martedì 1 maggio 2012

Robusti gialli seriali - 12 giugno 2011

Si era ad inizio dell’anno, nel pieno delle liti e discussioni per il progetto europeo che non si sapeva come andava finendo (purtroppo non come si sperava allora, con il senno di poi). E come in molti momenti di stress, mi sono fatto un’iniezione di qualche robusta pagina poliziottesca. Leggendo un nuovo capitolo della saga di Hyeronimous Bosch detto Harry (che si irrobustisce libro dopo libro) e leggendo le (probabilmente) ultime vicende del commissario Charitos (ora è uscito un nuovo Markaris, ma non so se nel filone aureo o in qualche nuovo episodio). Alti e bassi, viaggi tra San Francisco ed Istanbul (e non è male, passeggiar per turchi con il buon commissario). Meglio Connelly, che Markaris sembra stanco, ma gli spunti ci sono anche lì.
Michael Connelly “La bionda di cemento” Piemme euro 11,50
[in: 01/06/2010 – out: 02/02/2011]
[tit. or.: The Concrete Blonde; ling. or.: inglese; anno 1994]
Terzo atto della saga di Harry Bosch. E il buon Connelly va migliorando di romanzo in romanzo. Prolifico, riesce a buttar giù più di 400 pagine, senza perdere il filo e senza perdersi d’animo. Con una scrittura che non dimentica il passato, non lo mescola, e ci fa più avvincente il presente del racconto. Sapevamo dai precedenti che Bosch era stato sospeso per un certo periodo dalla Omicidi, in quanto in un eccesso diciamo di zelo, aveva ucciso una persona sospettata di essere un assassino seriale. Assassino di donne, per lo più prostitute, che dopo aver ucciso, le truccava esageratamente, si da farlo soprannominare “Fabbricante di bambole”. Ora vediamo Bosch alle prese con il processo intentatogli dalla vedova del morto. Sono passati quattro anni, e nel frattempo (secondo romanzo) Bosch si è più o meno messo con la moglie di un collega morto (anche lui con qualche lato oscuro). E vediamo anche spuntare una nuova “bambola” fabbricata da un assassino, ma morta da soli 2 anni. Su questa idea di base, si muove la poderosa macchina da scrivere di Connelly. Bosch ha ucciso l’uomo sbagliato? O qualcuno imita il modo del morto per inguaiarlo? Come procedere nell’indagine e nel processo senza far andare storti l’uno e l’altra? E quanto è corrotta la polizia di Los Angeles? Bosch è ancora traumatizzato dall’esperienza nel Vietnam? O forse prima ancora, dall’uccisione della madre quando era bambino, madre che probabilmente era anche lei una donna di strada? Si potrebbe continuare a lungo con tutti gli interrogativi, ed altri ancora. Connelly cerca di indagare questi lati oscuri delle persone, portandoli all’esasperazione, ma facendoci anche capire qualcosa di noi, che, per fortuna, non siamo assassini seriali, né cow-boy con la stelletta. Il tutto descrivendo, bene e con partecipazione, l’ambiente della polizia, con i poliziotti sull’orlo della corruzione, sull’orlo del fallimento, sull’orlo della fiducia cieca nei regolamenti, ma anche umani ed empatici. E l’ambiente della giustizia americana, con l’esasperata ricerca non della verità, ma del tornaconto personale. Tipico l’esempio di questa causa civile, dove se chi perde venisse condannato al risarcimento simbolico di 1 dollaro, l’avvocato vincente sarebbe pagato dal perdente. E l’ambiente giornalistico, teso alla ricerca dello scoop al di là ed al di sopra di tutte le convenienze, cosa che sembrava eccessiva 15 anni fa all’uscita del libro, ma che oggi ci sembra pane quotidiano. E finalmente bello il rapporto di Harry con la sua attuale compagna, con tutto il dire ed il non dire, sulla linea d’ombra tra l’amare ed il soffrire. Insomma, tutta una serie di temi, ben gestiti, ben portati avanti. E, quello di cui sono grato, senza dimenticarsene qualcuno per strada. Unica pecca, il finale forse un tantino prevedibile fin da metà romanzo (almeno io mi aspettavo che prima o poi prendesse quella strada), ma in ogni caso ben gestito. Fatti leggere ancora, Bosch!
“Aveva sempre condotto una vita solitaria, ma questo non significava che fosse stato sempre solo. Aveva dei segreti, alcuni dei quali sepolti molto profondamente, e non se la sentiva di condividerli … Non ancora, almeno.” (64)
“Lui aveva otto anni di più e sapeva di dimostrarli, ma non si vergognava del proprio aspetto.” (120)
“Nessuno in questo mondo è quello che dice di essere … E nessuno conosce veramente gli altri, anche se è convinto del contrario. Il meglio che puoi sperare è conoscere te stesso. E certe volte, quando ci riesci, quando vedi sul serio come sei, devi guardare da un’altra parte…” (381)
Petros Markaris “La lunga estate calda del commissario Charitos” SuperPocket euro 5,90
[in: 20/06/2010 – out: 07/02/2011]
[tit. or.: Vasikos metochos; ling. or.: greco; anno 2007]
Non si capisce perché tradurre il titolo facendo l’occhiolino tra Sidney Poitier (La calda notte dell’ispettore Tibbs) e Paul Newman (La lunga estate calda) invece di lasciare un titolo magari sibillino ma certamente più vicino al testo come l’originale “Azionista di riferimento (o di maggioranza)”. Prima di partire con la trama, due spigolature cinefile: nel film Newman incontra e si innamora di colei che sarà per sempre sua moglie (Joanna Woodward) ed ha una storia brevissima, nella trama, con una Minnie interpretata da Angela Lansbury (che troveremo molti anni dopo perno centrale della Signora in Giallo). E visto che siamo partiti dal cinema, incominciamo col dire che Markaris ha fatto per anni lo sceneggiatore di Anghelopoulos, e si sente sia nella costruzione delle atmosfere che per alcuni momenti di “critica sociale” (del resto sempre presenti nella saga del commissario Charitos). Qui siamo già alla quarta o quinta avventura, ed ormai conosciamo bene il mondo del Commissario: la moglie Adriana grande cuoco, la figlia Caterina che studia legge, l’amico Zitis sopravvissuto al carcere dei colonnelli, e l’ambiente della polizia dove lui rimane sempre un po’ fuori, a far di testa sua, non tanto cercando una sua giustizia (non è un rambo) quanto cercando di conciliare le sue idee ed il mondo in cui viviamo, dove le idee vincenti sono altre. Per questo, continua a non fare carriera. Ed a guidare la sua scassatissima Fiat Mirafiori. Qui apriamo una bella parentesi: tra i giri in macchina e gli spostamenti di Atene, si ritrova nel romanzo il filo essenziale della città. Quello del traffico sovrabbondante, immarcescibile, condizionante anche la vita quotidiana. Gli incroci, le piazze, la via Attica, ed il centro cittadino. Dove per sfuggire al traffico ogni tanto ci si ferma a bere il tipico caffè “dolcebollito” (e primo o poi ne troverò la ricetta…). Ma torniamo al libro. Nella prima parte è un po’ incartato, là dove qualcuno sequestra una nave dove stava transitando per festeggiare la laurea sua figlia Caterina. Capiamo le angosce (abbastanza ben rese), ma rimane un po’ lì in sospensione. Non si entra nel vivo se non quando cominciano, da tutt’altra parte, gli omicidi. Omicidi di personaggi legati alla pubblicità. E qui scatta il lato più “politico” di Markaris. Perché il serial killer vuol far cessare la pubblicità dai mezzi di comunicazione (esigenza più che giusta), ma per farlo usa mezzi poco “corretti”: uccidere tutti quelli che ne fanno parte (attori, modelli, radiofonici, giornalisti). Belle le scene di intermezzo dove i pubblicitari mostrano tutta la loro anima (e qualche amico pubblicitario potrebbe parlarcene a lungo). E bella l’idea che fermando la pubblicità, in breve si potrebbe creare una rivoluzione di piazza. Certo incontrollabile, e con segni ambigui. Tant’è che anche Charitos poi si ingegna al massimo per trovare il bandolo della matassa. Ma mentre i personaggi si intersecano e sono comunque di interesse (soprattutto il caffè di Zitis mi incuriosisce), lo snodarsi ed il risolversi del giallo è un po’ “appeso”. Un po’ casuale ed un po’ forzato. Certo Markaris non fa mancare la sua penna pungente finale, dove dopo tanta pappa e ciccia con i potenti, Charitos riprende e con forza il suo ruolo di outsider, in attesa di nuove avventure. Purtroppo non sono un così profondo conoscitore di Atene per condividere o confutare il camilleriano parere di parallelismo descrittivo tra Markaris e la Marsiglia di Izzo. Ma un po’ ci fidiamo. E se certamente escluderemo il dolcebollito, probabilmente nelle torride estati greche, potremmo optare un caffè-frappè (ma senza zucchero).
“Come facevo a spigare ad Adriana la differenza tra un tempo, in cui uno temeva che l’altro se ne andasse, e il giorno d’oggi in cui uno teme che l’altro rimanga?” (25)
Petros Markaris “La balia” Bompiani euro 9,50
[in: 01/09/2010 – out: 08/03/2011]
[tit. or.: Paliá, polý paliá; ling. or.: greco; anno 2009]
E con questo, in pratica, si è letto tutto dei romanzi sul commissario Charitos (rimangono dei racconti che si vedrà se affrontare). Inoltre, qui c’è anche una sorta di “para-autobiografia”, visto che la vicenda si svolge ad Istanbul, città natia di Markaris, e nell’ambiente dei fuorusciti greci, sia per le vicende del ’42, del ’55, e delle minoranze all’estero, dato che Markaris è anche lui un minoritario (greco di origine armena). Ma si può parlare di giallo? In realtà, la risposta è carica di ambiguità: di morti ce ne sono, e assai (alla fine almeno 4 o 5), ma non c’è una vera suspense poliziesca. Si sa, viene detto, sin dall’inizio chi è l’assassino. E si va avanti tutto il libro alla sua ricerca. Ma è un pretesto. Un pretesto per sviluppare quanto detto prima. Il commissario Charitos, per placare l’ira della moglie per il mancato matrimonio religioso della figlia Caterina, organizza una gita ad Istanbul. Dove si trova invischiato appunto nella ricerca del colpevole, che uccide una persona in Grecia e poi fugge ad Istanbul per continuare le ammazzatine (come direbbe Camilleri). E lui, benché in vacanza, si trova coinvolto. Facciamo così un salto in quel mondo che caro fu all’infanzia di Markaris. Il mondo dei rumei, nome dato dai Turchi alla minoranza greca che viveva in Turchia. Se ne rievocano i fasti, ma soprattutto, si rievocano i momenti topici, quando a più riprese il governo turco cerca di “minimizzarli”. Già prima della nascita di Markaris (ricordo il romanzo della Meimaridi sull’eccidio di Smirne del 1922), poi con la legge sull’espropriazione dei beni del ’42, le sommosse del ’55, e via trucidando. E ben sappiamo che i turchi non è che siano teneri con le minoranze in genere (armeni del 1915 docent). Così procediamo pagina dopo pagina ad immergerci in queste atmosfere, che fanno piacere, anche perché a volte sembra di ripassare una guida turistica della bella città sul Bosforo: Santa Sofia, il ponte, la torre di Galata, la strada maestra di Pera, piazza Taksim, e poi qua e là in periferia, con la bellissima chiesa-moschea di San Salvatore in Chora. E, come detto, nelle atmosfere delle minoranze, dove, a quelle locali se ne aggiunge un'altra che, in Turchia, non può mancare. Incarnata dal commissario turco Murat, nato in Germania, ma da lì fuggito quando si è sentito “minoritario turco espatriato”. Alla fine, un discreto trattato sul rispetto reciproco (e d’altra parte, non ci si può aspettare di meno, dallo sceneggiatore preferito di Anghelopoulos). Tuttavia, non un giallo, come detto sopra. Non un giallo classico, quanto meno. Al più (ma questo non fa che accomunare Markaris, ai Camilleri, ai Mankell, e via discorrendo) l’utilizzo di un genere “popolare” per cercare almeno di tirar fuori qualche idea non peregrina sul mondo attuale. Non mi è piaciuto tantissimo, proprio per questi suoi limiti. Ma gli spunti positivi ci sono, e vanno presi e gustati, sempre con quel caffè-frappè di cui Charitos è ghiotto.
“Non so: forse sono stato sempre così, o forse lo sono diventato negli ultimi anni, ma ultimamente mi rendo conto che le cose me le godo di più da solo che in compagnia.” (169)
In questa giornata che vede vicina la ricorrenza natia del mio povero babbo, spero che tutti noi italiani gli si faccia un bel regalo. Come lui eticamente mi insegnava, mai tirarsi indietro. Si potranno accumulare sconfitte dopo sconfitte, ma la nostra voce DEVE farsi sentire. Chiudo la trama e vado a votare.

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