirare avanti. Alvhild sta per morire,
ma continua a pensare alla verità. Aksel troverà alla fine il modo di
riprendere a dormire sereno, facendo tutti gli sforzi per dare serenità anche
ad Eva. E così via. Muovendosi per questa normale Norvegia degli anni ’90,
cominciando con quell’ondata di crimini che colpiscono bambini, rapiti e uccisi.
Senza tracce e senza una ripetitività che lasci presagire un serial killer. Ma
Vik intuisce, anche se non scopre, che deve esserci un legame. E poi… .
Insomma, buona la scrittura, anche se come detto stentava a decollare. Buona in
fin dei conti la trama, anche se l’incidente d’auto che scatena tutte le
soluzioni lo trovo un po’ macchinoso. Sono indeciso se leggere d’altro (anche
se della Holt lessi negli anni ’90 il suo primo libro “Sete di giustizia”
uscito per una benemerita collana della Hobby&Work dedicata agli autori
europei di gialli, contro il solito strapotere della letteratura anglosassone).
Ed
ora via in una settimana di passaggio tra la fine dell’estate e l’inizio
dell’autunno, tra le prossime partenze per il Qatar, i ritorni compleannicoli
da Abu Dhabi e qualche racconto egiziano, nell’attesa di pensare/organizzare
qualcosa per questa fine dell’anno che poi si avvicina a grandi passi.
Nessun commento:
Posta un commento