Matilde Asensi “Iacobus” BUR euro 8,60 (in
realtà, scontato 7,74 euro)
[in: 07/11/2010 – out: 07/01/2011]
[tit. or.: Iacobus; ling. or.: spagnolo; anno 2000]
Ancora
acerbità e scontatezza nella simpatica spagnola. Ribadisco il concetto che è un
po’ tanto lontana dalla Gimenez-Bartlett, ma anche (pur nella sua vena
altalenante) dalla Extebarria. Ed allora perché ne leggo? La storia nasce dal
fatto che, in attesa una vacanza sevigliana, lessi che la Asensi scrisse
proprio di Siviglia. Trovandomi a Granada ne cercai qualcosa senza successo,
per poi trovarne il primo di cui ho parlato, giù a Siviglia lo scorso anno. Incuriosito,
ho insistito ed ho trovato questa sua seconda prova (ma niente Siviglia,
ancora). Che ho letto con scorrevolezza, ma anche con poco entusiasmo. Siamo
nel versante “templari” ed altre storicità intorno al 1300. Qui abbiamo un
ospitaliere di San Giovanni (nemici dei Templari) che si trova invischiato
nella ricerca dei tesori nascosti dai seguaci di de Molay prima della sua
morte. Il nostro García è di buon ragionamento, e ben si muove negli ambiti
delle tresche dell’epoca. Tutta la prima parte, sempre con quel piglio un po’
giornalistico, dove si rivelano le trame e gli intrighi che portano alla morte
cruenta del papa Clemente V e di Filippo re di Francia, sono interessanti. Poi,
per trovare i tesori di cui sopra, il buon Garcia intraprende il sentiero di
Santiago de Compostela, da Avignone sino a Finisterre. Beh, questa parte è un
po’ tiratina. Anche perché si accompagna lungo il viaggio con Jonas, suo figlio
naturale ora ritrovato, e con la bella ebrea Sara la maga dai capelli bianchi.
Ma tutta questa parte, che si vuole piena di momenti gialli e di suspense, è un
po’ inficiata dall’exergo, dove ponendo le basi della scrittura, già si capisce
dove vuole arrivare. E dal fatto che, viaggiando con una bella signorina piena
di efelidi, si intuisce già dove vuole andare a parare. La costruzione dei
misteri templari, con le chiese sparse sul territorio, ed i simboli misterici
della croce a forma di tau ed altre simbologie, lascia un po’ il tempo che
trova (anche perché le storie sull’Arca dell’Alleanza sono un po’ trite, e
divertenti solo se trattate da Indiana Jones). Non è sufficientemente addentro per
incuriosire, né superficiale da non scalfire la trama. Anzi, in un certo qual
modo la appesantisce. Scansate trappole ed altre perigliosità del viaggio, si
arriverà ad una conclusione articolata ma non molto sorprendente. Rimane un po’
della narrazione d’epoca. La Asensi si è di certo documentata (ricordiamo la
sua origine sulla carta stampata), e ben scrive del modo di vivere in quel
primo ventennio del XII secolo. Non ha ancora un piglio robusto di narrazione,
ma nel complesso ha comunque i suoi lati positivi. Insomma, anche se dubbioso
leggerò quale altra sua prova prima di decidere se la inserisco nel mio
allargato pantheon di autori da seguire.
“Ricorda che si può sempre scegliere.
Sempre. Nella tua vita, da quando cominci ad avere un certo controllo su di
essa, si alternano le scelte azzeccate e quelle errate, ma sempre di scelte si
tratta. … Se giungi dove intendi arrivare, allora hai scelto bene … altrimenti,
vuol dire che a un certo punto ti sei sbagliato, che hai preso la decisione
errata e che quelle successive ne sono state influenzate” (61)
“Ricordami che tra le prime cose che ti devo
insegnare vi sono le lingue araba ed ebraica. Senza di esse oggigiorno non si
può andare per il mondo” (80)
“Che importa avere un nome oggi e un altro
domani? … Io sono il medesimo con qualsiasi nome” (188)
“L’adolescenza è un’età terribile della
vita, come si dice, ma non per chi la vive, bensì per chi deve sopportarla”
(190)
“Se si nega qualcosa con forza e
perseveranza sufficienti, risulta impossibile smentirlo senza prove” (199)
“Questo è il problema di non essere
immortali: ci perdiamo il futuro” (200)
Elizabeth Peters “Il faraone assassino” TEA
euro 8,60 (in realtà, scontato 7,74 euro)
[in: 07/11/2010 – out: 30/05/2011]
[tit. or.: The Curse of the Pharaohs; ling. or.: inglese; anno 1981]
Niente
di trascendente, solo l’indulgenza al vizio di amare i paesi arabi, e l’Egitto,
di amare il viaggio e le sue conseguenze, di amare il deserto e le sue
promesse. La Peters è in realtà realmente un’egittologa, che ad un certo punto
della sua carriera di studiosa si è voluta cimentare con delle storie
ambientate nell’amato Egitto. E quale miglior spinta di scrittura che
inventarsi un’appassionata archeologa ed ambientarne le vicende nell’ultima
parte del secolo XIX, quando l’Egitto era (quasi) tutto da scoprire? Nasce così
il personaggio di Amelia Peabody, un po’ suffragetta, che inizia la saga e si
innamora del valente Radcliffe. Questo è il secondo di una ventina di episodi
scritti dall’ormai più che ottantenne inglese, dove ancora stiamo approfondendo
i personaggi principali. Amelia e Radcliffe si sono sposati, ed hanno avuto un
bel bambino, soprannominato Ramses, discretamente precoce e anti-conformista
come i genitori. Ramses piccolo, i due passano alcuni anni nella natia
Inghilterra, ma, ora, compiuti i 5 anni, lo lasciano alla zia Evelyn, e tornano
con gioia all’amata Luxor (lasciandomi alcune pagine sull’atmosfera cairota di
fin de siècle veramente intonate). Nella Valle, che poi diventerà quella dei Re
e delle Regine, un filantropo inglese trova una possibile nuova tomba. Ma ben
presto muore, e l’affranta Lady incarica i nostri di proseguire gli scavi.
Così, con il miscuglio già presente nel primo episodio, di scavi funestati da
problemi, e del diverso mondo che a vario titolo “sverna” in quel caldo paese, si
imbastisce la trama. Certo, il “giallo” non è poi così avvincente, i meccanismi
sono un po’ simili al primo libro, fantasmi che svolazzano, morti in apparenza
misteriose, americani che bevono, giornalisti irlandesi che inventano
fantasiosi articoli per i lontani giornali della patria, irreprensibili
archeologi tedeschi, belle fanciulle. Insomma tutto l’armamentario per
descrivere le varie presenze reperibili in quegli anni nella bella città di
Luxor. Ma anche gli arabi fidati, i predatori di tombe, le donne velate. E lui,
il bello, intrigante, mai stancante, deserto, con le sue distese, ma anche con
le sue rocce. Con i suoi pericoli, e con quei momenti (penso alle nostre albe
in Libia) che mai si potranno scordare. Il libro scorre via piacevolmente, con
quella sana dose di ironia, dovuta al fatto che, ambientando il tutto a fine
Ottocento, si possono prendere in giro anche i costumi delle donne che
attraversano il deserto in crinolina, o quelle che, infatuatesi dell’Oriente,
perdono la testa per un paese dove anche con pochi mezzi si fa una vita molto
più che dignitosa. Alla fine tutto si aggiusta, chi deve essere punito verrà
punito, chi deve essere premiato troverà la giusta ricompensa. Ed i nostri due
eroi potranno anche tornare (ma forse per poco) a giocare con il buon Ramses
(che mi aspetto, nei successivi episodi, di vedere trasportato anche lui in
Egitto). Gradevole e rilassante. Non eccelso, ma ci vuole anche questo, ora.
“Immagini [il lettore] di sedere con me sulla terrazza dell’hotel
Shepheard, al Cairo. Il cielo è d’un brillante blu porcellana. Imparziale, il
sole getta i suoi benevoli raggi … su tutta l’infinta varietà di persone che
compongono l’affaccendata folla che attraversa l’ampia via principale davanti a
noi.” (51)
Ken Follett “Mondo senza fine” Mondadori s.p. (prestato da mamma)
[in: 11/09/2011 – out:
19/09/2011]
[tit. Word without end; ling. or.: inglese; anno 2007]
Lunga
la storia di questo lungo libro e del mio rapporto di stima verso un autore di
non grande spessore, ma capace di costruire dei degni romanzi, soprattutto
laddove riesce ad imbrigliare parti della storia. Rimasi ben impressionato, più
di venti anni fa, dal suo “I pilastri della libertà”, tanto che dopo di quello,
con l’aiuto di mia madre come attenta lettrice, andammo a leggere tutta la sua
produzione, e lo seguimmo negli anni, coscienti che, senza grandi voli, non
avrebbe neanche riservato brutte sorprese. Quattro anni fa, all’uscita di
questo librone, che rappresentava un seguito ideale dei pilastri, lo regali ad
un compleanno materno, aspettando di leggerlo dopo di lei. Ma il tempo passava
e lei non si decideva a finirlo, anche perché è ben pesante, con le sue quasi
1400 pagine. Ora, preso nelle more del riposo dovuto alla schiena balzana, mi
decisi a riprenderlo ed a leggerlo prima dell’augusta genitrice. Ed ha
mantenuto le sue promesse. Non è un “bel” libro, anzi contiene forse dei punti
ripetitivi, e situazioni prevedibili. Ma è un libro che scorre bene, nonostante
il numero esagerato di pagine. E che percorre poco meno di 40 anni della vita
nella comunità di Kingsbridge, quella che aveva visto le scene eroiche di
Timothy, di Jack il costruttore e di lady Aliena. Ora sono passati circa 200
anni, e Follett affronta una nuova trasformazione del tessuto urbano inglese.
Siamo sempre con lord, signori e servi, con priori ed abbazie, ma si va
affacciando la nuova classe borghese, i commercianti, che, a poco a poco,
affiancheranno i precedenti nella guida delle città. Perché ci sarà sempre più
bisogno di soldi per poter gestire situazioni urbane complesse. Follett al
solito si muove lasciando questi fondali avanzare a volte in primo piano, ma
seguendo le vicende umane, in quel gusto per la “piccola storia” che fece
gigante il bel film di Scola sulla Rivoluzione Francese. I fondali sono appunto
il lento passaggio da una comunità agricola ad una commerciante, con il loro
faticoso ma necessario convivere. E sono le lotte di potere, che sempre
investono i governanti dell’epoca, anche se per tutto il tempo della storia
rimane a guidare l’Inghilterra Edoardo III, uno dei sovrani più longevi. Uno
che sale al trono perché la madre uccide il padre Edoardo II, ma che riesce a
prendere, ancora sedicenne, le redini del comando. Ma che è anche molto
irascibile, tanto che non esita a guerreggiare con i francesi, dando avvia a
quella che sarà nota come la Guerra dei Cento Anni. Mirabile, da parte di
Follett, l’inserimento della battaglia di Crecy nell’ordito della storia.
Storia che vede protagonisti e segue nel corso degli anni, quattro ragazzini
intorno ai 10 anni, che si ritrovano, all’inizio del racconto, ad assistere ad
uno scontro cruento tra un cavaliere e due loschi figuri. Aiuteranno Thomas, e
saranno legati al segreto della sua esistenza e della sua lotta per il resto
del libro. C’è Gwenda, la ladruncola, che si innamorerà presto del giovane
Wulfric a cui legherà per sempre la sua vita, lottando per non essere venduta e
stuprata, e poi lottando per riottenere le terre sottratte al marito, ed in
fondo, pur nelle difficoltà, è un personaggio che mantiene una sua retta via.
Anche se ad un certo punto dovrà scegliere tra i figli e l’onestà. C’è Ralph,
il più piccolo, ma il più forte, atletico, ragazzo senza pensieri, ma
profondamente cattivo, con l’unica mira di ricostruire la fortuna della sua
famiglia dilapidata dalle dissennate scelte paterne, che si farà scudiero,
combatterà, si farà onore sul campo, ma riuscirà ad emergere solo attraverso
stupri, ruberie e meschine macchinazioni. C’è suo fratello maggiore, Merthin,
il genio delle costruzioni, con l’innata abilità manuale, discendente alla
lontana di Jack il costruttore, che sarà appunto avviato alle professioni
manuali, e ben presto emergerà come architetto. Architetto della rinascita di
Kingsbridge: sue le decisioni su come ricostruire il ponte crollato e come
rifare la torre della cattedrale. E sua l’ascesa dalla parte dei commercianti,
che lo vedrà alla fine, onesto ed assennato com’è, con una posizione ben più
solida del fratello. Anche se per fare questo, dovrà prima emigrare a Firenze,
sopravvivere alla peste, tornare all’ovile e cercare, giorno dopo giorno, di
riconquistare il suo spazio accanto alla donna amata. E c’è Caris, la fanciulla
poi donna amata, proto-femminista, che non vuol soggiacere agli obblighi
convenzionali di moglie e madre sfruttata, e che per una serie di circostanze
dovrà presto entrare in convento. Lì riuscirà a realizzare i suoi sogni di
infermiera prima, poi di ospitaliera ed infine anche di badessa, sempre avendo
nella mente la volontà di far bene al prossimo. Bene che culminerà con la lunga
ed alla fine vittoriosa battaglia contro la peste. Ma finirà anche con
ritrovarsi insieme all’amato? Questo è uno dei punti da lasciare in sospeso.
Tanto altro ci sarebbe da narrare, laddove Follett usa archetipi per mostrare
alcune tipologie ben presenti all’epoca: signorotti corrotti, priori alla
ricerca del lustro personale, costruttori malfidati ed inaffidabili. Ripeto, è
un po’ lungo, tanto che a volte Follett stesso fa dei mini riassunti di quanto
è successo 2-300 pagine prima, che qualcosa può sfuggire. Ma ora ne ho fin
troppo parlato. È un buon libro, scorrevole. Adatto appunto a lunghi momenti di
riposo, anche senza sconfinare in convalescenza che non si augurano, perché
purtroppo prima di una convalescenza c’è sempre una malattia.
Geraldine Brooks “I custodi del libro” Beat euro 9
[in: 05/01/2011 – out:
12/10/2011]
[tit. or.: People of the Book; ling. or.: inglese; anno 2008]
Non so perché ma gli scrittori
australiani mi hanno sempre ispirato fiducia. Forse perché sembra che abbiano
il tempo dalla loro, e non si risparmiano nelle ricerche storiche. La Brooks
non fa eccezione e costruisce un libro decente anche se non eccelso. Ma mi
incuriosisce e penso che cercherò altri suoi scritti. In questa sua ultima
prova, tra l’altro tributaria della sua abilità di giornalista, ricostruisce,
romanzandola, la storia dell’Haggadah di Sarajevo. Per chi fosse digiuno,
l’Haggadah è un libro che gli ebrei leggono durante la Pasqua ebraica, dove si
narrano gli episodi cardine del popolo ebraico: l’esodo, le dieci piaghe, il
Mar Rosso, i dieci Comandamenti, e così via. Non è un libro “istituzionale”,
cioè non è uno dei libri canonici, che il contenuto varia da famiglia a
famiglia, contenendo a volte omelie rabbiniche ed altre varianti. Ma è un
momento sacro per gli ebrei, che con la sua lettura, fatta dal più giovane del
consesso, rievocano i momenti della loro storia e mantengono un filo diretto
con il proprio passato. Quella detta “di Sarajevo” ha una sua importanza perché
contiene 34 miniature non usuali in tali libri e perché, inoltre, è
sopravvissuta alle guerre serbo-bosniache della fine del Millennio. Salvata,
libro ebraico, da un bibliotecario mussulmano. La Brooks, costruendo fittizi
personaggi, rievoca da un lato la storia recente del libro, compresi accenni
alle stragi di Sarajevo che sono ancora ferite aperte. Dall’altro, sulla base
di alcuni indizi e della testimonianza di una donna ebrea, testimonianza
conservata nel Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, la storia del libro a
ritroso nel tempo. Le ultime vicende, abbastanza aderenti alla realtà, che si
mutuano dalla storia di Mira Papo (nel libro indicata come Leila) che aiuta il
salvataggio del libro durante l’occupazione nazista della seconda guerra
mondiale. La ricercatrice Hanna, il personaggio fittizio che fa da filo
conduttore, ricostruendo la rilegatura del libro, trova indizi ed elementi che
consentono alla Brooks di imbastire varie storie, prima durante il ritrovamento
a Vienna intorno al 1890, poi durante il salvataggio del libro dal rogo dei
libri eretici a Venezia nel 1600, fino al momento della sua costruzione, tra il
1480 ed il 1492, nella Spagna moresca. Ed in tutti i momenti della vita di
questo libro potentemente ebraico, sono piene le vicende di altra gente, che fa
sempre riferimento a libri sacri. Cristiani e Mussulmani, ovviamente. Tutto
questo affresco si riflette nel titolo del libro, che gioca sul doppio
significato di “Gente del libro”. Perché in tutto il romanzo seguiamo le
vicende legate alla gente che ruota intorno a questo libro. E perché “Gente del
libro” è detta dai Mussulmani di coloro che, pur non essendo segaci del Corano,
hanno fede in libri che la tradizione coranica ingloba nella cosmogonia
islamica. Ed è proprio questo, il messaggio più forte che mi rimanda. Lì dove,
per salvare qualcosa che va al di là delle convinzioni personali, gente legata
a religioni diverse si unisce per dare dignità e rispetto alle vite reciproche.
Peccato che tutto ciò si sia perso nel titolo italiano, perché quel “Custodi”
seppur lega con i personaggi, li slega (scusate il gioco di parole) dal
significato che se ne poteva trarre. Viene così ridotto ad un libro storico
perdendo buona parte di una sua valenza. Mi piace comunque il modo di
intrecciare finzione e realtà della Brooks, sia nel rapporto tra Hanna e la
madre, che non aggiunge nulla all’Haggadah, ma molto al rispetto reciproco (o
alla sua mancanza), sia nella figura del padre di Hanna e dei suoi rapporti con
gli aborigeni australiani. Un bel passo, così come quello delle pitture
rupestri e di altri inserti “di restauro”, come si direbbe ora. Alla fine, la
storia ha anche degli interrogativi o dei presunti misteri, ma sono trattati
con mano lieve e si vede che non fanno parte delle corde dello scrivere della
Brooks. Quindi risulta un libro di buon piacere, anche se non coinvolgente fino
in fondo. Rimane il piacere dell’andare su e giù per momenti bui dell’umanità.
E di poterne uscire, visto che siamo qui a parlarne. Speriamo di uscire anche
da tutti gli altri momenti bui che ci circondano ed andare verso
quell’altipiano di serenità cui tutti aspiriamo.
“La decina di tazze di caffè turco che mi erano state servite nel corso
della giornata avevano contribuito a tenermi sveglia.” (22)
“Le miniature presentavano anche … il rosso vermiglio … ricavato da
certi insetti che dimorano sugli alberi, pestati e bolliti … In seguito gli alchimisti impararono a
produrre un rosso molto simile mescolando zolfo e mercurio, ma continuarono a
chiamarlo vermiglio, vermiculum.” (24)
“Un lavoro ben fatto è quello che non lascia tracce.” (43)
Redatte in un altro dei
momenti bui che avvolgano la nostra Italia, queste trame tributano anche un
gentile, doveroso e sentito omaggio a tutte le bilance che, in vario modo e più
di quanto aspettassi, hanno riempito la mia vita. Prima fra tutte, ma solo
perché senza di lei io non sarei qui tra voi, la mia caparbia mamma che
festeggeremo in settimana.
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