venerdì 25 maggio 2012

Saggiamente… gli ABBA - 27 novembre 2011

Mi dispiace per gli amanti della musica, tratti in inganno (forse) dal titolo. Gli ABBA di cui parlo non sono i nostri amici svedesi Agnetha, Bjorn, Benny e Anni-Frid (cui comunque non tolgo tutti i meriti che hanno) ma sono, più “saggiamente”, Aime, Bauman, Bianchi e Augè, autori di 4 saggi di cui parlo questa settimana. E soprattutto, miei autori di riferimento per quando comincio a pensare. All’etica, alla decifrazione del mondo in cui viviamo, ai viaggi. Insomma, a tutte le cose che mi fanno sentire vivo. Per questo sono contento di condividerli, anche perché hanno un tasso di gradimento personale almeno di un gradino in più rispetto a tutti gli altri libri letti ultimamente.
Zygmunt Bauman “Vite di corsa” Il Mulino euro 10
[in: 29/12/2010 – out: 12/06/2011]
[tit. or.: no title; ling. or.: inglese; anno 2009]
Difficile dire il titolo di questa pubblicazione che, in realtà, è originale. Cioè è la “lectio magistralis” tenuta in inglese da Bauman per l’inaugurazione dell’anno accademico 2007-08 dell’Università di Bologna. Nell’anno 2008 Bauman ha riordinato il testo con le note, e l’anno successivo Il Mulino ne pubblica la traduzione di Daniele Francesconi, uscendo come prima assoluta. Detta la storia del libro, veniamo ai contenuti, al solito magistrali come tutti gli scritti del filosofo anglo-polacco. L’idea di base, semplice eppur quanto complessa, è di vedere il tempo attuale come fosse un quadro di Seurat. Il “puntinismo” ci da quell’immagine della realtà solo nel momento in cui riusciamo a vedere tutta una serie di punti da lontano ed amalgamati in un complesso che va al di là del punto singolo. Ma ogni punto singolo è un istante di questo mondo (del quadro, della vita). Che esiste al di là ed al di fuori del punto stesso. E tuttavia, il punto rappresenta il qui ed ora, l’immagine di un momento del complesso che potrebbe avere un interesse proprio. Da questa immagine (collegata ad una branca del sapere che non conoscevo, la cronosociologia), Bauman estrapola due considerazioni diverse e collegate. Il punto, quello del qui ed ora, esiste proprio in quanto si opera una cesura fra il prima ed il dopo. Fra il passato ed il futuro. Questa rottura è una delle (tragiche) conseguenze di quello che lui chiama il mondo moderno, la modernità liquida, quella che si adatta al contenente senza imporne il flusso. Solo rompendo con il passato e cancellando il futuro, nel punto dove siamo ora, c’è quel momento di ricerca della felicità che il mondo liquido ci impone. Ma se si rompe questa continuità (seconda considerazione) non si può che affrontare tutto frammentariamente, e quindi di corsa. Perché quello che andava bene ieri, oggi qualcuno impone sia sorpassato, inutile, economicamente dannoso. Per far andare avanti l’economia liquida bisogna continuare a produrre qualcosa e ad imporlo al consumatore prima che lo stesso si trovi appagato del suo stato. Non è un caso, facciamo un esempio un po’ rude ma attuale, che si tende sempre più a non far pagare la consegna del bene che cerchiamo di acquistare. Quello che viene fatto pagare è il ritiro del bene precedente, quello che non serve più. Con facili passaggi, si vede come l’industria del raccoglimento degli scarti diventa un pilastro della modernità. E chi la controlla realmente, alla fine controlla l’economia. Se io non ritiro gli scarti, tu produttore non trovi spazio per imporre nuovi prodotti e quindi per aumentare il tuo giro d’affari. E tu ricettore dei beni, non hai posti dove mettere i nuovi prodotti, che sono più veloci, migliori, più accattivanti dei precedenti. Da qui si potrebbe aprire una parentesi che in pochi passaggi porta a Saviano e Gomorra, ma il testo non ha questa mira politica. Al solito, Bauman ha mire etiche. E soprattutto (quello che gli rimprovero ad ogni scritto che leggo sempre con piacere ma che alla fine mi lascia con i punti di sospensione per il dopo) è la mancanza di una prospettiva per affrontare, cambiare, destrutturare tutto ciò. Se la vita è una corsa (come ben dimostra in queste poche pagine), come si può girarla verso la lentezza, la sobrietà alla Gesualdi? Rimane sempre irrisolta questa dicotomia tra locale e globale, e non se ne vede l’uscita verso un “glocale” significativo. Ma per tornare al testo, la corsa che Bauman ci fa fare, serve poi a pennellare anche la struttura dell’oggi, in questa ricerca della distruzione del senso di comunità (riprendiamo il discorso, se ognuno pensa al proprio punto, si perde la visione del possibile bene comune, quindi niente comunità, niente stato, solo “auto-affermazione” dell’io). E poiché sta parlando a studenti e professori, non può che (e noi con lui) dolersi del fatto che tutta questa corsa e questo puntinismo serve (sta servendo) anche a minare i fondamenti educativi. Senza punti di riferimento (senza poter guardare il quadro da lontano) come e cosa potremmo insegnare alle nuove generazioni? Il quadro è desolante. E noi siamo qui a contemplare le nascenti macerie dell’oggi. Spero, speriamo che ci sia modo di rallentare. Così potremmo tornare ad incontrarci in un carnevale che non sia un episodio isolato per distrarre le masse, ma sia un momento fondante della nostra vita comune. Ripeto, speriamo. Come spero che Bauman, prima o poi, trovi il modo di dare anche prospettive alle sue visioni.
“da Kundera: le situazioni messe in scena dalla Storia rimangono sotto la luce dei riflettori solo per i primi minuti.” (7)
“nella società dei consumi l’obbligo di scegliere [prende] la forma della libertà di scelta.“ (27)
“da Freud: la fine di un mal di denti ci rende felici, mentre non avere mal di denti non ha lo stesso effetto.” (45)
“Nella vita dell’adesso … la ragione di affrettarsi non è la spinta ad acquisire e conservare ma a scartare e sostituire.” (59)
“Siamo stati trasportati da una civiltà della durata, e quindi dell’apprendimento e della memorizzazione, a una civiltà del transitorio e quindi dell’oblio. Di questo passaggio cruciale la memoria è la prima vittima, mascherata però da danno collaterale. “(73)
 “da Robert Louis Stevenson: viaggiare pieni di speranza è meglio che arrivare.” (84)
“Il dominio conseguito mediante la deliberata coltivazione dell’ignoranza e dell’incertezza è più affidabile e costa meno del potere fondato sull’esaustiva disamina dei fatti e sullo sforzo prolungato di raggiungere un accordo circa la fondatezza dei problemi e i metodi meno rischiosi per affrontarli. L’ignoranza politica perpetua se stessa e la corda intrecciata dell’ignoranza e dell’inazione fa sempre comodo quando si deve mettere il bavaglio o legare le mani alla democrazia.” (94)
Marco Aime “Sensi di viaggio” Ponte alle Grazie euro 10
[in: 27/11/2010 – out: 16/07/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2005]
Un bel libro ed ultima degna lettura effettuata durante il viaggio in Sudamerica. È sempre piacevole leggere gli scritti di Aime, che non mancano mai di proporre spunti interessanti all’onesto lettore. In realtà, l’avevo comperato pensando che facesse una disamina di cosa succede durante un viaggio, soprattutto dal punto di vista di un grande viaggiatore nonché esimio antropologo. Devo dire che questa attesa si è rivelata vana, che mi sono trovato davanti un libro diverso, che non mi aspettavo. Ma proprio questo spiazzamento ha costituito l’ossatura portante delle riflessioni che lo hanno accompagnato. In effetti, Aime fa un doppio percorso, da un lato ricostruendo brandelli dei suoi viaggi, dai primi con zaino e sacco a pelo ad altri, non dico più comodi ma certo più articolati. Inframmezzando questi brani con suoi spunti e riflessioni su vari aspetti del suo viaggiare. Questo mi ha permesso, a me che leggevo durante un viaggio, di ripensare ai miei viaggi, fin dal primo in assoluto, quando, appena tredicenne, affrontammo un lungo tragitto in treno per andare, con genitori e fratellino piccolo, a visitare per la prima volta Parigi. Intendo qui viaggi che portano oltre confine, che con mio padre, grande spirito viaggiante, si era sempre in movimento. Dalle traversate di fine anni cinquanta verso l’Adriatico estivo, al Roma – Aosta con la Fiat 124 fino alla grande visita all’appena distrutta Valle del Belice dopo il famoso terremoto siciliano. E mentre Aime parlava dei suoi giri di autostoppista avevo alla mente le lunghe ore trascorse sotto il sole, poco dopo Barcellona, aspettando con Andrea di trovare un passaggio per Madrid. La grande e conclusiva riflessione si è poi incentrata sul fatto che sì, si può leggere e si può scrivere di viaggio e di viaggi, ma il viaggiare è movimento. Certo, prima del viaggio si può (ed a volte si deve) pensare al viaggio stesso, alle tappe, a cosa si incontrerà. Ma quando il viaggio rimane nella mente è solo un esercizio intellettuale. Non sarà mai il viaggio. Perché il viaggio è fatto delle cose che si vedono, dei suoni che si sentono, degli odori che riempiono l’aria e la testa, delle persone che si incontrano. Tutto costituisce a creare un castello di pietruzze che sono il viaggio e che poi, ricomposte, ordinate e ripensate, consentano di ri-pensare al viaggio stesso dopo averlo fatto. E di sentirsi pronti ad un'altra partenza. Per questo (anche) le foto non mi hanno mai soddisfatto, non riusciranno mai a dare un senso completo al viaggiare. Ma anche il video, perché se non ci sei tu, viaggiatore, al centro della scena, è un'altra cosa. Un film forse. Per questo tengo tutti i miei viaggi al centro della mia memoria, per ripensarli, per costruire sopra le cose che ho vissuto. Per ricordarmi e sentire le parole di Georg a Parigi o di Monica a Madrid, di Mohammed a Tripoli o di Paul a Beirut. E di sentire sotto i denti il pane arabo, il caffè turco, i dim-sum pechinesi e tanto altro. E non posso che finire ricordando ancora una volta una delle frasi che sotto riporto, perché se ti muovi, il sole disegna in modo sempre diverso la tua ombra, e vedendola cambiare, anche tu ti accorgi che non rimani uguale. Che il viaggio, in ogni caso, ti sta cambiando. Come ti cambia la sua fine, ora che l’aereo di nuovo tocca terra, ed io, io penso già a quando ne prenderò un altro…
“Il viaggio è movimento. Non solo del corpo, anche della percezione. Il viaggio è un reinventarsi continuo dei nostri pensieri e dei nostri sensi davanti a paesaggi e volti nuovi.” (27)
 “L’altro lo incontri in cammino. A volte è lui che arriva, ma un incontro vuol sempre dire spostarsi. Lo guardi, lo ascolti e pensi a te stesso e al tuo mondo. Ti ridisegni e reinventi le cose intorno a te. Come quando incontri un amico dopo molto tempo. Vedi che gli anni hanno arrancato sul suo volto, con mano leggera o con passo pesante, comunque sono passati di lì. E pensi anche sul tuo… Ti chiedi che impressione deve fare a lui vederti ora, dopo tanti anni. E ti accorgi che senza di lui, avresti continuato a pensarti diverso.” (48)
“Il viaggio può diventare racconto, un racconto, spesso, spinge a un altro viaggio, ma un racconto non è un viaggio.” (66)
“La tua ombra cambia forma in viaggio … Vedendo la tua ombra cambiare, ti accorgi che muovendoti non rimani mai uguale.” (96)
“Sono i sensi a comandare la mente. E hanno bisogno di movimento… Muoversi, muoversi, muoversi verso quell’orizzonte che non è mai abbastanza vicino, eppure segna il limite del nostro sguardo.” (115)
Marc Augé “Un etnologo nel metro” Elèutheria euro 10
[in: 27/11/2010 – out: 03/08/2011]
[tit. Un ethnologue dans le métro; ling. or.: francese; anno 1986]
Veramente e finalmente un altro bel libro. E soprattutto un bel saggio. Che regge bene i suoi 25 anni, anche se fortunatamente l’autore ha pensato bene di rivederne alcuni contenuti nel 2010, in particolare là dove si citano stazioni del metro che nel frattempo hanno cambiato nome. Ed un libro che si presta ad un duplice livello di lettura, cosa che non guasta per noi che antropologi non siamo. C’è l’ottimo e documentato livello dottrinale, ben spiegato ai profani (anche se con qualche passaggio non facile) nell’introduzione di Francesco Maiello. Il livello di chi, dopo aver girato per il mondo cercando di scoprire le radici tribali negli angoli più impensati, fa un salto di qualità nel pensiero e si domanda: ma non è forse vero che anche nel quotidiano, nell’a noi vicino, ci sono elementi comportamentali che possono venir studiati ed analizzati con gli strumenti classici dell’etnologia? Non è forse vero che in una metropolitana, ma anche in altri spazi delimitai come aeroporti, centri commerciali, stadi, ci sono comportamenti che non possono essere spiegati in maniera semplice, ma che possono venir analizzati con gli strumenti che solitamente vengono usati per spiegare il comportamento dell’altro? Guardando la gente che passa nella metropolitana ci si può domandare chi sia, cosa faccia, come costruisca le proprie giornate in quell’elemento pieno di gente (quindi non isolato) ma che diventa emblema massimo della solitudine. Momento autistico quasi, in cui ognuno pensa al sé, alla propria giornata, e vede scorrere gli altri intorno. Un’antropologia che rappresenta sia la soggettività di chi la vive e la descrive che l’oggettività del rapporto con l’altro. Ed in questo rapporto a volte si enfatizzano costumi che non sapremmo descrivere rimanendo al rapporto del singolo. Poi c’è il livello storico – personale. L’analisi della gnoseologia delle stazioni, della nascita dei loro nomi, del rapporto tra una stazione e l’altra. E la bella avventura mentale di costruirsi percorsi topologicamente coerenti con le proprie mete, laddove cambiare linea significa anche fare delle scelte, provare nuovi incontri. Queste parti sono anche le descrizioni che mi si appiccicano alla mente. Che mi rimandano ai miei vagabondaggi tra le stazioni. Alle mie carte Orange d’abbonamento. La poesia che esercitava la stazione di La Motte – Piquet! La bellezza di uscire all’aperto a Bir Hakeim e vedere la Torre Eiffel. I passaggi alle varie stazioni che contornano il Louvre, e poi uscire a Franklin Delano Roosevelt. Ci sono stazioni che anche ora mi domando se qualcuno si ricorda perché si chiamano così. Chi era Gambetta?  O Monge? O la battaglia di Alèsia? Anche per me vale quanto ad un certo punto dice che ad ogni stazione si applica una pluralità di ricordi, ricordi di quei rari momenti per i quali vale la pena di vivere. Uno per tutti, il ricordo della mia prima visita a Parigi, ancora con i miei genitori, e quella pensione che stava giusto a metà tra la stazione di Sevres-Babylone e di Vaneau, e le discussioni su dove scendere. Ed io che vincevo quasi sempre con Vaneau, perché uscendo da lì, si passava davanti ad un droghiere che aveva delle baguette al prosciutto che allora, io tredicenne, adoravo. Ecco, oltre alla bellezza in sé dello sforzo teorico fatto da Augé, soprattutto nelle parti dove si sforza di chiarire il problema del rapportarsi all’altro nello spazio metropolitano, e nel rispetto reciproco che non può che portare ad una sana democrazia, oltre a questo, c’è la bellezza da madaleine proustiana che non mi rimanda come a lui il riconoscimento dell’esistenza della morte, ma della bellezza di aver vissuto. E di poterlo vivere ancora. Ed anche di poterlo raccontare, sperando di suscitare simili pensieri a tutti i miei amici.
“Giovani: coloro la cui giovinezza significa per gli altri soprattutto che la loro si è allontanata.” (40)
“La democrazia avrà incontestabilmente fatto grandi progressi il giorno in cui i viaggiatori più precipitosi o meno attenti rinunceranno da soli a prendere il corridoio di ingresso per uscire.” (58)
“Il Metro è solitudine senza isolamento.” (59)
“Il Metro mi aveva insegnato che si può cambiare linea e che, se non si sfugge alla sua rete, si può pur sempre fare qualche bella deviazione.” (101)
Enzo Bianchi “Il pane di ieri” Einaudi euro 9,50 (in realtà, scontato euro 8,08)
[in: 04/02/2011 – out: 20/11/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2010]
Non è all’altezza della sua riflessione sull’altro, ed inizia molto intimo ed in sordine. Ma Enzo Bianchi poi esce fuori, con tutti gli stimoli che sempre mi da. Soprattutto sul tema della morte e della vecchiaia, come dalle lunghe citazioni che riporto. Dicevo intimo, perché Bianchi ci porta nella sua terra, con piccoli tocchi autobiografici su giovinezza e infanzia nel Monferrato piemontese. Ma più di questi (il padre, la madre morta quando aveva otto anni, il parroco) sono i tocchi della sapienza paesana prima, e poi la terra ed i suoi frutti, che lo portano a riflessioni sull’oggi (velate) e sul tempo che passa, senza mai cadere nel rimpianto sterile di “!ah, com’era bello il tempo che fu”, ma per trovare gli elementi di continuità che quel tempo, quelle saggezze, dovrebbero, avrebbero bisogno di portare nel nostro oggi. Citando anche altri alti e bassi della sua terra, ci troviamo con lui e con Bobbio a meditare sul detto “Non esageriamo”, che non vuol dire soltanto andare fuori misura, sperperare, sparare troppo alto, ma anche, e soprattutto, socraticamente, conosci te stesso. Che conoscendoti saprai i tuoi limiti, e potrai “non esagerare”. E ci troviamo con lui e Carlo Petrini (sì, quello di slow food) a pensare ai frutti della terra, ed al vivere al loro ritmo. Il pane, il vino con tutta la sapienza del vignaiolo e del vinaiolo, il desco intorno al fuoco, i discorsi tra noi leggeri. Per arrivare a quell’apoteosi di terra e convivialità che è la bagna cauda. Con le acciughe che volano dal Mar Ligure sino al Monferrato. Con l’aglio coltivato e raccolto nei campi. Con la sapienza di fare quella salsa con acciughe, olio e aglio. Portarla calda al centro del tavolo. E convivialmente mangiare le verdure della terra, e parlare delle cose che succedono. Con i ritmi scanditi dalle campane della chiesa di paese. Le nascite, i matrimoni, le morti, ma anche la pioggia, la grandine o l’arrivo del sereno. Scrutare il cielo prima della vendemmia per aspettare il momento giusto di raccogliere l’uva. Lasciarne un po’ (poca) sui tralci per i poveri che non hanno terra. Ed ora l’età avanzata, la vecchiaia, l’accorgersi degli acciacchi, del non riuscire a fare quello che si faceva un dì. Ma se si accoglie il succedere del tempo sapendone cogliere la propria partecipazione consapevole. Se si pensa, un po’ come San Tommaso, che tutto è bene, se si è fatto quanto nelle proprie capacità per farlo (e aggiungerei, visto le mie conoscenze, come direbbero i miei amici arabi, dopo è solo “Inch’allah”, se lo vuole Dio). Ecco che allora anche questa età del tramonto della vita assume la sua giusta luce. Certo, quella dove il sole si va a riposare dietro i monti. E dove si spera che si avrà la capacità di poter dire: “È giunto il momento di andare”. Bianchi, qui, mi riporta alla serenità che non si ha in questi momenti duri. Lui, ovviamente, ha molta ed altra forza ai suoi archi. Non fosse per quell’orto che coltiva nel suo monastero di Bose. Io, noi, più fallaci, ne abbiamo altre, ognuno le sue. Ma per me è bello pensare che si possa arrivare a questo grado di auto-conoscenza, e di pacificazione con sé stessi. Ripeto quello che ho detto all’inizio, quindi, un libro intimo, ma grazie a padre Bianchi che ogni volta ci fa riflettere. Un solo appunto, anche se minore. Bianchi è nato un giorno prima di Lucio Dalla (3/3/43) e non può avere quasi trent’anni durante il Concilio Vaticano II che si è svolto intorno al 1963. Forse un refuso della memoria.
“Ognuno nella vita è chiamato a fare qualcosa, e quel qualcosa lo deve fare, è il suo dovere assoluto.” (9)
“Pochi ci pensano, ma il cibo, come il linguaggio parlato, serve a comunicare, a conoscere e scambiare le identità perché esprime sì l’identità di una terra e della sua cultura, ma sa assumere anche prodotti che vengono da altri lidi e altre culture.” (33)
“Far da mangiare per una persona amata, prepararle un pranzo o una cena è il modo più concreto e semplice per dirgli: Ti amo.” (36)
“Non si celebra [il Natale] … contrapponendosi agli altri, mostrandosi angosciati e cinici e limitandosi a demonizzare quanti non [lo] vivono … da cristiani perché non hanno la fede.” (86)
“Dopo i sessant’anni ci si ritrova più fragili, ci si stanca più facilmente e più in fretta, la vista si affievolisce e il corpo perde agilità. Inizia così un tempo in cui l’orizzonte finale della propria vita non appare più così lontano e diventa arduo rimuoverlo dalla mente: il pensiero della fine incombe, si fa ricorrente, appare ogni volta che si deve prendere una decisione che riguarda il futuro. (109)
“La vecchiaia è una tappa, un cambiamento della vita, una trasposizione di quello che si è; a vivere la vecchiaia si impara, così come si impara a camminare.” (110)
“Come ricordava una canzone di Jacques Brel che cantavo a vent’anni: ‘i vecchi, i vecchi tremano, si assopiscono, vanno dal letto alla finestra, poi dalla finestra alla poltrona, poi dal letto al letto…’” (111)
“Il compito di ciascuno di fronte alla vecchiaia che incalza non è prevederla bensì prepararla, colmando la vita di quanto può sostenerci fino alla morte.” (114)
Fortunatamente non ci sono viaggi in vista, dato che da due giorni mi si è riboccata la schiena, e mi sarebbe difficile muovermi dal “letto di dolore”. Speriamo che l’aggressione con Voltaren e TransAct dia presto i suoi effetti.

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