mercoledì 23 maggio 2012

Gialli duri o letterari? - 13 novembre 2011

Rimaniamo ancora un po’ sul lato rilassante della vita, e godiamoci questa estate di San Martino con castagne, vino novello ed una bella sfida: da un lato il gigante francese, anzi belga, sia con uno dei primi (il primo?) Maigret sia con un non-poliziesco (forse) e dall’altro una pariglia di americani, il duro, puro (e molto anticomunista) Spillane e l’intrigante ma ripetitivo Woolrich. Per me la sfida è vinta in partenza, e di molte lunghezze, dal grande Simenon (cui voglio bene anche perché nasce un 13 di febbraio).
Georges Simenon “L'uomo che guardava passare i treni” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2002 – out: 19/05/2011]
[tit. L’homme qui regardait passer les trains; ling. or.: francese; anno 1938]
Si conosce da tempo il mio amore per lo scrittore belga ed in attesa di riprendere le letture di Maigret (specialmente in originale), ecco che ci si imbatte in un non Maigret, e, nella sua collocazione da Repubblica, anche non “giallo”. Certo non è un poliziesco, ma è più poliziesco di tante scarse riuscite attuali. Intanto ha più di 70 anni, ma, a parte alcuni elementi d’epoca, la trama è ancora attuale. Forse anche perché tratta temi “senza tempo”. Cosa fa, come agisce (o potrebbe agire) un uomo comune davanti ad un imprevisto? Perché facciamo quello che facciamo? Il borghese Popinga si trova, nei suoi quaranta anni, al centro di una vita normale: una moglie, due figli, un lavoro, un po’ di noia nella natia Groeningen (in Olanda, per chi lo dimentica). Ma la ditta per cui lavora fallisce. E qui comincia l’avventura dell’uomo normale, quello che per ingannare il tempo guarda passare i treni (metafora dell’inutilità della sua vita). Popinga, senza paracadute delle convenzioni, decide di essere finalmente sé stesso. O cerca di esserlo. Prova a circuire l’amante del suo capo, fugge a Parigi, si trova a girare nell’ambiente della mala, tra donnine compiacenti e ladri d’auto. E lì si erge, una spanna sopra gli altri. Non perché faccia cose “eccezionali”, ma proprio perché, nonostante tutto, cerca di essere il sé stesso che non è stato per 40 anni. Purtroppo va un po’ fuori o sopra le righe, motivo che ben presto sarà ricercato dalla polizia. Ma è geniale il suo girare per la città, trovare, innocentemente, mille modi per sfuggire. E poi, ergersi, in modo “paranoide”, a vindice della sua esistenza quando i giornali cominciano a parlare del “Satiro di Amsterdam”. Le sue lettere alle redazioni dei giornali per correggere le menzogne dette su di lui sono epiche. Il suo modo di rapportarsi al commissario Lucas anche. Senza scordare le bettole, i sordidi alberghi e lo strano rapporto con la prostituta Jeanne. Ma, come dice ad un certo punto, non ci si improvvisa sé stessi, bisogna prepararsi, mentre lui rimane un dilettante. E come tutti i dilettanti, sarà vittima del caso (l’incontro con uno strano truffatore) che farà precipitare la sua fuga verso l’ovvia conclusione. Sappiamo già quasi dall’inizio (ce lo dice Simenon) come andrà a finire, in un ricovero per alienati, e non sapremo mai se è lui il pazzo, o se sceglie di esserlo per poter “vivere la sua vita”. Quello su cui Simenon mi fa riflettere è quel piccolo scalino, quel grado che non si supera. Certo Popinga è messo in una situazione estrema, ma se noi lo fossimo, e fossimo capaci di rimanere nell’alveo “ammissibile” sapremmo essere noi stessi? Sapremmo capire cosa vogliamo dalla nostra vita? Saremmo capaci di nascondere un alfiere per non perdere una partita a scacchi? O faremmo finta di aver sbagliato? Mi è piaciuto tutto lo sforzo di Simenon di ricreare ambienti parigini, tra i diversi quartieri. E come non emozionarsi quando qualcuno si aggira per rue des Rosiers? O va verso i Gobelins? O si imbatte nelle Halles di un tempo? A Parigi, o cara. Comunque, una scrittura degna e che mi ha ben consolato, della mancanza di Parigi (ciao Luana), e mi ha fatto, ancora ed ancora, pensare. E questo è sempre un bene. Chiediamoci quale sia la verità sul caso Popinga, ma anche sul “nostro” caso…
Georges Simenon “Il cane giallo” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2004 – out: 25/05/2011]
[tit. Le chien jaune; ling. or.: francese; anno 1931]
Si dibatte sempre se sia questa o meno la prima inchiesta di Maigret. In effetti, questa è stata la prima pubblicata, ma non la prima scritta. Ma è già nel fulgore del Maigrettismo migliore. Storia abbastanza complicata, possibili colpevoli che entrano ed escono dal gioco, un’atmosfera non ancora parigina (Maigret è comandato a riorganizzare le forze della polizia di Rennes), ed un finale in cui il nostro sornione commissario svela tutte (o quasi) le trame, coi perché, ed anche con i ma ed i però. Con quella frase scolpita nelle brume del porto di metà libro: “Io non deduco mai!”. Meraviglioso. Siamo in Bretagna (e già mi tornano in mente passeggiate giovanili tra i boschi pre-marini, ma lasciamo perdere). In riva al mare, dalle parti di Glénan. Nella placida cittadina di Concarneau, si susseguono il ferimento di un negoziante, il tentativo di avvelenamento del dottore, l’uccisione di un benestante, il possibile ferimento e/o morte di un giornalista, il ferimento di un doganiere, il ferimento di un cane. Tutto ruota intorno al Cafè de l’Admiral dove i maggiorenti cittadini si riuniscono le sere d’inverno per bere un calvados e giocare a carte. Dove li serve la cameriera Emma, bruttina, ma che, forse, si concede un po’ a lor signorotti (bisogna pur arrotondare il magro stipendio). E dall’arrivo di un colosso vagabondo. Dopo i primi parapiglia, il commissario è chiamato a risolvere il problema, con l’aiuto del solito brigadiere di turno, un po’ tontolino, ma che serve a fare domande, così Maigret, ogni tanto, spiega. Ma non ancora molto. Si prende i suoi tempi, scava nel retroterra di ognuno, che il colpevole da tutti additato (ovviamente il vagabondo) lo convince poco. Cammina per la cittadina fumando la pipa. Poi, nelle ultime pagine, prende in mano la trama, vi si piazza al centro a piè fermo, ed in una scena dal sapore alla Nero Wolfe, riunisce tutti gli attori del dramma, e spiega e risolve misteri e problemi, portando al trionfo la giustizia ed al giusto castigo il colpevole. Il romanzo è breve, e non ci sono ancora gli altri a me cari momenti, quelli della vita parigina, dalla brasserie fuori del Quai des Orfevres al Boulevard Richard Lenoir, e a tutti gli altri luoghi maigrettiani (tali da farci un bel libro?). Tuttavia è scorrevole, non si perde mai, ed ha anche quel sano moralismo del buon commissario che a volte sorvola su misfatti minori, se sono fatti per motivazioni onorevoli. Insomma, se Pietro il Lettone (la prima opera scritta con il commissario) impiantava il castello operativo del Maigret parigino, il Cane giallo ne impianta il castello del ragionamento. Da leggere, e ricordare.
Mickey Spillane “Ti ucciderò” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2005 – out: 20/09/2011]
[tit. or.: I, the Jury; ling. or.: inglese; anno 1947]
Ecco il primo libro imperniato su Mike Hammer, un martello di nome e di fatto, che nasce sulla scia dei grandi personaggi di investigatore americano, epigoni di Sam Spade (da Dashiell Hammett del 1930) e di Philip Marlowe (da Raymond Chandler del 1939). La Seconda Guerra mondiale è finita da poco, ma c’è ancora lo strascico di violenza che aveva suscitato. Anche Spillane aveva fatto la guerra, anche se, avendo già 25 anni, viene destinato a fare l’istruttore di piloti dell’aviazione. Finita la guerra, rimane nel giro, e lavora un paio di anni con l’FBI, dove partecipa ad una grande operazione anti-droga, che gli lascerà qualche ferita in corpo. E mentre si riprende, butta giù questo romanzo, pieno di rimandi personali (grandi e piccoli). Ma soprattutto, dove fa nascere questa figura di duro, un po’ scanzonato, ma onesto con gli amici. Ed implacabile con i nemici. Qui, Spillane si getta anche un po’ oltre l’ostacolo, perché laddove la giustizia tarda ad arrivare, Hammer decide che sarà lui a farla, lui farà giudice e giuria. In questo primo libro, ciò ha anche un senso. Nelle prime pagine, viene brutalmente ucciso il suo compagno d’armi in guerra, quello che ha dato un braccio per lui, nel senso che per salvarlo dal piombo nemico, ha preso lui la mitragliata e perso il braccio. Mike gli è vicino sempre, e sul suo corpo giura che troverà l’assassino e lo ucciderà, perché la giustizia è lenta. Comincia quindi una lotta di ricerca della (o delle) verità tra lui ed il suo alter-ego poliziotto, l’ispettore Pat Chambers. Essendo Mike comunque, giovane e belloccio, non manca sullo sfondo la figura della segretaria Velda, bella e innamorata, altro cliché ben americano. In ogni caso, siamo nell’hard-boiled puro, dato che, a mano a mano che Mike e Pat proseguono nell’indagine, si susseguono le morti. E non casuali. Jack è morto dopo una cena tra amici, dove erano presenti il losco affarista George, il suo amico, il belloccio Hal, la sua fidanzata ex-drogata Myrna, la psicologa Charlotte che ha tirato Myrna fuori dai guai e le gemelle riccastre Mary la ninfomane ed Esther la “shop-addicted”. E sono loro che pagina dopo pagina, cominciano ad essere uccisi, sempre con la stessa pistola, un revolver 45 caricato con pallottole dirompenti, le famigerate dum-dum. Ovviamente Mike si invaghisce di Charlotte. Ovviamente Mary tenta di sedurre Mike. Ovviamente Velda si arrabbia. E Mike scopre una pista che stava seguendo Jack per smantellare un giro di prostituzione di alto bordo. Ed anche lì, morti a go-go. Ma Mike, pur essendo un po’ figlio di …, non si lancia in corse solitarie sapendo di aver bisogno dell’aiuto dei poliziotti, lì dove non arriva da solo. Certo, mena un po’ le mani (anche gratuitamente), tanto per rimanere nel clima dei duri. Ma alla fine, della famosa cena, rimangono in vita solo Charlotte e le due gemelle. Una di loro sarà il colpevole. E Mike riuscirà a mantenere la sua promessa? Su questa domanda glisso, per lasciare un po’ di suspense, che, benché il romanzo sia ben costruito, noi che abbiamo letto tanto di gialli ed altro, sappiamo fin da pagina 17 chi sarà il colpevole. Ma il meccanismo è ben costruito e vale la pena seguirlo. Un unico appunto anche molto violento contro l’insipienza di traduttori e correttori: come si fa a lasciare una frase in cui si dice che Mike tolse la sicurezza al suo revolver? Ci voleva tanto per ripristinare il corretto “tolse la sicura”? In fine, ci associamo di certo  alle critiche generali che vedono i libri di Spillane un po’ troppo pieni di violenza gratuita e per questo non molto edificanti. Tuttavia, sono il segno di un certo tipo di America, e ce ne fanno capire meglio momenti che, al di qua dell’oceano, sembrano insensati. Perché Mike è brutalmente violento, visceralmente patriottico e genuinamente anticomunista. Insomma, un tipico americano di quell’America profonda che c’è molto più di quanto pensiamo ci sia. L’America non è soltanto i Paul Auster o i radical di New York. Come l’Italia, purtroppo, non è solo Napolitano, ma anche, e più di quanto pensiamo, bunga-bunga e compagnia. Alla fine un giallo duro, ben fatto, come si direbbe al cinema, da leggere anche se discutibile.
Cornell Woolrich “Appuntamenti in nero” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2004 – out: 25/09/2011]
[tit. or.: Rendezvous in Black; ling. or.: inglese; anno 1948]
Capisco che quando si raggiunge un bel successo con un particolare tipo di storia, si è portati a ripeterlo per andare sul sicuro. Qui però mi sembra un po’ troppo scontato. Prima della Seconda Guerra Mondiale, Woolrich aveva avuto un successo esagerato con “La sposa in nero” che era un tal ben congegnato meccanismo che, come ho scritto nella relativa trama, fu portato con successo sullo schermo da Truffaut nel 1968. Allora, 8 anni dopo, Woolrich prova a ribaltare la trama, passando dal maschile al femminile. Il povero Johnny Marr vede morire la sua fidanzata il 31 di maggio per una bottiglia lanciata da un piccolo aereo volante a bassa quota sulla cittadina. Lì era una macchina in corsa, ma il meccanismo si ripete. Johnny decide di vendicare Dorothy non uccidendo le persone sull’aereo (troppo poco doloroso), ma uccidendone le spose, le figlie, le amanti. Insomma uccidendo la donna più cara alla persona presente sul velivolo. Iniziano così 5 storie nere, man mano più intricate, perché mentre all’inizio si pensa a casualità, il commissario Cameron sembra vedere uno schema nelle varie morti. Ed inizia a collegare i fatti. E collegando i fatti, ceca di arrivare prima dell’assassino alla protezione delle future vittime. Quasi fossero 5 racconti indipendenti, con delle limitazioni ad imbuto (cioè sempre più strette), si dipanano le storie: prima la morte per tetano, poi la morte dell’amante. Poi c’è il tradimento della moglie al marito soldato. Poi la sparizione della figlia. Infine, la fuga con l’amante non vedente. Mentre sulle prime Cameron arriva a morte avvenute, sulle ultime ormai è lui in vantaggio, è lui che arriva prima alle famiglie, perché sa chi era presente sull’aereo. Non sa però chi sia l’assassino, e quindi brancola nel buio (specialmente nell’episodio della cieca, ah ah). Qui il meccanismo di Woolrich si fa un pochino più interessante. Si mettono degli ostacoli e si cerca di capire come fare perché l’assassino continui la sua mattanza. Tuttavia il meccanismo non è che sia particolarmente brillante, né con idee particolarmente nuove. Tant’è che un meccanismo è facilmente decrittabile da chi avesse letto (e penso che siano in molti) il “Giro del mondo in 80 giorni” di Verne. La storia si trascina stancamente verso la fine. Il commissario Cameron, finalmente, capisce che forse se si fa dare le coordinate di viaggio dell’aereo riesce a capire su quali cittadine è passato. Magari se lo avesse fatto 5 anni prima si sarebbe risparmiato bei mal di testa. Ma alla fine, tutti i nodi vengono al pettine, si trova il bandolo di Johnny Marr e della sua Dorothy, e ci si domanda chi doveva essere punito per quella morte. Sarà stata realmente accidentale? Johnny riuscirà ad uccidere le cinque persone che ha in mente? Cameron riuscirà a fermarlo prima? Domande la cui risposta lascio ai lettori di questo comunque ben fatto libro. Non esaltante come il primo, con i meccanismi un po’ arrugginiti, ma una prova onesta. Certo, forse ci si poteva aspettare di più da quello che è considerato il padre del romanzo “noir” e che ci ha dato anche quel capolavoro da cui Hitchcock trasse l’altrettanto bellissimo film “Una finestra sul cortile”.
“Non si fanno [mai] le cose che si desiderano veramente.” (42)
Purtroppo i viaggi si alternano, ma non si concretizzano (almeno ancora). Allora si riflette e si mette mano ad un bric-à-brac di iniziative. Vedremo cosa ne esce fuori.

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