giovedì 3 maggio 2012

Torniamo, con impegno - 29 luglio 2011

Trama super-straordinaria, perché oggi non è domenica né tanto meno un dì di festa. Ma finalmente ripresomi dal lungo giro sudamericano, devo recuperare un po’ di tempo. Intanto, do il benvenuto ai nuovi lettori, sperando ci accompagnino a lungo. Per loro, vado a sottolineare le regole delle trame. Sono recensioni periodiche, generalmente festive (solo ora, durante il periodo dei viaggi aumenteranno un po’ che l’accumulo è tanto). Parlo di libri, riporto frasi che mi colpiscono, e, mensilmente, faccio un riassunto delle letture. Se volete commentare, sono qui. Se volete segnalare altri libri, fatelo ed io li farò circolare. Se vi siete stufati, mandatemi una mail ed io vi tolgo da questa lista.
E visto che torniamo, torniamo non su romanzi, ma ricominciamo con qualche più o meno bel saggio. Tutti di buon livello. Ritroviamo il nostro amico antropologo Marco Aime, quello che mi fece innamorare di Timbuctù. Ritroviamo il sempre retto pretore di Bose. E troviamo, con alti e bassi, il gagliardo vecchietto della resistenza francese, che ci invita (ed accogliamo l’invito) ad indignarci.
Marco Aime “Eccessi di cultura” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato 7 euro)
[in: 13/10/2010 – out: 17/11/2010]
Acquistato per due motivi: festeggiare la riapertura di Feltrinelli – Repubblica (sinceramente meglio organizzata di quella precedente) e perché Aime (dai tempi di Timbuctù) mi piace come scrive. Qui poi riflette su temi che da sempre mi appassionano. L’altro, l’incontro, la cultura, anzi le culture, in definitiva l’identità (di gruppo, di persone). E mi stimola a cercarne ancora (due fra tutti, il Teodorv di “Noi e gli altri” ed il solito Baumann di “Intervista sull’identità”). Cultura, identità, etnia, razzismo, questi i cardini fondamentali del libretto dell’ormai (dopo il Mali) a me caro antropologo. Con un filo di ragionamento che seguo e che condivido. Le barriere, i confini vengono fatti appositamente, proprio per demonizzare qualcosa, non per identificarla. Una volta che si etichetta qualcuno con un nome collettivo, non gli si da un’identità, ma in un certo senso, si cerca di rinchiuderlo in un qualcosa diverso da noi, perché quella sua diversità, quella sua identità non è reciproca, ci fa paura, induce problemi. Ed è anche più facile. Molto più facile dire che uno zingaro ruba, uno slavo è violento, un negro ha la musica nel sangue, un ebreo pensa ad arraffare soldi. Molto più difficile dire tizio ruba, ed è zingaro. Tanto difficile che non diciamo tizio ruba, ed è francese, Caio uccide, ed è umbro. Troverete mai un titolo di giornale che dice “un abruzzese stupra una donna”, mentre quante volte si vede un titolo recitare “un rumeno violenta una donna”. Saltando poi sull’altro versante (quello che a torto viene chiamato tolleranza, di cui ho già parlato in trame su Baumann, e che andrebbe chiamato rispetto), ci sono pagine gustose sul tentativo (di ONG, di scuole, di altri elementi sociali) di “integrarsi” con qualcuno, proponendo, ad esempio, una giornata di cibo etnico. Sempre ritorna (ed anche Aime lo cita) quell’aneddoto sulla scuola che per cercare coesione tra i bimbi propone un giorno un couscous per tutti, ed al bimbo marocchino chiede se era buono, se era come lo fa sua madre. Ed il bimbo risponde, si buono, ma io preferisco i tortellini di mia madre. E con Aime andiamo a ribadire che i conflitti che ora vengono mascherati come conflitti culturali, molto spesso, forse sempre, celano altri conflitti, che 9 volte su 10 poi risultano essere economici. L’extra-comunitario va demonizzato perché diverso, ma è diverso perché “ruba il lavoro”. Fino all’estremo opposto, lì dove, se non ci fosse l’altro disposto a fare un certo lavoro, noi, rispettabili bianchi occidentali dotati di sapere, andremmo a scatafascio in un battibaleno. In un certo senso, chiudo gli occhi e mi si ripresenta il quadro sullo scontro tra i Barbari e l’Impero Romano così magistralmente descritto da Barbero. Siamo sempre sulla stessa falsariga. Qui, ora, noi, abbiamo in più la conoscenza, il sapere, la velocità di informazione e quanto rende moderno il nostro mondo attuale. Per dirla tutta e provocatoriamente, quanti guasti attuali derivano dalla dottrina del “Politically Correct” che riserva spazi alle minoranze, stabilendo manuali Cencelli di comportamenti quotidiani. Non dico che non abbia degli elementi di giustezza, come è giusto essere attenti all’ambiente, essere attenti al rispetto del nero, della donna, del cinese, del… del…, ma ad un certo punto, la rigidità di questa coesistenza coatta risulta più dannosa della sua non-esistenza. Anche qui, non so trovare una risposta, né una via “meno dolorosa” di altre. L’unica parola d’ordine che mi viene per regolare le mie attività è quella che sopra citavo: rispetto. Non sono mai stato trattato male né in patria né in tutti i miei girovagare per il mondo, quando mi sono accostato all’altro con rispetto. E quando il rispetto è reciproco non può che essere foriero di belle situazioni. E se, come in passi di altra risonanza, chiamassimo tutto ciò amore?
“Thor Heyerdhal: Le frontiere? Esistono eccome. Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e stanno tute nella mente degli uomini” (6)
“- Siamo tutti uguali – In questo modo si legittima l’altro solo perché è uguale a noi, non perché è diverso e come tale va rispettato” (61)
“Amadou Hampaté Ba: Il sapere è l’unica ricchezza che si può donare interamente senza che diminuisca” (127)
Enzo Bianchi “L’altro siamo noi” Einaudi euro 10
[in: 05/01/2011 – out: 22/02/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2010]
È sempre un piacere leggere le poche pagine del priore di Bose. Al solito, acute, piene di spunti, in gran parte condivisibili. A cominciare dalla copertina dove si parla di dialogo. Che da una parte mi rimanda a mio padre, che lo ha sostenuto per tutta la sua vita ed in tutte le occasioni. Dall’altra al senso etimologico di quel parlare attraverso, cioè intreccio di logos diversi, non per trovare consensi reciproci, ma per cercare un reciproco progresso. Mi è piaciuta moltissimo la prima parte, dove con poche parole ribadisce quel concetto di “stranierità” che, dalla sua ottica fa discendere dal primus inter pares che professandosi straniero poneva con forza il problema del rispetto reciproco. Ma che dalla mia limitata capacità vedo comunque essere un segno distintivo del nostro stare in questo mondo: rovesciando l’ottica, non è la gente ad essere altro per me, ma sono io che mi configuro altro da te (o da voi). Padre Bianchi ribadisce in poche pagine un po’ tutto quello che Sofri aveva lungamente discusso in quel Sellerio commentato due - tre anni fa sul “Prossimo”. E da questo spunto si concatenano una serie di eventi che sono logicamente in successione. Il primo passo è quindi l’uomo come animale relazionale. Il secondo come essere ospitale. E quindi una pausa per ricucire il tutto: i migranti. Gli attuali che sono la versione odierna del “noi” di pochi decenni fa. Ma la memoria è la prima che si cancella, ed oggi questo migrare sfocia nella paura. Invece di sfociare nel suo utilizzo. Come dice giustamente (ed io concordo da sempre) la migrazione non è una parte del problema, ma una parte della soluzione. Senza migranti molti lavori sarebbero non fatti, e l’attuale sistema civile andrebbe in pezzi. Il nostro benessere spinge altri a ricercarlo (poi qui si entra nell’etica pura: lo ricerca utilizzando i modi che vede da me, e se io sono un filibustiere, il migrante impara ad esserlo anche più di me). E non è un caso che quando (come ora) riaffiorano difficoltà, mestieri “poveri” affidati all’altro, vengono ripresi perché non c’è più spazio per il nostro benessere (penso al ritorno delle badanti autoctone). L’altra parte della soluzione, poi, sarebbe quella per cui mi sono sempre battuto, cioè portare il lavoro lì dove nasce la migrazione. Ma questo comporta investire. E nessuno ha trovato il modo di farlo (a mia conoscenza). Passando per un interludio sulla barbarie attuale. La civiltà urlata è uno degli elementi che abbatterei per primo; ma sono i mezzi di comunicazione che la impongono, televisione in primis; e quella che dai punti di partenza dei migranti è vista come finestra sul mondo, per cui la si venera (ricordo un villaggio sperduto in Thailandia, con case su palafitte, e televisione che i locali guardavano affascinati). Per poi mantenere la stessa venerazione al punto di arrivo, peccato che qui la televisione è usata per altri scopi e con altri modi. Ma induce a credere che sia quello il modo. E tutti urlano. Per poi terminare con l’esempio primo della non reciprocità attuale, della sua difficoltà, e della necessità invece di ritornare al dialogo. Nel rapporto tra islam e occidente, ovviamente. E qui riprendo le parole del priore. Perché non è tra cristiano e islamico, lo scontro. Una è una religione, l’altra una civiltà complessa. E dove, nella parte religiosa c’è la difficoltà a vedere il cristiano come “totalmente nemico”, solo perché segue i dettami del “profeta Gesù” (e quindi il cristiano per il mussulmano è un credente che deve fare ancora un passo, non un credente di una religione completamente diversa). Non si possono che sottolineare le due parole che Obama citò con forza nel suo discorso al Cairo: responsabilità e insieme. Responsabilità perché bisogna tenere conto delle conseguenze delle azioni, cioè rispondere delle conseguenze, cioè avere di fronte, come faro illuminante un’etica. E insieme, perché solo nella reciprocità (ed il cerchio si chiude) c’è possibilità di cambiamento e di raggiungimento di un nuovo stato di equilibrio più avanzato. Perché, e qui chiudo questa lunga trama “la pace sarà possibile se ce ne assumeremo tutti insieme la responsabilità”.
“Michel de Certeau … definiva lo storico come colui che ha il gusto dell’altro.” (5)
“Edmond Jabès [affermava che] lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero … La distanza che ci separa dallo straniero è quella stessa che ci separa da noi.” (7)
“La verità dello straniero ha la stessa legittimità della mia verità, ma questo non equivale a dire che, dunque, non c’è verità o che tutte le verità si equivalgono.” (13)
“[facciamo nostre le] esortazioni dell’apostolo Paolo a non rendere a nessuno male per male.” (27)
“L’integrazione è sempre reciproca, è incorporazione in senso forte, cioè non in quanto la comunità autoctona ingloba gli stranieri, ma in quanto ci si incammina verso … un avvenire comune per immigrati e residenti (=diversi, non nemici).” (46)
“Quando i cristiani perdono la memoria della parola della croce … assumono l’abito del crociato.” (81)
“A forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla … contro gli altri.” (81)
“Se la croce è brandita come una spada … chi si fregia del suo nome … contraddice il vangelo.” (81)
Stéphane Hessel “Indignatevi!” add editore euro 5
[in: 03/04/2011 – out: 13/05/2011]
[tit. Indignez-vous !; ling. or.: francese; anno 2010]
Bella lezione del vecchio Hessel (93 anni), partigiano e co-redattore della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (DUDU), per le Nazioni Unite nel 1948. Tuttavia mi aspettavo qualcosa in più. Cioè, il librino è di 60 pagine, ma una metà sono dedicate (giustamente) alla DUDU, che consiglio comunque di leggere a prescindere (la trovate in Internet al seguente indirizzo http://it.wikisource.org/wiki/Dichiarazione_Universale_dei_Diritti_dell’Uomo).
Le pagine dell’indignato Hessel sono una perorazione, accorata, condivisibile, ma forse un po’ ripetitiva, che gira intorno alla frase che sotto riporto. E sulla quale sono d’accordo: non si può restare indifferenti nel mondo d’oggi. Bisogna indignarsi e trovare, a valle dell’indignazione, l’impegno che ne consegue. Tutto il fascino dell’esortazione (almeno in Francia, dove Hessel è ben noto, come sarebbe stata un’esortazione di Pertini ai bei tempi) deriva proprio dalla figura dell’autore e dalla sua storia. Tedesco, naturalizzato francese nel ’37, genitori si direbbe ora un po’ bohemien, tanto da essere immortalati nel bellissimo film di Truffaut “Jules e Jim”, poi partigiano fuggito rocambolescamente ai forni di Buchenwald, estensore della DUDU, diplomatico, e da venti anni ambasciatore di Francia, impegnato per lo più nelle cause dei “sans papiers”. In quella dichiarazione fondante, vengono poste le basi di un vivere civile che ora, palesemente, sono violate in molte parti del mondo. E non solo nel secondo o nel terzo. In Francia stessa (ma si può dire lo stesso in Italia e altrove) si mina lo Stato Sociale, si distrugge la credibilità delle istituzioni, si cerca di rendere sempre più inefficace la fucina di idee che potrebbe essere la scuola. E via discorrendo, che tutti abbiamo di fronte agli occhi gli esempi catastrofici di questo (non) vivere civile. Hessel ci esorta a non essere passivi, a non addormentare il cervello. Ci esorta ad indignarci. E fino a qui, sono in totale accordo. Il difficile è il passo successivo. Ho letto un discreto numero di saggi eticamente accettabili negli ultimi anni. Le analisi accurate di Baumann, le perorazioni di padre Bianchi, il lavoro minimalista di Gesualdi, e ancora e ancora. E metto anche Hessel nella fucina. Poi? Poi si devono trovare dentro di noi le risposte, ed è difficile. Complicato. Non abbiamo più quelle certezze assolute che ci facevano vedere non dico il bene, ma ci convincevano di un lavoro comune per uscire dai tunnel che ogni volta si imboccavano. Ora non abbiamo neanche certezze relative. Hessel, nella sua indignazione, propone di tornare ad un pensare sartriano, che vede il proprio io impegnato a rimuovere le pagliuzze della nausea che ci assale nel vivere in questo tipo di mondo. Ma è una rivolta, se mi si consente, troppo personale, e forse (forse sempre dubitando sto) troppo poco incisiva per scardinare i motivi fondanti dell’indignazione. Non ho soluzione, e non ne troveremo in nessuno di questi autori. Forse per questo mi rimane un po’ d’amaro in bocca. Riusciremo a trovare uno sbocco a tutto ciò? Io, sempre e nonostante tutto, lo spero. Hessel finisce con la seconda frase che riporto. E forse si potrebbero trovare spunti da quella, ma …
“Il nostro è un mondo vasto. … Ma in questo mondo esistono cose intollerabili. Per accorgersene occorre affinare lo sguardo … L’indifferenza è il peggiore di tutti gli atteggiamenti … Comportandoci in questo modo, perdiamo una delle componenti essenziali dell’umano. Una delle sue qualità indispensabili: la capacità di indignarsi e l’impegno che ne consegue” (15)
“Continuiamo a invocare una vera e propria insurrezione pacifica contro i mass media, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti.” (30)
Essendo inoltre la prima trama (e forse l’unica…) di luglio, come i miei amati lettori sanno, riporto l’elenco delle letture e dei gradimenti del mese di aprile, di media lettura (viste le due settimane passate in Asia). Nessuna segnalazione d’eccellenza, salvo un buon Perec.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Andrea Camilleri
Il tailleur grigio
Noir Repubblica
7,90
3
2
Thomas Harris
Il silenzio degli innocenti
Repubblica Giallo
5,90
3
3
Claudio Gianotto
I vangeli apocrifi
Il Mulino
9,80
3
4
Georges Perec
Les choses
Pocket
6,10
4
5
Edward Bunker
Come una bestia feroce
Repubblica Giallo
5,90
3
6
Andrea Camilleri
Gran Circo Taddei e altre storie di Vigata
Sellerio
14
3
7
Leila Marouane
Vita sessuale di un fervente musulmano a Parigi
E/O
9
2
8
Patricia Cornwell
La traccia
Mondadori
9,50
1
9
Arundhati Roy
Il dio delle piccole cose
Repubblica Novecento
4,90
2
10
Yasmina Khadra
Morituri
Folio
10,90
3
11
Yasmina Khadra
Double Blanc
Folio
s.p.
3
12
Yasmina Khadra
L’automne des chymères
Folio
s.p.
3
Anche se colpiti da neve e maltempo, il viaggio latinoamericano è stato degno di nota, per le cose viste e per l’ottimo ed affiatato gruppo. Ancora qualche strascico sul versante “Progetti Europei” ed un bello sguardo ad un promettente Agosto.

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