Ma presto si comincerà anche un
nuovo anno con grandi speranze, attese, promesse e perché no, realizzazioni.
Sempre avanti…
Alessandro Perissinotto “L’anno che
uccisero Rosetta” Sellerio euro 11
[in: 19/12/2010 – out:
03/06/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 1997]
Il
primo libro del nostro torinese. Ed il primo della cosiddetta trilogia noir.
Non perché ci sia continuità di personaggi, ma c’è continuità (anzi contiguità)
di luoghi e situazioni. Un paio di anni fa parlai del terzo, ora finalmente ho
trovato l’introvabile primo. Prima o poi salterà fuori anche quello di mezzo.
Qui siamo sul versante torinese di montagna, dove, a distanza di decenni un non
altrimenti noto commissario viene inviato per ritrovare le fila dell’uccisione
della Rosetta. Uccisione misteriosa, avvenuta nel ’44. E quindi ben facilmente
frammista tra tutto il turbinio di cosa succedeva in quegli anni di guerra.
Come già dissi altrove, anche qui la sua scrittura ha un tratto interessante,
che per tutto il testo si alterna tra il soggettivo del commissario (che a poco
a poco veniamo a conoscere meglio, la sua dirittura, la sua abilità, motivo
dell’invio nello sperduto canavese alla ricerca di una soluzione, il suo
matrimonio ormai finito con la bella Anna) e quello del sindaco del paese,
giovane ai tempi dei misfatti, ma come tutte le persone cui piace raccontare,
con un profluvio di parole, informazioni, ricordi veri o falsi (a volte veri e
falsi, un po’ mescolati). Così, si ricostruisce, su quest’altro versante, la
storia del paese, dei suoi personaggi (Maciste, il Pantera, Carvot, i Traversa,
la famiglia di Rosetta e tutte le loro sfortunate morti, Alpininrussia, e tanti
altri, che ad un certo punto ci si confonde un po’). E in ultimo esce fuori
anche la storia del paese, con le sue leggende storiche, il passaggio
(favoleggiato o reale?) del Conte Rosso (per chi non lo ricorda sarebbe Amedeo
VII di Savoia, gran costruttore dello stato piemontese nei dintorni del 1300),
la figura (inventata, ma mutuata da possibili masnadieri del ‘500) di Ippolito
Berta, ed altro ancora. Tutto per costruire la vicenda complessa del tesoro del
“soculè” e del suo ritrovamento, attraverso gli strani dipinti introdotti in città
da un profugo francese chiamato Chevalier. Questa è la parte un po’ più ostica,
legata a quella tecnica pittorica detta anamorfismo (magistralmente
esemplificato nei quadri di Hans Holbein il Giovane), dove particolari del
quadro vengono alla luce solo guardandoli attraverso speciali angolature (o
speciali lenti). Così alla fine, il commissario ricostruisce la storia del
paese, la storia dei quadri e financo la storia della morte di Rosetta,
trovando anche il colpevole, ma solo per imbarcarsi nel successivo mistero (ma
perché è stato inviato alla scoperta di questa storia e con tanta segretezza?).
Alla fine, dispiace lasciarlo andare, che ci era diventato simpatico, così come
cominciavamo a voler bene ai buoni canavesotti, aspettando di scolarci qualche
buon bicchiere di dolcetto (e magari ballando qualche ballo paesano). Certo,
non ci si nasconde che qualche punto è stato un po’ lunghetto, e non facile da
superare. Ma nel complesso, una buona lettura, in attesa di trovare Colombano.
“La verità è che non possediamo lo stesso
vocabolario. Sì certo le parole sono le medesime, ma rispondono ad un diverso
repertorio di situazioni e stati d’animo. In mancanza di un unico universo di
riferimento ogni catalogo di fatti, reali o immaginari, perde valore” (20)
Paolo Giordano “La solitudine dei numeri primi” Mondadori s.p.
(prestito di Alessandra)
[in: 27/02/2011 – out:
23/09/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2008]
Ecco
un altro premiato che viene dalla fucina dei prestiti di A. Qui lo Strega lo
vince il 26enne Giordano con questo libro d’esordio, che solo ora, lasciatolo
decantare come un bel vino di corpo, ho letto e, devo dire, discretamente
gustato. Ci sono degli spunti interessanti. C’è una scrittura sapiente ed
accattivante. C‘è tanta tristezza (leggendolo mi veniva in mente il titolo di
uno dei libri di Peter Handke “Infelicità senza desideri”). Ci sono anche
situazioni irrisolte ed una visione globalmente funerea della vita adulta che
un po’ mo lascia perplesso. Lo spunto interessante è quello che fa da filo
conduttore e materia prima della nascita del libro. Giordano è un fisico, e
quindi sa maneggiare anche i numeri (non come un matematico, certo) e ci presenta
le storie dei due protagonisti come fossero numeri primi gemelli. Ora, penso
(spero) che tutti sappiano cosa siano i numeri primi. Quelli gemelli sono i
numeri primi separati solo da un numero (tipo 5 e 7, 11 e 13 o che so 1997 e
1999). Numeri primi già di per sé singolari, perché isolati, come Mattia e
Alice. I gemelli poi sono vicini, ma non si toccano mai. E Mattia ed Alice sono
singolari. Lei, vittima di un incidente di sci a 7 anni, rimane un po’
claudicante, e quel suo passo mancante la fa rimanere sempre un po’ in ritardo.
Con le compagne di scuola sicure di sé e ben tronfie. Con le decisioni della
vita, il lavoro, lo studio, l’amore. Sarà sempre in cerca di non pesare mai
sulla terra, tanto da viverla anoressicamente (e non solo in senso metaforico).
Lui che vede scomparire la sorella gemella nel nulla. Morta? Rapita? Chissà? Ma
il suo interno senso di colpa di averla lasciata sola non lo abbandonerà. E
dovrà rivolgersi alle cose materiali, ferme, della vita stessa, per continuare
a vivere. Per questo studia (i libri non tradiscono, dice). Per questo si
dedica ai numeri, e farà il matematico in un’Università del Nord Europa.
Giordano segue le loro vite parallele dai sette ai trentadue anni. Che si
incrociano, si mescolano, forse trovano dei sensi. Ma sono loro stessi gemelli
e non usciranno mai dalle loro singolarità in questo scarsamente aiutati dagli
adulti. In primo luogo, dai genitori che non li capiscono, che non li aiutano,
che rimangono figure sterili come a dire che si possono avere sprazzi di
lucidità e di gioia da adolescenti, ma arrivati all’età adulta non si può far
altro che mettersi in un angolo, magari leggere il giornale e guardare la tv.
Ecco, questa visione della vita è quella che meno mi convince, che meno mi
prende. Possibile che non ci sia nessuno che si rimbocchi le maniche e si
sporchi le mani in questa storia che sta sempre lì lì per diventare altro, per
svoltare verso altipiani sereni. E non lo fa mai. Anche quando sembra che Alice
ritrovi la Michela scomparsa. Sarà vero? Non lo sapremo mai, che Alice stessa
si tira indietro. E Mattia non trova la forza di uscire dal suo bozzolo per
fare una domanda cruciale. La domanda che ci aspettiamo dalle prime pagine. E
quindi tutto scorre, con una dolenza di fondo che lascia molti amari in bocca.
Ma la scrittura è buona, coinvolgente, tanto che dopo le prime cinquanta pagine
un po’ direi normali, mi ha preso nella morsa di seguire le loro vicende. E
sono andato avanti tutta la notte, senza riuscire a staccarmi. Ecco, questo è
senz’altro un merito dell’autore. E chiuso il libro, mi frullano ancora nella
testa loro due, e quello che faranno poi. Anche questo, un merito dei buoni
libri. Non so, vedremo poi, se Giordano riuscirà a produrre nuove cose, o
rimarrà chiuso nel limbo degli autori “primi” e premiati, come Piperno per
capirci. Aspettiamo fiduciosi.
“Passavo così tanto tempo da solo che una persona normale sarebbe
impazzita nel giro di un mese.” (207)
“Alzò gli occhi verso la lampadina che pendeva dal centro del soffitto,
spenta. Si era fulminata appena un mese dopo il suo arrivo e lui non l’aveva
mai sostituita. [Erano sette anni che] mangiava ancora con la luce accesa
nell’altra stanza.” (208)
Amara Lakhous “Divorzio all’islamica a viale Marconi” E/O s.p. (Natale
dell’arabino di Rosanna)
[in: 07/01/2011 – out:
04/10/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2010]
Mi
ha un po’ deluso. Non è un romanzo puro e duro. Non è un saggio su immigrazione
e rispetto. Un po’ dell’uno, un po’ dell’altro. Né carne, né pesce. Ed alla
fine, come tutte le cose a mezzo che non si amalgamano, lascia il palato
insoddisfatto. Lakhous ci aveva già abituato al coro di voci per far uscire lo
scritto a tutto tondo. Qui le voci sono due: Christian e Safia. Il primo,
siciliano, nipote di un nonno vissuto a lungo a Tunisi, fa l’interprete per il
tribunale di Palermo e viene ingaggiato da una squadra di agenti per fare
l’infiltrato in gruppuscoli arabi che, nel post-2001, devono essere tenuti
sotto controllo. È la “guerra al terrore”, così come la esprimeva Bush jr. Si
trasferisce a Roma, si fa chiamare Issa (il nome arabo di Gesù) e comincia a
gravitare nella comunità islamica di Viale Marconi. La seconda è egiziana,
sposata obtorto collo con un immigrato che ora fa il pizzettaro a Roma, si fa
chiamare Sofia ed esercita di nascosto dal marito la professione di
parrucchiera. Gravita anch’essa intorno alla stessa comunità, dove il luogo di
punta è il call center chiamato “Little Cairo”. Ed andiamo avanti per tutto il
libro alternando i due punti di vista: quello esterno, di chi cerca di capire i
meccanismi di riferimento della comunità, certo per adempire la sua missione,
ma anche perché animato da sincera empatia con gli immigrati. E quello interno,
che tenta di togliere le vele auree allo svolgersi della vita quotidiana,
soprattutto dal punto di vista di una donna araba. E tutti sappiamo che l’islam
non è che sia molto tenero con le donne. O piuttosto, che l’interpretazione
corrente dell’islam va in questa direzione. Così le due storie si intrecciano,
si mescolano, crescono ma alla fine non si concludono. Perché, come ho detto
sopra, non è un vero romanzo, anche se c’è una storia, se vediamo i rapporti di
Sofia con il marito, con la comunità araba, con le amiche italiane e vediamo
Issa entrare in contatto con l’imam, con Sofia e il marito (anche se in ordine
inverso), e vediamo gli agenti segreti che tramano nell’ombra. Tutto è un
pretesto per fare un po’ di analisi sulla situazione degli immigrati, sulle
leggi, sul sentimento di fallimento che si prova a fare le pizze con la laurea
in architettura (e senza poterlo dire a casa, in patria, dove tu che sei
immigrato devi per forza riuscire, fare i soldi), e sulla vita della comunità
araba che guarda Al-Jazeera e vive nei Call Center. E come detto sopra, sul
ruolo della donna, sull’infibulazione, per terminare con una completa e
documentata descrizione delle pratiche di divorzio islamico. Forse sono viziato
dalla conoscenza, ma mi sembra come il compitino di uno dei più preparati della
classe, che cerca di spiegare a noi somarelli come si svolge il divorzio
nell’islam. Ricordo che basta dire tre volte “Ti ripudio” perché avvenga il
divorzio. Poi si vedono le questioni altre (economiche e figli), ma essendo una
società prettamente maschile, i figli rimangono alla donna, che viene riaccolta
nella casa patriarcale. Perché quando si sposa è l’uomo che deve provvedere
alle mura domestiche. Divorzio che è il pretesto del titolo del libro, ma che
entra di striscio in tutta la vicenda, appunto per spiegarlo ai profani
piuttosto che per farlo diventare motore dell’azione. Insomma, un po’ di pagine
divulgative (che, non sia mai, sono sempre ben accette) ed una storiella che
non va né qui né lì. Speravo in qualcosa di meglio.
“Le cose non accadono casualmente, c’è sempre una ragione. L’importante
è fare tutto il possibile e assumersi le proprie responsabilità. Mi piace il
concetto di fair play nello sport: dare il massimo e accettare il risultato
finale.” (30)
Marco Malvaldi “Odore di chiuso” Sellerio euro 13
[in: 04/02/2011 – out: 19/10/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno
2010]
L’abbandono,
si spera momentaneo, del BarLume non ha giovato molto alla penna del nostro
amico Malvaldi. Non che sia un romanzetto proprio scarso, ma si aspettava
qualcosa di più. E ce n’erano le premesse. L’ambientazione toscana di fine 800,
nell’anno di grazia che vede Marconi telegrafare, i fratelli Lumière aprire il
cinematografo e la Montessori entrare nei circoli medici maschili. Nonché aver
nuova linfa il libro del dotto Pellegrino Artusi. Che, guarda caso, entra tra i
personaggi cardine del libro, anzi in un certo senso ne diventa il fulcro.
Quando viene invitato dal barone Bonaiuti per sperimentare la bontà della
cucina della cuoca casalinga. E nel castello avito, troviamo i personaggi eponimi:
l’invalida nonna Speranza (di gozzaniana memoria), i figli inetti Gaddo e Lapo
(nome omen), la figlia purtroppo donna Cecilia, la signorina Barbarici, le
contessine (ormai settantenni) Bonaiuti Farro, il fotografo (e forse usuraio)
Ciceri. Quando inaspettatamente muore il maggiordomo Teodoro, dal bozzetto di
stile si passa al giallo d’epoca. L’Artusi, oltre che di cucina, si diletta in
lettura, ed ha con sé l’ultimo Conan Doyle, che cita con proprietà, mettendo in
grado il delegato di polizia Artistico di svolgere qualche nodo che rendeva
intricata la matassa. E sì, l’Agatina, la cameriera bonazza, un po’ ci andrà di
mezzo, ma forse meno. Il meccanismo giallo è ben scontato, non reca sorprese,
se non nei tempi dei disvelamenti, e nelle persone che aiutano tali
disvelamenti. E non a caso, saranno le più “anziane”, quelle con più sale in
zucca. Malvaldi si barcamena tra questo giallo (che sempre lieve è come nei
gialli della pinetina) ed un po’ di colore della sua Toscana. Che qui siamo a
Bolgheri, e non manca una citazione anche del buon Carducci in quei luoghi
dimorante. Con l’altro momento di possibile ilarità (ma poco sfruttato) quando
si cita la polemica tra il Leopardi ed il Tommaseo (e se qualcuno ne vuol saper
di più, c’è un epigramma leopardiano che paragona il noto sinonimatore con
attributi prettamente maschili). E non mancano altresì accenni di ricette, per
finire con il mitico polpettone all’uso zingaro, fatto di tonno e verdure, che
l’Artusi ci narra ma che non metterà tra le 790 ricette del suo libro. Alcuni
spunti potevano essere ripresi meglio (o forse meglio illuminati), che la
ruggine tra il delegato ed il suocero per l’arresto del brigante Stefano
Pelloni detto il Passatore poteva essere delucidata, ricordando che l’Artusi
ebbe una sorella violata dal detto brigante. E l’accenno del colera in quel di
Livorno non è finzione storica, ma realmente vissuta dal nostro esperto di
cucina. Ciò mi fa venire a mente dei pensieri sull’uso dei personaggi storici
in vicende romanzate. Perché o se ne sa tutto, vita, morte e miracoli, e quindi
si può apprezzare gli eventuali giochi di immaginazione che l’autore fa intorno
alla diritta via del personaggio. Oppure si deve trovare un diverso mezzo per
rendere fruibile e godibile quanto si vien narrando. Malvaldi tenta, in un
soprassalto di compartecipazione con il lettore, di mettere alcuni puntini
sulle i con una specie di post-fazione epilogo, che ne chiarisce alcuni
aspetti. Purtroppo non tutti, e non quelli dell’Artusi. Se mai farò tal
lavorio, penso che la chiusa debba essere un compendio di quanto irriso nel
corso del romanzo stesso. Che si usano personaggi storici o per creare
situazioni comiche o per tirare discorsi morali. Ed in entrambi i casi vale
quanto detto sopra. Nel complesso rimane la capacità di belle lettere del
nostro amico pisano (amico in quanto si è letto tutto il suo pubblicato,
compreso il racconto “inedito” di cui si parla altrove). Anche se, nel
complesso, si ride meno e si ha più dubbi sui motivi di questa scrittura. Una
sufficienza piena di incoraggiamento, ma si spera migliori, perché lo può e lo
sa fare.
“Dev’esser vero che più si invecchia e più
si diventa minchioni.” (145)
Speriamo di smentire la citata
sentenza di Malvaldi, e di rimanere “agili e scattanti”, come siamo adusi
essere. E certo non ci si può che sentir bene ed in forma, dopo una cena di
Natale con la combriccola mammica seduto al tavolo con gli zii viventi, dove in
sette i miei zietti raggiungono la non indifferente cifra di quasi sei secoli
(per la precisione 590 anni).
Ma la Sicilia si avvicina, ed
altro ancora, speriamo e vediamo.
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