Mi dispiace per gli amanti della
musica, tratti in inganno (forse) dal titolo. Gli ABBA di cui parlo non sono i
nostri amici svedesi Agnetha, Bjorn, Benny e Anni-Frid (cui comunque non tolgo
tutti i meriti che hanno) ma sono, più “saggiamente”, Aime, Bauman, Bianchi e
Augè, autori di 4 saggi di cui parlo questa settimana. E soprattutto, miei
autori di riferimento per quando comincio a pensare. All’etica, alla
decifrazione del mondo in cui viviamo, ai viaggi. Insomma, a tutte le cose che
mi fanno sentire vivo. Per questo sono contento di condividerli, anche perché
hanno un tasso di gradimento personale almeno di un gradino in più rispetto a
tutti gli altri libri letti ultimamente.
Zygmunt Bauman “Vite di corsa” Il Mulino
euro 10
[in: 29/12/2010 – out: 12/06/2011]
[tit. or.: no title; ling. or.: inglese; anno 2009]
Difficile
dire il titolo di questa pubblicazione che, in realtà, è originale. Cioè è la
“lectio magistralis” tenuta in inglese da Bauman per l’inaugurazione dell’anno
accademico 2007-08 dell’Università di Bologna. Nell’anno 2008 Bauman ha
riordinato il testo con le note, e l’anno successivo Il Mulino ne pubblica la
traduzione di Daniele Francesconi, uscendo come prima assoluta. Detta la storia
del libro, veniamo ai contenuti, al solito magistrali come tutti gli scritti
del filosofo anglo-polacco. L’idea di base, semplice eppur quanto complessa, è
di vedere il tempo attuale come fosse un quadro di Seurat. Il “puntinismo” ci
da quell’immagine della realtà solo nel momento in cui riusciamo a vedere tutta
una serie di punti da lontano ed amalgamati in un complesso che va al di là del
punto singolo. Ma ogni punto singolo è un istante di questo mondo (del quadro,
della vita). Che esiste al di là ed al di fuori del punto stesso. E tuttavia,
il punto rappresenta il qui ed ora, l’immagine di un momento del complesso che
potrebbe avere un interesse proprio. Da questa immagine (collegata ad una
branca del sapere che non conoscevo, la cronosociologia), Bauman estrapola due
considerazioni diverse e collegate. Il punto, quello del qui ed ora, esiste
proprio in quanto si opera una cesura fra il prima ed il dopo. Fra il passato
ed il futuro. Questa rottura è una delle (tragiche) conseguenze di quello che
lui chiama il mondo moderno, la modernità liquida, quella che si adatta al
contenente senza imporne il flusso. Solo rompendo con il passato e cancellando
il futuro, nel punto dove siamo ora, c’è quel momento di ricerca della felicità
che il mondo liquido ci impone. Ma se si rompe questa continuità (seconda
considerazione) non si può che affrontare tutto frammentariamente, e quindi di
corsa. Perché quello che andava bene ieri, oggi qualcuno impone sia sorpassato,
inutile, economicamente dannoso. Per far andare avanti l’economia liquida
bisogna continuare a produrre qualcosa e ad imporlo al consumatore prima che lo
stesso si trovi appagato del suo stato. Non è un caso, facciamo un esempio un
po’ rude ma attuale, che si tende sempre più a non far pagare la consegna del
bene che cerchiamo di acquistare. Quello che viene fatto pagare è il ritiro del
bene precedente, quello che non serve più. Con facili passaggi, si vede come
l’industria del raccoglimento degli scarti diventa un pilastro della modernità.
E chi la controlla realmente, alla fine controlla l’economia. Se io non ritiro
gli scarti, tu produttore non trovi spazio per imporre nuovi prodotti e quindi
per aumentare il tuo giro d’affari. E tu ricettore dei beni, non hai posti dove
mettere i nuovi prodotti, che sono più veloci, migliori, più accattivanti dei
precedenti. Da qui si potrebbe aprire una parentesi che in pochi passaggi porta
a Saviano e Gomorra, ma il testo non ha questa mira politica. Al solito, Bauman
ha mire etiche. E soprattutto (quello che gli rimprovero ad ogni scritto che
leggo sempre con piacere ma che alla fine mi lascia con i punti di sospensione
per il dopo) è la mancanza di una prospettiva per affrontare, cambiare,
destrutturare tutto ciò. Se la vita è una corsa (come ben dimostra in queste
poche pagine), come si può girarla verso la lentezza, la sobrietà alla
Gesualdi? Rimane sempre irrisolta questa dicotomia tra locale e globale, e non
se ne vede l’uscita verso un “glocale” significativo. Ma per tornare al testo,
la corsa che Bauman ci fa fare, serve poi a pennellare anche la struttura
dell’oggi, in questa ricerca della distruzione del senso di comunità (riprendiamo
il discorso, se ognuno pensa al proprio punto, si perde la visione del
possibile bene comune, quindi niente comunità, niente stato, solo
“auto-affermazione” dell’io). E poiché sta parlando a studenti e professori,
non può che (e noi con lui) dolersi del fatto che tutta questa corsa e questo
puntinismo serve (sta servendo) anche a minare i fondamenti educativi. Senza
punti di riferimento (senza poter guardare il quadro da lontano) come e cosa
potremmo insegnare alle nuove generazioni? Il quadro è desolante. E noi siamo
qui a contemplare le nascenti macerie dell’oggi. Spero, speriamo che ci sia
modo di rallentare. Così potremmo tornare ad incontrarci in un carnevale che
non sia un episodio isolato per distrarre le masse, ma sia un momento fondante
della nostra vita comune. Ripeto, speriamo. Come spero che Bauman, prima o poi,
trovi il modo di dare anche prospettive alle sue visioni.
“da Kundera: le situazioni messe in scena
dalla Storia rimangono sotto la luce dei riflettori solo per i primi minuti.”
(7)
“nella società dei consumi l’obbligo di
scegliere [prende] la forma della libertà di scelta.“ (27)
“da Freud: la fine di un mal di denti ci
rende felici, mentre non avere mal di denti non ha lo stesso effetto.” (45)
“Nella vita dell’adesso … la ragione di
affrettarsi non è la spinta ad acquisire e conservare ma a scartare e
sostituire.” (59)
“Siamo stati trasportati da una civiltà
della durata, e quindi dell’apprendimento e della memorizzazione, a una civiltà
del transitorio e quindi dell’oblio. Di questo passaggio cruciale la memoria è
la prima vittima, mascherata però da danno collaterale. “(73)
“da
Robert Louis Stevenson: viaggiare pieni di speranza è meglio che arrivare.”
(84)
“Il dominio conseguito mediante la
deliberata coltivazione dell’ignoranza e dell’incertezza è più affidabile e
costa meno del potere fondato sull’esaustiva disamina dei fatti e sullo sforzo
prolungato di raggiungere un accordo circa la fondatezza dei problemi e i
metodi meno rischiosi per affrontarli. L’ignoranza politica perpetua se stessa
e la corda intrecciata dell’ignoranza e dell’inazione fa sempre comodo quando
si deve mettere il bavaglio o legare le mani alla democrazia.” (94)
Marco Aime “Sensi di viaggio” Ponte alle
Grazie euro 10
[in: 27/11/2010 – out: 16/07/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno
2005]
Un bel libro ed ultima degna
lettura effettuata durante il viaggio in Sudamerica. È sempre piacevole leggere
gli scritti di Aime, che non mancano mai di proporre spunti interessanti
all’onesto lettore. In realtà, l’avevo comperato pensando che facesse una
disamina di cosa succede durante un viaggio, soprattutto dal punto di vista di
un grande viaggiatore nonché esimio antropologo. Devo dire che questa attesa si
è rivelata vana, che mi sono trovato davanti un libro diverso, che non mi
aspettavo. Ma proprio questo spiazzamento ha costituito l’ossatura portante
delle riflessioni che lo hanno accompagnato. In effetti, Aime fa un doppio
percorso, da un lato ricostruendo brandelli dei suoi viaggi, dai primi con
zaino e sacco a pelo ad altri, non dico più comodi ma certo più articolati.
Inframmezzando questi brani con suoi spunti e riflessioni su vari aspetti del
suo viaggiare. Questo mi ha permesso, a me che leggevo durante un viaggio, di
ripensare ai miei viaggi, fin dal primo in assoluto, quando, appena tredicenne,
affrontammo un lungo tragitto in treno per andare, con genitori e fratellino
piccolo, a visitare per la prima volta Parigi. Intendo qui viaggi che portano
oltre confine, che con mio padre, grande spirito viaggiante, si era sempre in
movimento. Dalle traversate di fine anni cinquanta verso l’Adriatico estivo, al
Roma – Aosta con la Fiat 124 fino alla grande visita all’appena distrutta Valle
del Belice dopo il famoso terremoto siciliano. E mentre Aime parlava dei suoi
giri di autostoppista avevo alla mente le lunghe ore trascorse sotto il sole,
poco dopo Barcellona, aspettando con Andrea di trovare un passaggio per Madrid.
La grande e conclusiva riflessione si è poi incentrata sul fatto che sì, si può
leggere e si può scrivere di viaggio e di viaggi, ma il viaggiare è movimento.
Certo, prima del viaggio si può (ed a volte si deve) pensare al viaggio stesso,
alle tappe, a cosa si incontrerà. Ma quando il viaggio rimane nella mente è
solo un esercizio intellettuale. Non sarà mai il viaggio. Perché il viaggio è
fatto delle cose che si vedono, dei suoni che si sentono, degli odori che
riempiono l’aria e la testa, delle persone che si incontrano. Tutto costituisce
a creare un castello di pietruzze che sono il viaggio e che poi, ricomposte,
ordinate e ripensate, consentano di ri-pensare al viaggio stesso dopo averlo
fatto. E di sentirsi pronti ad un'altra partenza. Per questo (anche) le foto
non mi hanno mai soddisfatto, non riusciranno mai a dare un senso completo al
viaggiare. Ma anche il video, perché se non ci sei tu, viaggiatore, al centro
della scena, è un'altra cosa. Un film forse. Per questo tengo tutti i miei
viaggi al centro della mia memoria, per ripensarli, per costruire sopra le cose
che ho vissuto. Per ricordarmi e sentire le parole di Georg a Parigi o di
Monica a Madrid, di Mohammed a Tripoli o di Paul a Beirut. E di sentire sotto i
denti il pane arabo, il caffè turco, i dim-sum pechinesi e tanto altro. E non
posso che finire ricordando ancora una volta una delle frasi che sotto riporto,
perché se ti muovi, il sole disegna in modo sempre diverso la tua ombra, e
vedendola cambiare, anche tu ti accorgi che non rimani uguale. Che il viaggio,
in ogni caso, ti sta cambiando. Come ti cambia la sua fine, ora che l’aereo di
nuovo tocca terra, ed io, io penso già a quando ne prenderò un altro…
“Il viaggio è movimento. Non solo del corpo, anche della percezione. Il
viaggio è un reinventarsi continuo dei nostri pensieri e dei nostri sensi
davanti a paesaggi e volti nuovi.” (27)
“L’altro lo incontri in cammino.
A volte è lui che arriva, ma un incontro vuol sempre dire spostarsi. Lo guardi,
lo ascolti e pensi a te stesso e al tuo mondo. Ti ridisegni e reinventi le cose
intorno a te. Come quando incontri un amico dopo molto tempo. Vedi che gli anni
hanno arrancato sul suo volto, con mano leggera o con passo pesante, comunque
sono passati di lì. E pensi anche sul tuo… Ti chiedi che impressione deve fare
a lui vederti ora, dopo tanti anni. E ti accorgi che senza di lui, avresti continuato
a pensarti diverso.” (48)
“Il viaggio può diventare racconto, un racconto, spesso, spinge a un
altro viaggio, ma un racconto non è un viaggio.” (66)
“La tua ombra cambia forma in viaggio … Vedendo la tua ombra cambiare,
ti accorgi che muovendoti non rimani mai uguale.” (96)
“Sono i sensi a comandare la mente. E hanno bisogno di movimento…
Muoversi, muoversi, muoversi verso quell’orizzonte che non è mai abbastanza
vicino, eppure segna il limite del nostro sguardo.” (115)
Marc Augé “Un etnologo nel metro”
Elèutheria euro 10
[in: 27/11/2010 – out: 03/08/2011]
[tit. Un ethnologue dans le métro; ling. or.: francese; anno
1986]
Veramente
e finalmente un altro bel libro. E soprattutto un bel saggio. Che regge bene i
suoi 25 anni, anche se fortunatamente l’autore ha pensato bene di rivederne
alcuni contenuti nel 2010, in particolare là dove si citano stazioni del metro
che nel frattempo hanno cambiato nome. Ed un libro che si presta ad un duplice
livello di lettura, cosa che non guasta per noi che antropologi non siamo. C’è
l’ottimo e documentato livello dottrinale, ben spiegato ai profani (anche se
con qualche passaggio non facile) nell’introduzione di Francesco Maiello. Il
livello di chi, dopo aver girato per il mondo cercando di scoprire le radici
tribali negli angoli più impensati, fa un salto di qualità nel pensiero e si
domanda: ma non è forse vero che anche nel quotidiano, nell’a noi vicino, ci
sono elementi comportamentali che possono venir studiati ed analizzati con gli
strumenti classici dell’etnologia? Non è forse vero che in una metropolitana,
ma anche in altri spazi delimitai come aeroporti, centri commerciali, stadi, ci
sono comportamenti che non possono essere spiegati in maniera semplice, ma che
possono venir analizzati con gli strumenti che solitamente vengono usati per
spiegare il comportamento dell’altro? Guardando la gente che passa nella
metropolitana ci si può domandare chi sia, cosa faccia, come costruisca le
proprie giornate in quell’elemento pieno di gente (quindi non isolato) ma che
diventa emblema massimo della solitudine. Momento autistico quasi, in cui
ognuno pensa al sé, alla propria giornata, e vede scorrere gli altri intorno.
Un’antropologia che rappresenta sia la soggettività di chi la vive e la
descrive che l’oggettività del rapporto con l’altro. Ed in questo rapporto a
volte si enfatizzano costumi che non sapremmo descrivere rimanendo al rapporto
del singolo. Poi c’è il livello storico – personale. L’analisi della
gnoseologia delle stazioni, della nascita dei loro nomi, del rapporto tra una
stazione e l’altra. E la bella avventura mentale di costruirsi percorsi
topologicamente coerenti con le proprie mete, laddove cambiare linea significa
anche fare delle scelte, provare nuovi incontri. Queste parti sono anche le
descrizioni che mi si appiccicano alla mente. Che mi rimandano ai miei
vagabondaggi tra le stazioni. Alle mie carte Orange d’abbonamento. La poesia
che esercitava la stazione di La Motte – Piquet! La bellezza di uscire
all’aperto a Bir Hakeim e vedere la Torre Eiffel. I passaggi alle varie
stazioni che contornano il Louvre, e poi uscire a Franklin Delano Roosevelt. Ci
sono stazioni che anche ora mi domando se qualcuno si ricorda perché si
chiamano così. Chi era Gambetta? O
Monge? O la battaglia di Alèsia? Anche per me vale quanto ad un certo punto
dice che ad ogni stazione si applica una pluralità di ricordi, ricordi di quei
rari momenti per i quali vale la pena di vivere. Uno per tutti, il ricordo della
mia prima visita a Parigi, ancora con i miei genitori, e quella pensione che
stava giusto a metà tra la stazione di Sevres-Babylone e di Vaneau, e le
discussioni su dove scendere. Ed io che vincevo quasi sempre con Vaneau, perché
uscendo da lì, si passava davanti ad un droghiere che aveva delle baguette al
prosciutto che allora, io tredicenne, adoravo. Ecco, oltre alla bellezza in sé
dello sforzo teorico fatto da Augé, soprattutto nelle parti dove si sforza di
chiarire il problema del rapportarsi all’altro nello spazio metropolitano, e
nel rispetto reciproco che non può che portare ad una sana democrazia, oltre a
questo, c’è la bellezza da madaleine proustiana che non mi rimanda come a lui
il riconoscimento dell’esistenza della morte, ma della bellezza di aver
vissuto. E di poterlo vivere ancora. Ed anche di poterlo raccontare, sperando
di suscitare simili pensieri a tutti i miei amici.
“Giovani: coloro la cui giovinezza significa per gli altri soprattutto
che la loro si è allontanata.” (40)
“La democrazia avrà incontestabilmente fatto grandi progressi il giorno
in cui i viaggiatori più precipitosi o meno attenti rinunceranno da soli a
prendere il corridoio di ingresso per uscire.” (58)
“Il Metro è solitudine senza isolamento.” (59)
“Il Metro mi aveva insegnato che si può cambiare linea e che, se non si
sfugge alla sua rete, si può pur sempre fare qualche bella deviazione.” (101)
Enzo Bianchi “Il pane di ieri” Einaudi euro 9,50 (in realtà, scontato
euro 8,08)
[in: 04/02/2011 – out:
20/11/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2010]
Non
è all’altezza della sua riflessione sull’altro, ed inizia molto intimo ed in
sordine. Ma Enzo Bianchi poi esce fuori, con tutti gli stimoli che sempre mi
da. Soprattutto sul tema della morte e della vecchiaia, come dalle lunghe
citazioni che riporto. Dicevo intimo, perché Bianchi ci porta nella sua terra,
con piccoli tocchi autobiografici su giovinezza e infanzia nel Monferrato
piemontese. Ma più di questi (il padre, la madre morta quando aveva otto anni,
il parroco) sono i tocchi della sapienza paesana prima, e poi la terra ed i
suoi frutti, che lo portano a riflessioni sull’oggi (velate) e sul tempo che
passa, senza mai cadere nel rimpianto sterile di “!ah, com’era bello il tempo
che fu”, ma per trovare gli elementi di continuità che quel tempo, quelle
saggezze, dovrebbero, avrebbero bisogno di portare nel nostro oggi. Citando
anche altri alti e bassi della sua terra, ci troviamo con lui e con Bobbio a
meditare sul detto “Non esageriamo”, che non vuol dire soltanto andare fuori
misura, sperperare, sparare troppo alto, ma anche, e soprattutto,
socraticamente, conosci te stesso. Che conoscendoti saprai i tuoi limiti, e
potrai “non esagerare”. E ci troviamo con lui e Carlo Petrini (sì, quello di
slow food) a pensare ai frutti della terra, ed al vivere al loro ritmo. Il
pane, il vino con tutta la sapienza del vignaiolo e del vinaiolo, il desco
intorno al fuoco, i discorsi tra noi leggeri. Per arrivare a quell’apoteosi di
terra e convivialità che è la bagna cauda. Con le acciughe che volano dal Mar
Ligure sino al Monferrato. Con l’aglio coltivato e raccolto nei campi. Con la
sapienza di fare quella salsa con acciughe, olio e aglio. Portarla calda al
centro del tavolo. E convivialmente mangiare le verdure della terra, e parlare delle
cose che succedono. Con i ritmi scanditi dalle campane della chiesa di paese.
Le nascite, i matrimoni, le morti, ma anche la pioggia, la grandine o l’arrivo
del sereno. Scrutare il cielo prima della vendemmia per aspettare il momento
giusto di raccogliere l’uva. Lasciarne un po’ (poca) sui tralci per i poveri
che non hanno terra. Ed ora l’età avanzata, la vecchiaia, l’accorgersi degli
acciacchi, del non riuscire a fare quello che si faceva un dì. Ma se si
accoglie il succedere del tempo sapendone cogliere la propria partecipazione
consapevole. Se si pensa, un po’ come San Tommaso, che tutto è bene, se si è
fatto quanto nelle proprie capacità per farlo (e aggiungerei, visto le mie
conoscenze, come direbbero i miei amici arabi, dopo è solo “Inch’allah”, se lo
vuole Dio). Ecco che allora anche questa età del tramonto della vita assume la
sua giusta luce. Certo, quella dove il sole si va a riposare dietro i monti. E
dove si spera che si avrà la capacità di poter dire: “È giunto il momento di
andare”. Bianchi, qui, mi riporta alla serenità che non si ha in questi momenti
duri. Lui, ovviamente, ha molta ed altra forza ai suoi archi. Non fosse per
quell’orto che coltiva nel suo monastero di Bose. Io, noi, più fallaci, ne
abbiamo altre, ognuno le sue. Ma per me è bello pensare che si possa arrivare a
questo grado di auto-conoscenza, e di pacificazione con sé stessi. Ripeto
quello che ho detto all’inizio, quindi, un libro intimo, ma grazie a padre
Bianchi che ogni volta ci fa riflettere. Un solo appunto, anche se minore.
Bianchi è nato un giorno prima di Lucio Dalla (3/3/43) e non può avere quasi
trent’anni durante il Concilio Vaticano II che si è svolto intorno al 1963.
Forse un refuso della memoria.
“Ognuno nella vita è chiamato a fare qualcosa, e quel qualcosa lo deve
fare, è il suo dovere assoluto.” (9)
“Pochi ci pensano, ma il cibo, come il linguaggio parlato, serve a
comunicare, a conoscere e scambiare le identità perché esprime sì l’identità di
una terra e della sua cultura, ma sa assumere anche prodotti che vengono da
altri lidi e altre culture.” (33)
“Far da mangiare per una persona amata, prepararle un pranzo o una cena
è il modo più concreto e semplice per dirgli: Ti amo.” (36)
“Non si celebra [il Natale] … contrapponendosi agli altri, mostrandosi
angosciati e cinici e limitandosi a demonizzare quanti non [lo] vivono … da
cristiani perché non hanno la fede.” (86)
“Dopo i sessant’anni ci si ritrova più fragili, ci si stanca più
facilmente e più in fretta, la vista si affievolisce e il corpo perde agilità.
Inizia così un tempo in cui l’orizzonte finale della propria vita non appare
più così lontano e diventa arduo rimuoverlo dalla mente: il pensiero della fine
incombe, si fa ricorrente, appare ogni volta che si deve prendere una decisione
che riguarda il futuro. (109)
“La vecchiaia è una tappa, un cambiamento della vita, una trasposizione
di quello che si è; a vivere la vecchiaia si impara, così come si impara a
camminare.” (110)
“Come ricordava una canzone di Jacques Brel che cantavo a vent’anni: ‘i
vecchi, i vecchi tremano, si assopiscono, vanno dal letto alla finestra, poi
dalla finestra alla poltrona, poi dal letto al letto…’” (111)
“Il compito di ciascuno di fronte alla vecchiaia che incalza non è
prevederla bensì prepararla, colmando la vita di quanto può sostenerci fino
alla morte.” (114)
Fortunatamente non ci sono viaggi in vista, dato che da due giorni mi si è riboccata la schiena, e mi
sarebbe difficile muovermi dal “letto di dolore”. Speriamo che l’aggressione
con Voltaren e TransAct dia presto i suoi effetti.
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