mercoledì 16 maggio 2012

Storie romanzate - 16 ottobre 2011

Questa settimana ci immergiamo in un po’ di passato, più o meno recente, con dei romanzi ambientati qua e là nel tempo. Da un lato la spagnola Asensi e l’inglese Follett con i loro romanzi nel cuore del 1300-1400 europeo, tra ospitalieri, templari e nascita della borghesia inglese. Dall’altro, l’inglese Elizabeth Peters (fa non confondere con la Ellis Peters di fratelli Cadfael) e le saghe di inizio novecento in Egitto, e l’australiana Brooks, con una bella storia attraverso il tempo appresso ad un libro sacro. Qualche discreta pagina per ripensare all’evolversi del tempo, aspettando di tornare ai bei saggi di Barbero sulla nascita dell’immigrazione in Europa, ai tempi dei Sacri Romani Imperi.
Matilde Asensi “Iacobus” BUR euro 8,60 (in realtà, scontato 7,74 euro)
[in: 07/11/2010 – out: 07/01/2011]
[tit. or.: Iacobus; ling. or.: spagnolo; anno 2000]
Ancora acerbità e scontatezza nella simpatica spagnola. Ribadisco il concetto che è un po’ tanto lontana dalla Gimenez-Bartlett, ma anche (pur nella sua vena altalenante) dalla Extebarria. Ed allora perché ne leggo? La storia nasce dal fatto che, in attesa una vacanza sevigliana, lessi che la Asensi scrisse proprio di Siviglia. Trovandomi a Granada ne cercai qualcosa senza successo, per poi trovarne il primo di cui ho parlato, giù a Siviglia lo scorso anno. Incuriosito, ho insistito ed ho trovato questa sua seconda prova (ma niente Siviglia, ancora). Che ho letto con scorrevolezza, ma anche con poco entusiasmo. Siamo nel versante “templari” ed altre storicità intorno al 1300. Qui abbiamo un ospitaliere di San Giovanni (nemici dei Templari) che si trova invischiato nella ricerca dei tesori nascosti dai seguaci di de Molay prima della sua morte. Il nostro García è di buon ragionamento, e ben si muove negli ambiti delle tresche dell’epoca. Tutta la prima parte, sempre con quel piglio un po’ giornalistico, dove si rivelano le trame e gli intrighi che portano alla morte cruenta del papa Clemente V e di Filippo re di Francia, sono interessanti. Poi, per trovare i tesori di cui sopra, il buon Garcia intraprende il sentiero di Santiago de Compostela, da Avignone sino a Finisterre. Beh, questa parte è un po’ tiratina. Anche perché si accompagna lungo il viaggio con Jonas, suo figlio naturale ora ritrovato, e con la bella ebrea Sara la maga dai capelli bianchi. Ma tutta questa parte, che si vuole piena di momenti gialli e di suspense, è un po’ inficiata dall’exergo, dove ponendo le basi della scrittura, già si capisce dove vuole arrivare. E dal fatto che, viaggiando con una bella signorina piena di efelidi, si intuisce già dove vuole andare a parare. La costruzione dei misteri templari, con le chiese sparse sul territorio, ed i simboli misterici della croce a forma di tau ed altre simbologie, lascia un po’ il tempo che trova (anche perché le storie sull’Arca dell’Alleanza sono un po’ trite, e divertenti solo se trattate da Indiana Jones). Non è sufficientemente addentro per incuriosire, né superficiale da non scalfire la trama. Anzi, in un certo qual modo la appesantisce. Scansate trappole ed altre perigliosità del viaggio, si arriverà ad una conclusione articolata ma non molto sorprendente. Rimane un po’ della narrazione d’epoca. La Asensi si è di certo documentata (ricordiamo la sua origine sulla carta stampata), e ben scrive del modo di vivere in quel primo ventennio del XII secolo. Non ha ancora un piglio robusto di narrazione, ma nel complesso ha comunque i suoi lati positivi. Insomma, anche se dubbioso leggerò quale altra sua prova prima di decidere se la inserisco nel mio allargato pantheon di autori da seguire.
“Ricorda che si può sempre scegliere. Sempre. Nella tua vita, da quando cominci ad avere un certo controllo su di essa, si alternano le scelte azzeccate e quelle errate, ma sempre di scelte si tratta. … Se giungi dove intendi arrivare, allora hai scelto bene … altrimenti, vuol dire che a un certo punto ti sei sbagliato, che hai preso la decisione errata e che quelle successive ne sono state influenzate” (61)
“Ricordami che tra le prime cose che ti devo insegnare vi sono le lingue araba ed ebraica. Senza di esse oggigiorno non si può andare per il mondo” (80)
“Che importa avere un nome oggi e un altro domani? … Io sono il medesimo con qualsiasi nome” (188)
“L’adolescenza è un’età terribile della vita, come si dice, ma non per chi la vive, bensì per chi deve sopportarla” (190)
“Se si nega qualcosa con forza e perseveranza sufficienti, risulta impossibile smentirlo senza prove” (199)
“Questo è il problema di non essere immortali: ci perdiamo il futuro” (200)
Elizabeth Peters “Il faraone assassino” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,74 euro)
[in: 07/11/2010 – out: 30/05/2011]
[tit. or.: The Curse of the Pharaohs; ling. or.: inglese; anno 1981]
Niente di trascendente, solo l’indulgenza al vizio di amare i paesi arabi, e l’Egitto, di amare il viaggio e le sue conseguenze, di amare il deserto e le sue promesse. La Peters è in realtà realmente un’egittologa, che ad un certo punto della sua carriera di studiosa si è voluta cimentare con delle storie ambientate nell’amato Egitto. E quale miglior spinta di scrittura che inventarsi un’appassionata archeologa ed ambientarne le vicende nell’ultima parte del secolo XIX, quando l’Egitto era (quasi) tutto da scoprire? Nasce così il personaggio di Amelia Peabody, un po’ suffragetta, che inizia la saga e si innamora del valente Radcliffe. Questo è il secondo di una ventina di episodi scritti dall’ormai più che ottantenne inglese, dove ancora stiamo approfondendo i personaggi principali. Amelia e Radcliffe si sono sposati, ed hanno avuto un bel bambino, soprannominato Ramses, discretamente precoce e anti-conformista come i genitori. Ramses piccolo, i due passano alcuni anni nella natia Inghilterra, ma, ora, compiuti i 5 anni, lo lasciano alla zia Evelyn, e tornano con gioia all’amata Luxor (lasciandomi alcune pagine sull’atmosfera cairota di fin de siècle veramente intonate). Nella Valle, che poi diventerà quella dei Re e delle Regine, un filantropo inglese trova una possibile nuova tomba. Ma ben presto muore, e l’affranta Lady incarica i nostri di proseguire gli scavi. Così, con il miscuglio già presente nel primo episodio, di scavi funestati da problemi, e del diverso mondo che a vario titolo “sverna” in quel caldo paese, si imbastisce la trama. Certo, il “giallo” non è poi così avvincente, i meccanismi sono un po’ simili al primo libro, fantasmi che svolazzano, morti in apparenza misteriose, americani che bevono, giornalisti irlandesi che inventano fantasiosi articoli per i lontani giornali della patria, irreprensibili archeologi tedeschi, belle fanciulle. Insomma tutto l’armamentario per descrivere le varie presenze reperibili in quegli anni nella bella città di Luxor. Ma anche gli arabi fidati, i predatori di tombe, le donne velate. E lui, il bello, intrigante, mai stancante, deserto, con le sue distese, ma anche con le sue rocce. Con i suoi pericoli, e con quei momenti (penso alle nostre albe in Libia) che mai si potranno scordare. Il libro scorre via piacevolmente, con quella sana dose di ironia, dovuta al fatto che, ambientando il tutto a fine Ottocento, si possono prendere in giro anche i costumi delle donne che attraversano il deserto in crinolina, o quelle che, infatuatesi dell’Oriente, perdono la testa per un paese dove anche con pochi mezzi si fa una vita molto più che dignitosa. Alla fine tutto si aggiusta, chi deve essere punito verrà punito, chi deve essere premiato troverà la giusta ricompensa. Ed i nostri due eroi potranno anche tornare (ma forse per poco) a giocare con il buon Ramses (che mi aspetto, nei successivi episodi, di vedere trasportato anche lui in Egitto). Gradevole e rilassante. Non eccelso, ma ci vuole anche questo, ora.
“Immagini [il lettore] di sedere con me sulla terrazza dell’hotel Shepheard, al Cairo. Il cielo è d’un brillante blu porcellana. Imparziale, il sole getta i suoi benevoli raggi … su tutta l’infinta varietà di persone che compongono l’affaccendata folla che attraversa l’ampia via principale davanti a noi.” (51)
Ken Follett “Mondo senza fine” Mondadori s.p. (prestato da mamma)
[in: 11/09/2011 – out: 19/09/2011]
[tit. Word without end; ling. or.: inglese; anno 2007]
Lunga la storia di questo lungo libro e del mio rapporto di stima verso un autore di non grande spessore, ma capace di costruire dei degni romanzi, soprattutto laddove riesce ad imbrigliare parti della storia. Rimasi ben impressionato, più di venti anni fa, dal suo “I pilastri della libertà”, tanto che dopo di quello, con l’aiuto di mia madre come attenta lettrice, andammo a leggere tutta la sua produzione, e lo seguimmo negli anni, coscienti che, senza grandi voli, non avrebbe neanche riservato brutte sorprese. Quattro anni fa, all’uscita di questo librone, che rappresentava un seguito ideale dei pilastri, lo regali ad un compleanno materno, aspettando di leggerlo dopo di lei. Ma il tempo passava e lei non si decideva a finirlo, anche perché è ben pesante, con le sue quasi 1400 pagine. Ora, preso nelle more del riposo dovuto alla schiena balzana, mi decisi a riprenderlo ed a leggerlo prima dell’augusta genitrice. Ed ha mantenuto le sue promesse. Non è un “bel” libro, anzi contiene forse dei punti ripetitivi, e situazioni prevedibili. Ma è un libro che scorre bene, nonostante il numero esagerato di pagine. E che percorre poco meno di 40 anni della vita nella comunità di Kingsbridge, quella che aveva visto le scene eroiche di Timothy, di Jack il costruttore e di lady Aliena. Ora sono passati circa 200 anni, e Follett affronta una nuova trasformazione del tessuto urbano inglese. Siamo sempre con lord, signori e servi, con priori ed abbazie, ma si va affacciando la nuova classe borghese, i commercianti, che, a poco a poco, affiancheranno i precedenti nella guida delle città. Perché ci sarà sempre più bisogno di soldi per poter gestire situazioni urbane complesse. Follett al solito si muove lasciando questi fondali avanzare a volte in primo piano, ma seguendo le vicende umane, in quel gusto per la “piccola storia” che fece gigante il bel film di Scola sulla Rivoluzione Francese. I fondali sono appunto il lento passaggio da una comunità agricola ad una commerciante, con il loro faticoso ma necessario convivere. E sono le lotte di potere, che sempre investono i governanti dell’epoca, anche se per tutto il tempo della storia rimane a guidare l’Inghilterra Edoardo III, uno dei sovrani più longevi. Uno che sale al trono perché la madre uccide il padre Edoardo II, ma che riesce a prendere, ancora sedicenne, le redini del comando. Ma che è anche molto irascibile, tanto che non esita a guerreggiare con i francesi, dando avvia a quella che sarà nota come la Guerra dei Cento Anni. Mirabile, da parte di Follett, l’inserimento della battaglia di Crecy nell’ordito della storia. Storia che vede protagonisti e segue nel corso degli anni, quattro ragazzini intorno ai 10 anni, che si ritrovano, all’inizio del racconto, ad assistere ad uno scontro cruento tra un cavaliere e due loschi figuri. Aiuteranno Thomas, e saranno legati al segreto della sua esistenza e della sua lotta per il resto del libro. C’è Gwenda, la ladruncola, che si innamorerà presto del giovane Wulfric a cui legherà per sempre la sua vita, lottando per non essere venduta e stuprata, e poi lottando per riottenere le terre sottratte al marito, ed in fondo, pur nelle difficoltà, è un personaggio che mantiene una sua retta via. Anche se ad un certo punto dovrà scegliere tra i figli e l’onestà. C’è Ralph, il più piccolo, ma il più forte, atletico, ragazzo senza pensieri, ma profondamente cattivo, con l’unica mira di ricostruire la fortuna della sua famiglia dilapidata dalle dissennate scelte paterne, che si farà scudiero, combatterà, si farà onore sul campo, ma riuscirà ad emergere solo attraverso stupri, ruberie e meschine macchinazioni. C’è suo fratello maggiore, Merthin, il genio delle costruzioni, con l’innata abilità manuale, discendente alla lontana di Jack il costruttore, che sarà appunto avviato alle professioni manuali, e ben presto emergerà come architetto. Architetto della rinascita di Kingsbridge: sue le decisioni su come ricostruire il ponte crollato e come rifare la torre della cattedrale. E sua l’ascesa dalla parte dei commercianti, che lo vedrà alla fine, onesto ed assennato com’è, con una posizione ben più solida del fratello. Anche se per fare questo, dovrà prima emigrare a Firenze, sopravvivere alla peste, tornare all’ovile e cercare, giorno dopo giorno, di riconquistare il suo spazio accanto alla donna amata. E c’è Caris, la fanciulla poi donna amata, proto-femminista, che non vuol soggiacere agli obblighi convenzionali di moglie e madre sfruttata, e che per una serie di circostanze dovrà presto entrare in convento. Lì riuscirà a realizzare i suoi sogni di infermiera prima, poi di ospitaliera ed infine anche di badessa, sempre avendo nella mente la volontà di far bene al prossimo. Bene che culminerà con la lunga ed alla fine vittoriosa battaglia contro la peste. Ma finirà anche con ritrovarsi insieme all’amato? Questo è uno dei punti da lasciare in sospeso. Tanto altro ci sarebbe da narrare, laddove Follett usa archetipi per mostrare alcune tipologie ben presenti all’epoca: signorotti corrotti, priori alla ricerca del lustro personale, costruttori malfidati ed inaffidabili. Ripeto, è un po’ lungo, tanto che a volte Follett stesso fa dei mini riassunti di quanto è successo 2-300 pagine prima, che qualcosa può sfuggire. Ma ora ne ho fin troppo parlato. È un buon libro, scorrevole. Adatto appunto a lunghi momenti di riposo, anche senza sconfinare in convalescenza che non si augurano, perché purtroppo prima di una convalescenza c’è sempre una malattia.
Geraldine Brooks “I custodi del libro” Beat euro 9
[in: 05/01/2011 – out: 12/10/2011]
[tit. or.: People of the Book; ling. or.: inglese; anno 2008]
Non so perché ma gli scrittori australiani mi hanno sempre ispirato fiducia. Forse perché sembra che abbiano il tempo dalla loro, e non si risparmiano nelle ricerche storiche. La Brooks non fa eccezione e costruisce un libro decente anche se non eccelso. Ma mi incuriosisce e penso che cercherò altri suoi scritti. In questa sua ultima prova, tra l’altro tributaria della sua abilità di giornalista, ricostruisce, romanzandola, la storia dell’Haggadah di Sarajevo. Per chi fosse digiuno, l’Haggadah è un libro che gli ebrei leggono durante la Pasqua ebraica, dove si narrano gli episodi cardine del popolo ebraico: l’esodo, le dieci piaghe, il Mar Rosso, i dieci Comandamenti, e così via. Non è un libro “istituzionale”, cioè non è uno dei libri canonici, che il contenuto varia da famiglia a famiglia, contenendo a volte omelie rabbiniche ed altre varianti. Ma è un momento sacro per gli ebrei, che con la sua lettura, fatta dal più giovane del consesso, rievocano i momenti della loro storia e mantengono un filo diretto con il proprio passato. Quella detta “di Sarajevo” ha una sua importanza perché contiene 34 miniature non usuali in tali libri e perché, inoltre, è sopravvissuta alle guerre serbo-bosniache della fine del Millennio. Salvata, libro ebraico, da un bibliotecario mussulmano. La Brooks, costruendo fittizi personaggi, rievoca da un lato la storia recente del libro, compresi accenni alle stragi di Sarajevo che sono ancora ferite aperte. Dall’altro, sulla base di alcuni indizi e della testimonianza di una donna ebrea, testimonianza conservata nel Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, la storia del libro a ritroso nel tempo. Le ultime vicende, abbastanza aderenti alla realtà, che si mutuano dalla storia di Mira Papo (nel libro indicata come Leila) che aiuta il salvataggio del libro durante l’occupazione nazista della seconda guerra mondiale. La ricercatrice Hanna, il personaggio fittizio che fa da filo conduttore, ricostruendo la rilegatura del libro, trova indizi ed elementi che consentono alla Brooks di imbastire varie storie, prima durante il ritrovamento a Vienna intorno al 1890, poi durante il salvataggio del libro dal rogo dei libri eretici a Venezia nel 1600, fino al momento della sua costruzione, tra il 1480 ed il 1492, nella Spagna moresca. Ed in tutti i momenti della vita di questo libro potentemente ebraico, sono piene le vicende di altra gente, che fa sempre riferimento a libri sacri. Cristiani e Mussulmani, ovviamente. Tutto questo affresco si riflette nel titolo del libro, che gioca sul doppio significato di “Gente del libro”. Perché in tutto il romanzo seguiamo le vicende legate alla gente che ruota intorno a questo libro. E perché “Gente del libro” è detta dai Mussulmani di coloro che, pur non essendo segaci del Corano, hanno fede in libri che la tradizione coranica ingloba nella cosmogonia islamica. Ed è proprio questo, il messaggio più forte che mi rimanda. Lì dove, per salvare qualcosa che va al di là delle convinzioni personali, gente legata a religioni diverse si unisce per dare dignità e rispetto alle vite reciproche. Peccato che tutto ciò si sia perso nel titolo italiano, perché quel “Custodi” seppur lega con i personaggi, li slega (scusate il gioco di parole) dal significato che se ne poteva trarre. Viene così ridotto ad un libro storico perdendo buona parte di una sua valenza. Mi piace comunque il modo di intrecciare finzione e realtà della Brooks, sia nel rapporto tra Hanna e la madre, che non aggiunge nulla all’Haggadah, ma molto al rispetto reciproco (o alla sua mancanza), sia nella figura del padre di Hanna e dei suoi rapporti con gli aborigeni australiani. Un bel passo, così come quello delle pitture rupestri e di altri inserti “di restauro”, come si direbbe ora. Alla fine, la storia ha anche degli interrogativi o dei presunti misteri, ma sono trattati con mano lieve e si vede che non fanno parte delle corde dello scrivere della Brooks. Quindi risulta un libro di buon piacere, anche se non coinvolgente fino in fondo. Rimane il piacere dell’andare su e giù per momenti bui dell’umanità. E di poterne uscire, visto che siamo qui a parlarne. Speriamo di uscire anche da tutti gli altri momenti bui che ci circondano ed andare verso quell’altipiano di serenità cui tutti aspiriamo.
“La decina di tazze di caffè turco che mi erano state servite nel corso della giornata avevano contribuito a tenermi sveglia.” (22)
“Le miniature presentavano anche … il rosso vermiglio … ricavato da certi insetti che dimorano sugli alberi, pestati e bolliti …  In seguito gli alchimisti impararono a produrre un rosso molto simile mescolando zolfo e mercurio, ma continuarono a chiamarlo vermiglio, vermiculum.” (24)
“Un lavoro ben fatto è quello che non lascia tracce.” (43)
Redatte in un altro dei momenti bui che avvolgano la nostra Italia, queste trame tributano anche un gentile, doveroso e sentito omaggio a tutte le bilance che, in vario modo e più di quanto aspettassi, hanno riempito la mia vita. Prima fra tutte, ma solo perché senza di lei io non sarei qui tra voi, la mia caparbia mamma che festeggeremo in settimana.

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