Alexander McCall Smith “44 Scotland Street” TEA euro 8,60 (in realtà,
scontato 6,02 euro)
[in: 22/01/2011 – out: 05/05/2011]
[tit. or.: 44 Scotland Street; ling. or.: inglese; anno 2005]
Credo che abbia sempre più
ragione la mia amica Chiara: McCall va letto in originale, che scrive in modo semplice
ed in bell’inglese. Tradotto, è un po’ vago: non succede nulla, e si va avanti
per più di 300 pagine aspettando un intreccio. Che non c’è, perché quello che
c’è sono solo dei bozzetti di vita scozzese. Leggendolo si rimpiangono le
avventure della filosofa Isabella dove succede tanto poco che rispetto a questo
sembra di leggere Tolstoj (come massa di avvenimenti non come scrittura). Certo
il lato etico dello scrittore rimane anche in questi bozzetti (e ne sono
testimone le lunghe frasi che mi rimangono sulla penna). Ma la storia è
praticamente nulla. Una bella ragazza Pat va a vivere in un nuovo appartamento
(quello del titolo) per essere indipendente e trovare una sua via.
L’appartamento è condiviso con tre persone, due non arrivano sino alla fine del
libro (non è che muoiono, sono solo in viaggio). L’altra è il bel Bruce, che sa
di esserlo e fa il bello ed il cattivo tempo con le donne. Con Pat, che prima è
attirata e poi (giustamente) se ne allontana. Ma anche con Sally o con la
moglie del suo capo. Nel condominio vivono anche l’anziana Domenica,
un’antropologa in ritiro, ed il piccolo Bertie che la madre vuole “fenomeno”
tanto da fargli suonare il sassofono a cinque anni. Pat trova un lavoro nella
galleria di Matthew, un inconcludente signorotto messo lì dal padre tanto per
non nuocere. Ci sono alcune storie su dei quadri che vanno e vengono in
galleria, sull’indolenza di Matthew, sul narcisismo di Bruce. E soprattutto,
pagine di vita quotidiana ad Edimburgo (ma ci potrà andare prima o poi?). E poi
tutto finisce, sospeso in una bolla di sapone, senza che sia successo nulla, in
realtà. Abbiamo solo fatto conoscenza di alcuni personaggi, che, forse, faranno
parte di una nuova saga dello scrittore oriundo zimbabwese, come quelle, ormai
ben lunghe di Precious Ramotswe (di cui ho letto un capitolo, ma non mi è
piaciuto) o di Isabel Dalhousie (di cui ho letto tutto, che mi piace
soprattutto per il lato etico, ed ancor di più quando ho scoperto che ha lo
stesso nome della cittadina dello Sri Lanka ai piedi del Picco di Adamo). Ma
alla fine dei conti, la sua scrittura è gradevole, e si passa piacevolmente
qualche ora in compagnia della pioggia scozzese e dei suoi whiskey.
“Capiva quando una si stava innamorando di lui. Era il modo in cui lo
guardavano, leggermente fuori fuoco. Doveva essere una reazione chimica.
L’effetto dei ferormoni faceva appannare gli occhi delle donne. Era strano, ma
l’aveva notato tantissime volte quando le donne lo guardavano.” (203)
“- Perché la gente fotografa? … - Perché non è capace di guardare
quello che ha davanti agli occhi e soffermarsi a pensarci per più di due
secondi. È un segno di distrazione. Vedono, fotografano e passano oltre. Vedono
ma non guardano.” (220)
“Davvero aveva ancora in mente quelle cose, a cinquant’anni? Era triste
pensare che desiderasse ancora la compagnia di ragazze come Sally perché in
quel caso era condannato a smaniare per persone che inevitabilmente erano
interessate a uomini più giovani e non a lui. Non che fosse brutto, anzi, e gli
avresti dato qualche anno meno, forse poteva anche passare per un quarantenne.”
(259)
“Sebbene non si possa dimostrare che siamo liberi, dobbiamo comportarci
come se il libero arbitrio esistesse, perché altrimenti la vita sociale sarebbe
impossibile.” (262)
“Lui sapeva cosa voleva dire amare senza speranza e sapeva che l’unico
modo per affrontare lo sconforto era guardare in faccia la propria infelicità.
Ed era importante capire, pensava, che l’ultima cosa che l’infelice desidera è
sentirsi ricordare le sofferenze più grandi della sua. Dire a una persona col
mal di denti che altri hanno un mal di denti peggiore non è di nessun aiuto.”
(268)
“- Non ci si può impedire di provare qualcosa per un’altra persona. Non
si può e basta. … - Oh, si che si può. … Ci si può benissimo impedire di amare
qualcuno. È sufficiente cambiare il modo di guardarlo.” (279)
“- Sono così sollevata di non
dover vivere in un paese noioso. – Per esempio?... – Il Belgio … Il Belgio è
noiosissimo…. Non ho mai capito a cosa serva il Belgio.” (271)
“Direi che ha un disturbo narcisistico della personalità. Si tratta di
persone molto interessanti. Non sono necessariamente cattive, anzi, ma il modo
in cui trattano gli altri può rivelarsi distruttivo.” (307)
Andrew Sean Greer “La storia di un
matrimonio” Adelphi euro 10
[in: 04/03/2011 – out: 20/05/2011]
[tit. or.: The Story of a Marriage; ling. or.: inglese; anno 2008]
Un
libro poco noto di un altrettanto poco noto autore. Forse promette un po’ più
di quanto mantiene, ma ha sicuramente una serie di colpi di scena interessanti,
dal primo all’ultimo capitolo. Che il libro è diviso in alcuni (non vi dico
quanti) capitoli; e ad ogni capitolo abbiamo un colpo di scena, un cambio di
prospettiva, insomma qualcosa che ci (dovrebbe) sorprendere. Almeno è così
all’inizio, poi, in realtà, ce lo aspettiamo. L’autore è un quarantino
californiano, di cui Adelphi aveva mandato alle stampe un racconto (La ballata
di Pearlie Cook) che è poi all’origine del romanzo. Romanzo pubblicato
sull’onda del successo del racconto (come candidamente lascia intendere
D’Orrico nella quarta). Purtroppo la dilatazione non è stata indolore. E,
seppur sempre un romanzo interessante, forse è proprio la lunghezza il suo
punto debole. Uno dei migliori pregi del romanzo, comunque, è che si svolge
quasi tutto nel 1953, annus mirabilis. Immerso nell’atmosfera pienamente
americana, la guerra mondiale è finita da poco, ma siamo nel pieno della guerra
di Corea, imperversa il maccartismo, e i Rosenberg stanno per essere
giustiziati. In una San Francisco ancora costruenda (da poco ci sono i ponti
sulla baia) si srotola la storia di Pearlie Cook, del suo matrimonio con
Holland, dell’amicizia con Buzz, del figlio Sonny. E la storia di Pearlie
diventa la storia (anche) del rapporto con la guerra, con chi parte e ne rimane
sconvolto (se non ucciso) e di chi si rifiuta e viene “sconvolto” dal sistema
americano. Su questi binari fragili, si innescano i piccoli e grandi terremoti
che sono in grado di distruggere la vita di Pearlie. Ed a questi terremoti, lei
risponderà con le sue capacità, cercando sempre di essere sé stessa, senza
chiedere mai (qualcuno in altri libri, dice che chiedere è sempre un atto di
coraggio…). Ci riuscirà Pearlie? Come finirà la storia di Annabelle? E di tutti
gli altri piccoli o grandi personaggi che attraversano questo difficile anno?
Sappiamo solo che una quarantina di anni dopo, Pearlie è ancora viva, perché
comincia a raccontare la sua storia. Il resto lo scopriamo pagina dopo pagina.
In fin dei conti, un interessante intreccio di domande, che, per molta parte
del libro, si fondono sulla ritrosia di tutti ad affrontarne le risposte. Una
gigantesca saga del non detto. Sulla quale continuerò, non dicendo altro di
quel che succede, pensando solo a ragionare, come fanno non dicendolo i
personaggi, su cosa sia l’amore (per l’altro, per sé, per la vita, insomma,
l’amore con la A maiuscola). In definitiva, interessante, come tutti i libri
che fanno pensare. Non riuscitissimo (ho già detto, un po’ lungo). Un’ultima
domanda, ma al traduttore: quando le ragazze nel treno a pagina 150 indossano
golfini gemelli, è forse che hanno messo su qualche “twin-set”? Dovrò chiedere
a qualche esperta di moda…
“Crediamo tutti di conoscere la persona che
amiamo, e anche se non dovremmo stupirci quando scopriamo che non è vero, ci si
spezza il cuore lo stesso. È la scoperta più difficile, non tanto sull’altro,
quanto su noi stessi. Vedere che la nostra vita è una nostra invenzione;
l’abbiamo scritta noi e ci abbiamo creduto. La sensazione che ho provato quella
sera …. è stata di tremenda solitudine.” (52)
“C’è forse libertà più grande che
dimenticarsi la propria casa?” (135)
“Non si può stare ad aspettare che la gente
capisca sé stessa: si aspetterebbe per sempre. Metà della vita è sapere cosa
vuoi” (196)
Paul Auster “Timbuctù” Einaudi euro 10,50
[in: 29/12/2010 – out: 16/08/2011]
[tit. Timbuktu; ling. or.: inglese; anno 1999]
Ecco un libro con curiose storie
che si intrecciano, prima che se ne parli nel merito. Lo comperai durante le
ultime vacanze natalizie per l’autore, che amo dai tempi della trilogia di New
York (grazie Luana) e per il titolo che mi rimandava al luogo del mito nel
deserto ed al viaggio in Mali. Null’altro ne sapevo, poiché si sa che non leggo
la quarta di copertina prima di leggere il libro. La seconda storia riguarda la
lettura. Nella torrida estate romana, in attesa di partire per la Scandinavia,
avevo appena finito di leggere un libro dello svedese Nesser dal titolo “L’uomo
senza un cane”. Decido quindi di prendere questo agile Auster, per passare il tempo
nelle lunghe ore di volo verso Capo Nord. Ebbene, dopo un autore scandinavo con
quel titolo, mi vado a leggere in Scandinavia un libro che, se non si chiamasse
Timbuctù, potrebbe intitolarsi “Il cane senza un uomo”. Perché questo è poi in
realtà il lungo monologo di Auster. Il monologo di un cane che narra le sue
vicende e le sue sensazioni, cominciando dal rapporto con il suo storico
padrone, che per una serie di motivi sta morendo. Padrone vagabondo, ed un po’
alternativo (ma forse solo ubriacone e un po’ fumato), che sentendo la sua
morte approssimarsi cerca di sistemare l’unico amico che ha, il suo cane Mr.
Bones. Ma sappiamo ben presto che è un tentativo destinato al misero
fallimento. Tuttavia vediamo il cane che cerca di aiutarlo, che capisce pericoli
e situazioni, e che, una volta compresa la fine ineluttabile, decide e cerca di
salvarsi da solo. Siamo ad inizio estate, e trova facilmente un nuovo amico, un
figlio di immigrati cinesi, senza amici, che lo elegge a suo partner, anche se,
per contrasti con la famiglia, non può tenerlo né in casa né in giardino. Si
inventa situazioni di ripiego per tutta l’estate, ma all’inizio delle scuole
Mr. Bones sarà costretto a fuggire, inseguito dal padre cinese cattivo. E
finirà tra le braccia amorevoli di una nuova famiglia, che lo cura, lo accoglie
e ne capisce la potenziale intelligenza. Anche qui il maschio della famiglia è
quello meno favorevole, ma cede alla moglie ed alla figlia. Saranno queste che
daranno un senso ai suoi mesi invernali (e viceversa). Ma se per il Natale
vanno altrove, lui si dovrà adattare ad un canile. Mr. Bones non se la sente di
essere rinchiuso di nuovo, anche perché sente la sua di fine vicina. E farà
delle scelte. Ma non vi dico quali. E che c’entra Timbuctù? È la città mito per
il primo padrone, che inventa tutta una favola, dove in quella città cani ed
umani comprendono le rispettive lingue e possono comunicare senza
intermediazioni e/o interpretazioni. Tutto il romanzo è in realtà una bella
allegoria della condizione umana, vista con gli occhi di chi umano non è. Non è
un caso che i buoni siano le donne. Non è un caso che il grande dibattito nei
sogni di Mr. Bones è tra la vita comoda attuale e quella raminga di prima.
Dibattito con se stesso per capire se ora tradisce quella o se questa è una
positiva di evoluzione. Dibattito che vedo nella testa dello scrittore, tra
libertà e regole, comodità e disagi. Senza unire i primi ai secondi e senza
darne giudizi di valore.
“È tutto quello che ho sognato… Migliorare il mondo. Portare un po’ di
bellezza negli angoli grigi e monotoni dell’anima. Ci puoi riuscire con un
tostapane, ci puoi riuscire con una poesia, o tendendo la mano a uno
sconosciuto. Non importa la forma. Ecco, lasciare un mondo un po’ migliore di
come l’hai trovato. È la cosa più bella che possa fare un uomo.” (50)
Carlos Ruiz Zafon “Il palazzo della
mezzanotte” Mondadori euro 13 (prestito di A.)
[in: 24/08/2011 – out: 26/08/2011]
[tit. or.: El Palacio de la Medianoche;
ling. or.: spagnolo; anno 1994]
Ancora
un libro del nostro amico barcellonese. Ed ancora una volta con qualche
mondadoriano lancio per cercare di attrarre. Perché in realtà il libro ha quasi
venti anni sulle spalle. Ed è stato scritto da Ruiz Zafon sull’onda dei primi
scritti, diciamo dedicati ai giovani in cerca di avventure, piuttosto che di
respiro ampio e generalizzato. Diciamo inoltre che la mia impressione, dopo la
lettura di almeno 3 suoi libri, è che il suo passo sia questo. Sia cioè una
scrittura dedicata agli adolescenti, e che, talvolta, può catturare anche “i
grandi” (vedi ad esempio la fortuna delle prime avventure di Harry Potter).
Inoltre, la prima parte del libro è financo decente. Una storia ambientata a
Calcutta, tra ragazzi abbandonati in quella che ancora è una colonia inglese.
Inciso: e chi è stato a Calcutta può caprine le descrizioni del degrado; e chi
è stato in India può capire le descrizioni dei treni e delle stazioni. Ragazzi
che per mutualmente sostenersi costituiscono una specie di società di aiuto
reciproco. Si sa dall’intervento della voce narrante che c’è un qualche
problema più grande che li coinvolgerà. Problema che riguarda il più
stravagante dei sette, Ben dalle idee pazze. Un po’ lentamente si arriva al
nodo cruciale. All’incontro di Ben con la gemella Sheera. Alla ricerca delle
origini e della fine del loro padre Chandra, ingegnere indiano dalle grandi
idee industriali, ma che ha sempre un lato un po’ in ombra: l’amore per la
madre dei gemelli, la costruzione di un palazzo nascosto tra le vie di Calcutta.
Quello dei palazzi è poi una fissazione di questo ed altri libri di Ruiz Zafon,
palazzi che vengono utilizzati un po’ come metafore dell’essere umano, ed a
volte, del percorso di crescita dei ragazzi. Spesso per salire da terra al
primo piano ci sono trappole, rompicapi da risolvere, quasi a ripercorrere le
difficoltà che i giovani devono (dovrebbero?) trovare per diventare adulti. Ma
da questo punto in poi il libro perde quota. Cerca di riempire vuoti di
scrittura con elementi fantastici e/o allegorici. Ma se questi possono andare
bene per un pubblico giovane cui non si chiede sempre di essere paladini della
“consecutio”, a noi (forse) maturi lasciano un po’ perplessi. Così come tutto
lo svolgimento ed il chiarimento finale. Certo ci fa piacere sapere come
andranno avanti nel futuro i giovani della società di muto soccorso. Cosa
succederà loro dopo quel fatidico 1932. Ma è solo curiosità di chi non vorrebbe
mai veder scomparire i personaggi che, bene o male, lo hanno accompagnato per
quasi 300 pagine. L’impianto complessivo, alla fine, mi sembra quello di una
che ha visto troppi episodi di Star Wars e vuole in qualche modo parafrasarne
le vicende nell’oggi (o al massimo nello ieri). Rimangono dubbi sulla
scrittura. Ed un quesito: ad un certo punto, descrivendo la casa
dell’ingegnere, se ne parla come piena di stravaganze, edoardiane, ed altro. E
si citano “stravaganze paladinesche”: perché se si parla di architettura? I
paladini costruivano castelli? O forse “palladiane” era più appropriato. Sarà
un errore dell’autore o del traduttore? O solo mio? Qualcuno mi aiuti a
risolvere il dilemma. E non comprate il libro, che se vi incuriosisce ne
abbiamo versioni pdf italiane e spagnole (grazie ai complessi problemi di
diritti d’autore che Ruiz Zafon stesso cita e che hanno impedito al libro di
circolare per quasi 15 anni).
Mi consentite, nella chiusa,
di mandare un ringraziamento ad Eugenio Scalfari, che, nella sua paginetta
settimanale sull’Espresso, questa settimana illumina con pacate parole questo
che vado praticando da anni. Letture di libri, parallele, per vedere vari
aspetti della vita, per non fossilizzarsi, per cercare di entrare nel testo,
senza farsi prendere dal contesto. Dopo questo conforto, continuerò più
sollevato a leggere disordinatamente i miei infinti libri. Ed a mandarvi le mie
sempre più lunghe trame. Ed aspettare i vostri commenti.
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