martedì 22 maggio 2012

Black November - 06 novembre 2011

In attesa di giornate uggiose, ancora scarse per fortuna, una piccola riserva di libri americani del lato nero, che per noi sarebbe giallo (come i mitici Mondadori). E come per i gialli, comincio sempre con le lamentele, che riprendo sulle trame, dei titoli, dei traduttori ed altro. Perché il falcone diventa falco? Perché qualcuno non deve morire? Perché un fiume viene dimenticato? Perché l’ultimo diventa un’ombra? Tirate d’orecchie a parte, qui incontriamo dei classici, o quanto meno degli autori robusti. Robusti americani, come un caffè da Starbuck. C’è il grande Hammett, il primo King che leggo, il poco noto Lehane ed il sempre presente negli ultimi anni Connelly. Cominciamo allora con il più classico della quaterna.
Dashiell Hammett “Il falco maltese” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2005 – out: 23/05/2011]
[tit. or.: The Maltese Falcon; ling. or.: inglese; anno 1930]
Da sempre l’ho pensato come falcone, il ridurlo a falco mi ha spaesato la lingua (forse del traduttore o del curatore, con quelle sbadataggini dove un personaggio, certo secondario, viene chiamato in una pagina Kevidov e due pagine dopo Kemidov!). Non è certo invece Hammett che ci confonde in questo romanzo di 80 anni fa dove dà il meglio di sé. Ironico, cinico, spietato, ma anche confuso, e perché no, quel tanto di impegnato che non guasta. E non è un caso che, una decina di anni dopo, il romanzo viene portato sugli schermi con la sceneggiatura e la regia del grande John Huston per un’interpretazione maiuscola del mio Humphrey Bogart (che a proposito di frasi memorabili, alla fine del film, quando gli chiedono di che cosa è fatto il falco, Bogey risponde “della materia di cui sono fatti i sogni”)! Senza dubbio Hammett ha un respiro migliore nel racconto, dove riesce a fare qualche fuoco di artificio per sostenere delle trame in genere abbastanza esili. Quando si allunga nel romanzo un po’ si incarta (non è un caso che scrive solo 5 romanzi a fronte di più di 80 racconti). Ma nel falco, comunque, facendo tesoro delle sue esperienze nell’agenzia Pinkerton, è però godibile, anche perché fissa alcuni canoni maestri del genere hard-boiled. Prima di tutto, una trama decentemente confusa che serve un po’ da plot su cui si alternano i diversi personaggi, per poterne connotare vizi, pregi e caratteristiche varie. Una trama in cui gli attori delle vicende bevono a dismisura, fumano, sparano ad ogni piè sospinto, e sono sovente implicati in risse ed altre amenità. E dialoghi secchi, frasi lapidarie (tanto che tutte le volte che ne fanno versioni cinematografiche, i dialoghi non vengono quasi toccati, tanto sono già efficaci). Le donne, quasi tutte belle e/o fatali (in genere l’unica bruttina è sempre la segretaria, ma qui anche l’ottima Effi ha la sua prestanza). E di conseguenza un po’ di sesso (non molto esplicitato, siamo ancora negli anni trenta, suvvia). I poliziotti, sempre un po’ in ritardo sull’azione ed arrancando quando non mettendo i bastoni tra le ruote a lui, il personaggio principe, l’investigatore. Qui ne abbiamo, in effetti, una delle vette. Sam Spade (che, a dispetto del ricordo nella memoria, non indossa mai il famoso trench), storia tormentata alle spalle, sempre sul filo del rasoio della legge, tombeur de femme, spietato, ma con una morale alle spalle: i cattivi, in ogni caso, vanno puniti. La trama, se si potesse riassumere, ci dice che in giro per il mondo vaga un oggetto misterioso, il buon falco, un uccello tempestato di gemme dal valore inestimabile. Ci sono diversi gruppi di “cattivi” che se ne contendono il possesso: il riccone con il guardaspalle gay, il levantino, la bellona. Che durante il corso della storia si alleano in modi trasversali, si tradiscono, mettono inopinatamente in mezzo anche Sam e la sua agenzia. Dove già c’erano problemi, che Sam se la faceva con la moglie del socio, socio che dopo poche pagine già muore. E via complicando il tutto. Ma, come detto, non è questo che interessa ad Hammett. Gli piace disegnare i vari personaggi, seguendo con un occhio di affetto il nostro Sam, che per tutto il romanzo sembra sempre perdere colpi, e che, alla fine, riuscirà a mettere in riga la storia, ricostruendola nel capitolo finale in modo che tutti i pezzi vadano al loro posto. Hammett non ebbe mai molta fortuna in vita, date anche le sue scelte fortemente a sinistra, tanto da finire ben presto nelle liste nere degli anni cinquanta. Solo dopo morto ne vengono recuperati i caratteri archetipi delle storie, ed ora è da tutti considerato un maestro. Comunque è stata una bella lettura (e scusate se ci ritorno sopra, ma si vede Bogey in tutte le pagine del libro, cosa che me lo fa piacere, a prescindere).
“Aveva … capito che gli uomini muoiono a caso e vivono solo quando la fortuna, cieca, li risparmia.” (66)
“Se non mi ami, non esiste risposta. In caso contrario, non occorre nessuna risposta.” (216)
Stephen King “Misery” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2004 – out: 17/06/2011]
[tit. or.: Misery; ling. or.: inglese; anno 1987]
Non avevo mai letto King. È un peccato? Una dimenticanza? Il fato? Fatto sta che ora che l’ho fatto, non è che abbia molta voglia di leggere altro. Ben fatto, ben scritto, riesce a reggere una (quasi) suspense per 400 pagine con due soli personaggi. Cerca anche di fare “il saputello” parlando di letteratura e di scrittura mentre procede il romanzo che abbiamo davanti. Indubbiamente, essendo stato (anche) professore di lettere ha materia per trattare, ma quelle parti sono un po’ appese (l’unica che rimane, come tecnica di scrittura è la tirata sui file di concordanze dei personaggi dei serial seller). Come appese, le citazioni qua e là di musica d’epoca, da Roger Miller a Paul Simon, fino a “Disco Inferno” di Leroy Green. Inoltre, in quest’opera summa dimostra di saper ben lavorare con gli ingredienti del suo mestiere, lì dove, di fronte all’abbacinata Annie le illustra come quello dello scrittore non sia un “dono di Dio”, ma un mestiere. Certo, c’è chi lo fa bene, chi svogliato, chi magistralmente. Ma è un mestiere, bisogna applicarsi, studiare, provare e limare. E con questo mestiere riesce a tenerci sulle 400 pagine con due soli personaggi, sperduti in una casa lontana, ma non irraggiungibile, dalla vicina cittadina. Due personaggi, che si evolvono, vivono, lottano, fanno, dicono, ogni tanto sembra che si sia raggiunto un momento di stasi, ma (ed è qui che esce fuori la genialità di King) trac, ecco là che se ne inventa un’altra, e la storia va avanti, si intrica, si complica. Pochi sarebbero riuscita a tirarla così per le lunghe senza uscire dal seminato. King ci riesce, e devo dire, ci riesce bene. La storia si regge bene sul filo dell’improbabile, ma che poi impariamo ad accettare come possibile. Lo scrittore di best-seller Paul Sheldon ha un incidente, ma viene salvato da Annie Wilkes, una fan della sua serie di successo basata sulle gesta dell’ottocentesca Misery. Peccato che nell’ultimo libro, stufo di Misery, Paul la faccia morire di parto. Peccato che Annie sia psicopatica e sequestra Paul per fargli scrivere un seguito alla storia. Da questo inizio improbabile, nascono le 400 pagine di segregazione di Paul, di sevizie della psicopatica, di agnizioni da parte di Paul che Annie, ex-infermiera, ha sulla coscienza decine di morti ospedaliere. Ma nasce anche la scrittura del nuovo romanzo, dove Paul trova (senza imbrogliare, come chiede Annie) il modo di far risuscitare Misery, e di farle vivere una nuova, complessa avventura. Che seguiamo anche noi, negli intarsi con scrittura a “macchina da scrivere” (bella anche la trovata della perdita della “n” per cui la pazza si trova a inserire le lettere mentre legge le bozze). È quindi un crescendo. Paul ha le gambe fratturate dall’incidente. Annie è un’ex-infermiera ed ha la casa piena di medicine. Ma Paul sa anche che, se e quando finirà il libro, Annie lo ucciderà. Si innesca così una lotta all’ultimo sangue, che sappiamo bene che qualcuno finirà male. E non vi dico chi. Ma pur avvincente, pur obbligandoti a non lasciare la pagina per sapere cosa succederà, alla fin fine non suscita sussulti emotivi particolari. Sono curioso, non emozionato. Quindi certo, un libro di buon livello, ma non da stella del firmamento. Un libro che segna una svolta nel quarantenne del Maine, fino ad allora scrittore pulp, e da ora in poi scrittore a tutto tondo. Ma, alla fine, rendono di più i suoi libri come idee. Ne vediamo meglio la trasposizione sullo schermo, dove, nel momento in cui incontrano registi di buona se non eccelsa fatta, ne escono capolavori. Vogliamo parlare di “Carrie”? O de “Il miglio verde”? Per arrivare su, su alle vette di “Shining”? E per tornare a Misery, come dimenticare il cupo film degli anni novanta, che ha visto Kathy Bates prendere un meritato Oscar per l’interpretazione della psicopatica Annie? Inciso cinematografico, perché in Italia il film, che si chiama, come il libro, semplicemente “Misery”, viene distribuito con il titolo “Misery non deve morire”? Chiusa letteraria, uno di quei libri “da leggere”, non “da non mancare”.
“Quando aveva dichiarato che moriva dalla voglia di sapere cosa sarebbe successo dopo, non stava scherzando. Perché si continua a vivere per scoprire che cosa succede dopo” (272)
Dennis Lehane “La morte non dimentica” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2005 – out: 02/09/2011]
[tit. or.: Mystic River; ling. or.: inglese; anno 2001]
Innanzi tutto, la mia solita, forse troppo abusata, ma immancabile, predica contro gli “impositori” di titoli. Che bisogno c’era di modificare l’originale “Mystic River”, che si riferisce al fiume che scorre intorno al quartiere dei Flats nei suburbi bostoniani, con questo “La morte non dimentica”? Vuole suggerire qualcosa? Dare indizi? O soltanto (purtroppo) connotare il libro come giallo, visto che quel Mystic sembra portarlo verso qualcosa di religioso? Solo poi cambiare tutto pochi anni dopo, quando Clint Eastwood ne trae il magistrale film omonimo che ottiene ben due oscar con Sean Penn nel ruolo di Jimmy e Tim Robbins in quello di Dave (ed un ottimo Kevin Bacon in quella di Sean). E possiamo certo dire, visto il film, che poi tutto giallo non è proprio. Certo c’è una morta, un’indagine che subisce colpi di scena (anche se non proprio folgoranti), ed un arrivo alla soluzione che tutto sommato è un buon modo per il nostro quarantacinquenne bostoniano di chiudere il libro. Ma è molto di più, quasi un’indagine psicologica, una di quelle dove il vecchio Clint ci si tuffa a capofitto negli ultimi decenni della sua carriera. Un’indagine sui rapporti umani tra tre ragazzi come li vediamo all’inizio, due che stanno ai Flats, il sobborgo povero, ed uno ai Plant, poco migliore. Ed il rapimento del piccolo Dave da parte di “uomini cattivi”, senza che né Jimmy dei Flats né Sean dei Plant riescano a fare qualcosa. Se fosse un giallo, ci aspetteremmo che, anni dopo, tutti vadano alla ricerca dei cattivi. Ma non è questa la storia. La storia è che Jimmy, dopo una gioventù sregolata, si mette (più o meno) sulla retta via. Che Sean diventa poliziotto. Che Dave rimane molto segnato da quell’esperienza e dai fantasmi che si porta dentro. Ed il morto, anzi la morta, sarà la figlia grande di Jimmy. E Sean sarà incaricato delle indagini. E Dave sarà accusato dell’uccisione. Anche qui, ci sarebbe spazio per farne un poliziesco d’annata. Ma non è questo che, bene o male, interessa Lehane. Si ritorna ai rapporti ed alle persone. Con alcuni punti interessanti. Sean e la sua sbandata vita sentimentale, ma anche il modo con cui riesce ad entrare in sintonia con le vicende. Jimmy che è e resta un cattivo soggetto, ma che non può che convivere con sé stesso, aiutato dalla moglie Annabeth. Dave che trovo la parte più debole del trio, quella che più risente di un certo perbenismo americano. Se hai subito violenze da piccolo, prima o poi rivolgerai queste violenze sugli altri. Mi sembra un’equazione troppo semplicistica. Ma è bravo Lehane a caratterizzare i vari personaggi così detti “minori”: le mogli (Annabeth, Celeste e Lauren), il sergente poliziotto ed il ragazzo che si innamora della bella Katie, quella che vediamo morire nelle prime pagine. In fin dei conti, un buon libro, con dei buoni spunti. Certo, non andrei a scomodare Shakespeare che mette davanti ai suoi personaggi i loro demoni personali, in modo che questi li affrontino e li vincano (o ne vengano vinti). Lo dice il risvolto di copertina, e, stranamente, viene parafrasato dal commento che si può leggere su Wikipedia (un giorno parleremo di questo strumento e dei suoi alti e bassi). Ma è altrettanto vero che mi ha tenuto compagnia in un’insonne notte di tosse, facendomi alfine addormentare contento della buona lettura fatta.
“Lamentarsi con qualcuno era un modo di chiedere aiuto, di chiedere a quel qualcuno di aiutarti a risolvere un problema.” (64)
“Era proprio tra la gente che uno si rendeva conto di quanto poco tempo trascorresse con la persona che amava.” (207)
“L’esperienza gli aveva insegnato che tutti si comportavano in maniera infantile, ogni tanto.” (275)
Michael Connelly “L’ombra del coyote” Piemme euro 11,50 (in realtà, scontato 8,63 euro)
[in: 07/11/2010 – out: 07/09/2011]
[tit. The last coyote; ling. or.: inglese; anno 1995]
Prima di tutto, perché l’ultimo coyote, che sarebbe il titolo inglese, (che ha un senso, poiché il nostro Harry si domanda se quello che incontra vicino alla sua casa terremotata sia l’ultimo, così come lui sembra essere l’ultimo dei poliziotti non dico onesti, ma con una coscienza) diventa l’ombra del coyote? Dov’è la logica in tutto ciò? Ma andiamo avanti. Quarto libro della saga di Hieronymus “Harry” Bosch e, per me, fino ad ora, la più convincente. Qui Connelly cerca un po’ di sistemare tutto il micro-universo del detective Bosch, per fare in modo di dargli dei terreni più stabili verso il futuro. Bosch è sempre quel detective che non ha conosciuto il padre, la cui madre faceva la prostituta e fu uccisa che lui era sui dieci anni, che ha fatto la guerra nel Vietnam e qualche trauma l’ha ricevuto anche lì, che fa il poliziotto perché anche una sola ingiustizia irrisolta diminuisce la fiducia verso il mondo. Ed è molto irascibile, tanto che è sempre in rotta con le autorità. Era all’Omicidi, ma viene sospeso per eccesso di zelo. Passa al reparto operativo Hollywood (siamo a Los Angeles, ovvio), e si scontra con l’anti-droga, con il suo capo, insomma praticamente con tutti. Ed ora è di nuovo sospeso, avendo litigato ancora con il tenente suo diretto responsabile. Non solo, c’è stato un terremoto (in California succede spesso) e la sua casa è inagibile e andrà demolita. E c’è stato un terremoto anche nella sua vita privata: la donna che stava con lui nei due precedenti libri non regge al suo muto isolarsi e se ne va. Cosa fa allora il nostro Harry? Decide di risolvere il vero caso della sua vita, la morte circa 35 anni prima della madre. Anzi l’uccisione. Un vero “cold case”. Riprende in mano i vecchi archivi, cerca di scoprire chi indagò e come. A poco a poco, un bel vespaio ne esce fuori. La madre negli ultimi tempi frequentava un avvocato di lì a poco (dopo la di lei morte) nominato procuratore distrettuale. Il suo protettore entra a far parte dello staff del suddetto avvocato, ma dopo pochi mesi muore. Uno dei due poliziotti che indagavano sul caso dopo pochi mesi si licenzia e va a vivere a Las Vegas. La migliore amica della madre sparisce di colpo, anche se poi si scoprirà che ha cambiato nome e si è sposata e ritirata in campagna. Insomma, ci sono tanti indizi che le indagini sono state mal gestite. Anche perché spesso compare tal Mittel, factotum dell’avvocato ed ancora, dopo tanti anni, non solo sulla scena, ma sempre nel giro dei potenti. Harry all’inizio si muove come un elefante, e come un elefante rompe molti cocci. E soprattutto, è un elefante che non sa dove mettere i propri piedi. Ogni volta, ed in genere quando ha a che fare con l’autorità, fa la scelta sbagliata nel momento sbagliato. E si ritrova ogni volta un po’ più inguaiato. Ma per Bosch è una questione vitale. Deve, assolutamente, venirne a capo. Pena il crollo di tutti i suoi quasi cinquanta anni di vita. E sasso dopo sasso, foto dopo foto, impronta dopo impronta, alla fine riesce nella sua “mission impossible”. Qui Connelly fa sfoggio di qualche bel tocco di bravura. Infatti, fin dall’inizio crea una soluzione del mistero plausibile e che tutti, anche noi lettori, ci aspettiamo di scoprire insieme al detective Bosch. Ma alla fine, con un colpo d’ala, cambia alcune carte in tavola e ci dà la “vera” soluzione, devo dire questa volta inaspettata. Ma altrettanto plausibile e funzionale. Harry Bosch alla fine è un po’ scosso da tutta la vicenda e dalle 400 pagine che abbiamo seguito. Tuttavia, è un bel risultato, lo scritto complessivo. Torneremo senz’altro a leggerne e di lui e di Connelly. Una piccola “chicca” finale: quando comincia ad indagare e chiede gli incartamenti, il poliziotto in archivio (visto che sono tutti casi vecchi) gli chiede se vuole anche quelli della “Dalia Nera”. Qui, l’autore fa un piccolo omaggio ad un maestro del genere noir americano, James Ellroy che appunto nel libro “Dalia Nera” ricostruisce l’uccisione della propria madre, anch’essa prostituta, come quella di Bosch. Bravo Michael, bel colpo.
“Il passato, è quello che tu lo fai diventare. Lo puoi usare per farti del male, o lo puoi usare per diventare più forte.” (48)
“La persona giusta s’incontra una volta sola nella vita. Quando la trovi tienitela stretta. … Non sapeva se era lei quella persona, ma per il momento la teneva con tutte le sue forze.” (397)
Tramontato il Giappone, è sorto l’Oman. Ma ho poche speranze, i giorni passano, e gli iscritti diminuiscono. Speriamo che ci siano migliori notizie in settimana, lavorative, viaggiative, e altro. 

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