Pearl Sydenstricker Buck “Vento dell'Est:
vento dell'Ovest” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 02/06/2011]
[tit. or.: East Wind: west wind; ling. or.: inglese; anno 1930]
[tit. or.: The first wife; ling. or.: inglese; anno 1933]
[tit. or.: The old mother; ling. or.: inglese; anno 1935]
La
prima impressione è negativa. E questo sarebbe un Premio Nobel? Certo, si
sforza di immedesimarsi in una “piccola donna cinese”, ma lo fa con il sussiego
di una donna americana!! Dopo il racconto lungo del titolo, speravo migliorasse
nel resto del libro (che presenta altri due racconti brevi). Ma non c’è stato
verso. Brutto, e veramente poco condiscendente verso il nuovo. Si legga un
capolavoro al cospetto, quei chiari “Cigni selvatici”. Stesse atmosfere, stessi
tempi, stesse (se vogliamo) disillusioni verso un certo corso cinese. Ma che
diversa resa… Il tema di fondo dei tre racconti è in realtà sempre lo stesso:
il contrasto tra la vita tradizionale cinese ed il nuovo corso, quello che
comincia quando il Regno di Mezzo si apre all’Occidente. Da una parte le
famiglie, tradizionali, chiuse, con una scala di valori immutata nel tempo:
prima i maschi, poi, se c’è spazio, le donne. Prima il capo famiglia, che viene
fatto sposare sempre ad una donna scelta dal clan. E che deve dargli l’erede,
il figlio maschio. Poi possono nascere le femmine (ma non tante, che, se non si
è in grado di mantenerle, spesso vengono soppresse appena nate). E poi il capo
famiglia può fare la sua berlusconiana vita da gaudente, scegliendosi delle
concubine (ricordate quel bellissimo film “Lanterne rosse”?). Ma l’Occidente e
l’America incalzano. I giovani si devono aggiornare. E i figli maschi
cominciano a studiare, ad andare all’estero, ad entrare in contatto con il
Mondo Nuovo. E ne sono attratti, e ne recepiscono i modi, spesso anche i
valori. Da qui, immancabilmente, i contrasti. Nei tre racconti ci sono tre modi
diversi di guardare il fenomeno. Nel primo, è la sposa di uno di questi giovani
che torna la quale cerca di capire cosa succede, con tutta l’ignoranza (nel
senso buono, visto che le donne non studiano) della donna, ma con il sentimento
del retto sentire. In questo aiutata dal marito dottore, che tenta di gettare
un ponte per farle attraversare. Cosa che non succede al fratello, che
(addirittura!) sposa l’americana Mary. E quanti contrasti insanabili nasceranno
da ciò. Ripudi da parte dei genitori, anche in presenza di una discendenza
maschile. Nel secondo, siamo sempre su di una donna sposata ad un giovane che
studia all’estero. Ma qui, il marito non fa nessuno sforzo di mediazione. Lui
ha la carriera nella capitale, e la moglie ignorante del nuovo gli può essere
solo di intralcio. Anche se gli ha dato il maschio. Anche se i genitori la
considerano una figlia, sempre rispettosa ed al suo posto nel pantheon
famigliare cinese. La prima moglie cerca di capire il nuovo, ma qui siamo in
campagna, può duro è il contrasto tra le due visioni. Ci metterà tutto l’amore
possibile, ma basterà? Nell’ultimo invece siamo nei panni di una vecchia
contadina, che persi tutti i parenti (marito, altri figli maschi) si trova a vivere
il crepuscolo della vita presso il figlio educato in Occidente. Ed anche qui,
contrasti, che non si sputa per terra (ovvio), che non si viziano i nipoti
(meno ovvio), che non ci si serve nel piatto di portata con le bacchette
personali (con un rimprovero tale, che la vecchia spesso preferisce non
mangiare del tutto). Ma a fattor comune di queste tre storie c’è sempre il
biasimo totale della tradizione e la condiscendenza verso il nuovo. Ci
aspettiamo altro, da una signorina che sì ha vissuto per più di trenta anni in
Cina, ma è figlia di un pastore presbiteriano che vive lì come missionario.
Quindi tutto il vecchio mondo cinese al più viene visto come rispettoso e
diligente, ma non si cerca mai di capirlo, di interpretarlo. Non è facile, e
posso dirlo dopo tutti i viaggi fatti, dopo tutti i momenti spesi a capire
anche i cinesi attuali, senza riuscirci. Certo, la mattanza delle figlie
femmine è esecrabile. Ma non può esserlo il rispetto per gli anziani. Insomma,
un libro che posso capire abbia infiammato i roosveltiani negli anni trenta, ma
che ben presto si deve relegare nelle visioni più retrive del mondo cinese.
Tanto che la Buck non sarà mai invitata a tornare in Cina, neanche ai tempi
delle distensioni nixoniane. Finisco ribadendo di non capire in nessun modo
come una tale scrittrice possa aver avuto l’onore del Premio Nobel.
John Dos Passos “Manhattan Transfer”
Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 21/06/2011]
[tit. or.: Manhattan Transfer; ling.
or.: inglese; anno 1924]
Anche
questo era uno di quei libri segnato nelle mie liste da sempre come da leggere.
Avevo sovente incontrato John Dos Passos nelle cronache letterarie americane,
nei libri di Hemingway ed altro, ma non ne avevo letto. Abbiamo rimediato a
questa grave lacuna, e ne esco con sentimenti alterni. Da un lato, una
scrittura moderna, agile, che risente di echi vicini all’autore (Joyce per lo
scrivere ed Eisenstein per le immagini). Dall’altra una difficoltà a tenere
unita tutta la materia. Ci si riempie di nomi. Si seguono personaggi per un
po’, poi si lasciano (mi avrebbe fatto piacere seguire di più la storia di
Emile, ad esempio). Con una grande difficoltà a tenere il filo dei nomi e delle
vicende (e tra l’altro usando a volte nomi simili per persone diverse e a volte
nomi diversi per la stessa persona). Per fortuna che almeno uno, Jimmy, lo
seguiamo più o meno per tutti i venti anni delle vicende, ne vediamo le alterne
fortune, il rifiuto di entrare nell’industria di famiglia per fare il
giornalista, ed il riscatto finale, quando decide di fare lo scrittore, anche
senza una lira in tasca. Credo (per quello che so di Dos Passos) che un poco
adombri delle sue vicende personali (anche lui lascia il giornalismo per fare
lo scrittore), ma soprattutto ne adombri lo spirito, la voglia, la curiosità.
Ed è in fondo quello che ha più lati positivi. Gli altri sì, hanno anche alti e
bassi, ma alla fine sono comunque schiacciati. Dal sociale, dalle convenienze,
dalla mancanza di soldi, dalla mancanza di scrupoli. Da quella vita americana
che non può che schiacciare chi non ha né soldi né natali né occasioni. Lo
scrittore (allora neanche trentenne) è ancora sotto l’influsso delle tendenze
radicali della sua gioventù (non a caso, fu uno dei più forti sostenitori della
battaglia in favore della liberazione di Sacco e Vanzetti). E si sentono questi
echi, nell’accenno alle lotte sindacali, alle miserie delle sartine,
all’ignavia degli opulenti riccastri alla Pierpont Morgan et similia. E
nell’empatia verso le donne che fanno merce del proprio corpo non avendo altro
per tirare avanti (anche merce di alto livello, si intende, quando ci si sposa
per convenienza e si tradisce per sentirsi vive). E nelle scelte dell’avvocato
Baldwin che sta molto sul filo del rasoio, da quando, giovane, protegge i
diseredati e fa avere rimborsi principeschi ad un lattaio travolto da un tram,
alla maturità dove si trova a fare l’avvocato delle classi agiate, a quando,
ormai cinquantenne, decide di buttarsi in politica, ma dalla parte dei
lavoratori e non dei conservatori. Ecco, tanti altri sono i bozzetti. E, come
dicevo, il novanta per cento votati ad una fine ingloriosa: il campagnolo che
viene in città per sfuggire al padre manesco e non trova lavoro, il reduce
della guerra che, non trovando lavoro, si dedica alle rapine a mano armate,
l’ex-marinaio d’origine francese che diventa barman e poi contrabbandiere di
alcolici (siamo entrati nel proibizionismo). E via narrando. Ma alla fine, e
bisogna dirlo con forza, quello che ne esce è il ritratto di questa città bella
e misteriosa. Di questa New York che inizia a formarsi, da poco entrata nel
nuovo secolo, con i grandi transatlantici che arrivano dall’Europa, e che
lasciamo pochi anni dopo la grande guerra, travolta dall’allegria dell’età del
jazz (e sì, mettiamoci anche uno spruzzo di Scott Fitzgerald). Ritratta nelle
sue trasformazioni, da città di campagna, dove il lattaio andava di casa in
casa con il latte fresco, all’inizio del suo cosmopolitismo, nei saloni dorati
dei suoi club esclusivi, e nelle ville intorno al Central Park. Ritratta con la
gente che ancora si affolla al traghetto che dalla terra ferma porta alla
Manhattan piena di piena di possibilità. Però, alla fine, nonostante tutte le
buone cose che porta, e che ho cercato di sottolineare, il libro risulta di
difficile lettura, un po’ troppo “a tesi” (ed a tesi troppo palesi, quasi a
piegare gli avvenimenti per dimostrarle). Sono contento di averlo letto, e di
aver capito di più di quegli strani anni venti americani. Ma non so se ci
tornerò presto.
Joseph Conrad “La linea d'ombra: una
confessione” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 29/06/2011]
[tit. or.: The shadow line: a confession; ling. or.: inglese; anno 1917]
Ho
provato ancora a leggere qualcosa di Conrad. Ed alla fine mi domando, perché?
In fondo, non mi piace molto la scrittura dell’oriundo polacco. Certo, è piena
di intenzioni e di messaggi. E certo ancora, questo libro l’ho letto senza
troppa fatica (anche se leggere scritti di mare assediato dalla neve sulle Ande
lascia un’immagine strana). Non come quel Cuore di Tenebra, che mi ha reso
difficile la vita. Non riuscivo a finirlo, ne confrontavo con il film. Non
capivo, e posso dire, ancora non ne capisco la palesata bellezza. Ma anche qui,
non mi ritrovo nelle parole di commento fattene da Roberto Saviano (nella
ripubblicazione del testo). Un libro della vita? Un’emozione che si rinnova?
Sarà questa lettura in una mia età diversa dal bravo Roberto, ma non riesco a
vederne le bellezze, la potenza di attraversare questa linea d’ombra tra
giovinezza e maturità. O forse il fatto che di linee ne ho attraversate tante,
senza mai raggiungere quel passo seguente della maturità. Quel passo che,
superate le illusioni della gioventù, avvia a diventare uomo. Al nocciolo (ed è
quello che mi rimane realmente di Conrad) c’è la sensazione di irrequietezza
che ci pervase ad un certo punto della vita. Dove affrontammo due scogli: chi
apertamente ci ostacolava, chi voleva aiutarci ma con la difficoltà nostra di
capirlo. Poi, prendere al volo un’occasione. L’occasione. Come il nostro
protagonista quando accetta di fare il capitano. E di affrontare l’ignoto. E di
superare le difficoltà per al fine riportare la nostra nave al porto, ma solo
per ripartire subito dopo. Verso altro. Verso il futuro. Come dice il capitano
Gilles, sembriamo più vecchi. O siamo solo più maturi? Ecco, questo mi rimane
dello scritto, il resto (le schermaglie prima di partire, la mancanza di vento,
le malattie, la follia di Burns, il buonsenso di Ransome) ecco, tutto questo
scivola via e non lascia traccia. Anzi, lo sento come qualcosa che non capisco
perché sia lì. Questo è il mistero di Conrad. Riempie di parole degli spazi che
non mi servono. E mi rende difficile volergli bene. Certo, lo trovo un saggio consigliere.
Ma non riesce a prendermi tra le sue mani, il cuore, il cervello, lo stomaco,
strizzarli bene, e farmi restare senza fiato, lì sino alla fine.
“La strada sarebbe stata lunga. Sono lunghe
tutte le strade che conducono a ciò che il cuore brama. Ma questa strada
l’occhio della mia mente la poteva vedere su una carta, tracciata
professionalmente, con tutte le sue complicazioni e difficoltà, eppure a suo
modo sufficientemente semplice. O si è marinaio, o non lo si è. E di esserlo io
non avevo dubbi.” (67)
Philip Roth “Pastorale americana” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 14/09/2011]
[tit. American Pastoral; ling. or.: inglese; anno 1997]
Una palla mega-galattica. E continuo a convincermi, anche se ne ho
letto molto poco, che Philip Roth non è un autore a me congeniale. Certo, in
gioventù mi aveva affascinato “Il lamento di Portnoy”, ma per due evidenti
motivi: le scene di sesso che da adolescente sembravano fantastiche ed il
sentirsi sempre un po’ out, un po’ perdente, del protagonista. Non so che
effetto mi farebbe ora. Forse lo stesso di questa Pastorale, salutata come il
capolavoro dell’autore. Ed è in dubbio che abbia una signora scrittura.
Soprattutto per la lunga scivolata che fa dal soggettivo dell’inizio, dove
parla in prima persona l’alter-ego dell’autore, lo scrittore Nat Zuckerman, che
viene chiamato dal fratello del suo grande compagno di gioventù, dal “grande
Levov lo svedese” che dice voler fargli scrivere la storia di suo padre, grande
guantaio di Newark, all’oggettivo del resto del libro. A poco a poco, infatti,
Roth-Zuckerman passa ad introdurre la famiglia Levov, passando per Jerry il suo
compagno, ora cardiochirurgo pluri-divorziato, e poi centrando il tutto proprio
sullo Svedese. Chiamato così non perché lo fosse, anzi è un ebreo come tutti i
personaggi clou di Roth, ma perché alto e biondo e da giovane pluridecorato
campione degli sport americani studenteschi (football, baseball e
pallacanestro). E ne traccia la parabola, dai fasti giovanili, al matrimonio,
lui ebreo, con la cattolica Dawn ex-miss New Jersey 1949, alla nascita della
figlia Meredith detta Merry. Dalla balbuzie giovanile di Merry alla grande
catarsi, quando Merry si avvicina ai gruppi contrari alla guerra del Vietnam,
mette un ordigno scoppiettante in un emporio e provoca la morte di un uomo. E
passa tutta l’ultima parte del libro a farsi pippe su pippe, in soggettiva su
Levov, se questo, se quello, e perché ho avuto una figlia così, e le crisi
depressive della moglie, ed il suo tradimento con Sheila, e quello della
moglie, e soprattutto, pagine su pagine su come si fabbricano i guanti. L’ho
letto un po’ alla Totò (“vediamo dove va a finire…”) ma più andavo avanti e
meno mi convinceva. Per terminare (non la lettura, ma il punto più alto di
scassamento) con le dieci pagine dell’interrogatorio di Levov padre alla
cattolica Dawn su perché vuole sposare suo figlio lo Svedese. Sarà un compendio
delle paranoie ebree, ma stavo quasi per cestinarlo, nonostante si stava già a
pagina 400! Certo, in tutto il libro, così come una grande elegia, Roth passa
in rassegna i grandi stereotipi americani. Il mito del successo, della
bellezza, repubblicani contro democratici, come aver successo, barbecue in
camicia hawaiana, la frattura della morte di JFK, la guerra del Vietnam come
momento mai risolto della convivenza locale, la spocchia dei borghesi
radical-chic tutti pieni di parole. Ma stancamente, senza riuscire a farmi
emozionare per più di mezza battuta. Mi è sembrato più incisivo e dirompente
l’età dell’innocenza della Wharton, pur ambientato quasi cento anni prima. Tra
una pagina e l’altra, qualche momento Roth l’ha fatto anche rivivere, come alla
festa degli ex-alunni di liceo, con quel ritrovarsi cinquanta anni dopo “pieni
di acciacchi e di sventure”. Ma poi, quando passa a narrare le vicende
dell’allevamento di bestiame della moglie dello svedese, si ricade nella pura
rottura di cabasisi. Come, ripeto, quando dedica pagine e pagine a descrivere
come si fanno i guanti, e la pelle, e il taglio, e … che palle. Come quando, anche
se non aiutato dalla traduzione, gioca con le parole. La moglie dello Svedese
si chiama Dawn, che significa alba, e spesso al mattino in tarda età, lo
Svedese si gingilla con “after and before Dawn”, non solo prima e dopo l’alba,
ma anche prima e dopo del matrimonio. E la figlia Merry, utilizzando il nome
come epiteto augurale, laddove la figlia è sempre un disastro completo. Anche
se, più correttamente, noi diremmo che un disastro è il modo con cui viene
cresciuta da genitori incapaci e inadeguati. L’unico punto a favore, il fatto
che le mucche di Dawn siano di razza Simmental, che ho scoperto come sia
realmente una razza bovina svizzera, che ha poi dato il là alle ignobili
confezioni di carne in scatola. Insomma, se volete farvi del male, leggetelo pure.
Altrimenti dedicatevi a passatempi più divertenti.
“Ho passato i
sessant’anni, non sono propriamente uno che abbia, nella vita, le stesse
prospettive che aveva da ragazzo.” (27)
“Scrivere ti trasforma in
una persona che sbaglia sempre … [con] l’illusione che forse un giorno
l’imbroccherai.” (74)
“Perché le cose sono come
sono? Una domanda senza risposta, e fino a quel momento era stato così
fortunato da ignorare addirittura che esistesse la domanda.” (99)
“La vita è solo un breve
periodo nel quale sei vivo.” (266)
Come s’è capito, non è che mi
siano piaciuti molto, tanto che la somma dei giudizi di questi quattro libri
arriva a malapena a toccare ad esempio quel bellissimo libro sull’altro di Enzo
Bianchi di cui parlai nel lontano febbraio di quest’anno. È un periodo che
scarseggiano belle trame e bei momenti di riflessione. Sarà il cambio di
stagione. Sarà che si aspetta sempre qualcosa (un viaggio, un ingaggio, o
altro).
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