Cominciamo questo bellissimo
ottobre ritornando un po’ in Italia. E che Italia! Una classica, intensa Italia
d’annata, con solidi elementi di lettura e di dibattito. Anche perché bisogna
scrollarsi da dosso il torpore (benché rinvigorente) della calda estate (che
non è finita, che forse non è stata neanche tanto calda per qualcuno). Allora,
eccoci qua con quattro siciliani. E non è un caso che ci sia stato molto di
siciliano nella scrittura italiana. Anche se Natalia (1916) nasce a Palermo e
si trasferisce ben presto a Torino. Ma Brancati (1907) è di Pachino. Vittorini
(1908) è di Siracusa. E Sciascia (1921) si sa è della provincia di Agrigento,
da quel di Racalmuto. Godiamoci allora questi alti e bassi (che mi sono
piaciuti, ma Vittorini un po’ meno).
Vitaliano
Brancati “Don Giovanni in Sicilia” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2002 – out: 10/03/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1941]
Conoscevo solo di nome il (per
qualche anno) marito di Anna Proclemer, pur sapendolo giornalista e scrittore.
Ora, nel recupero dei “classici” ho letto questo gioiello in minore. Non
eccelso, ma ironico e puntuto. Come i film tratti da altri suoi libri, che ho
visto (i film, non i libri), come “Il bell’Antonio” o “Paolo il caldo”. Certo,
ha tutto del classico datato, e non può essere di meno, per un libro scritto
settanta anni fa. E di un libro scomodo. Brancati, dopo l’infatuazione fascista
dei primi anni ’30 (intorno ai suoi venticinque, visto che è del ‘907, e di quel
di Pachino, di quella zona scomoda della Sicilia, della Modica di Quasimodo,
della Comiso di Bufalino, fino, forse, alla Vigata di Camilleri), stava facendo
un suo percorso di ripensamento, aiutato dalle discussioni romane con Moravia.
Dopo un periodo di insegnamento, ritornato definitivamente a Roma dal ’40, si
dedica alla scrittura (libri, giornali, sceneggiature, teatro e poi cinema) a
tempo pieno. Questa è una delle prime opere del “nuovo” periodo. Forse pieno
ancora degli ultimi echi catanesi, riesce a condire con magistratura una storia
senza troppi “accadimenti”, ma piena di umori. La storia in sé, infatti, narra
solo della maturità del quarantenne Giovanni Percolla, catanese doc, che riesce
ad allontanarsi dal giogo delle tre sorelle zitelle, si innamora della bella
Ninetta, la sposa, va a vivere a Milano, ma rimane sempre un siciliano dentro,
e … Come finirà? Sarà ripreso dal torpore isolano o vincerà l’efficientismo
milanese? Qualcosa si vede in controluce, ma un po’ la risposta Brancati la lascia
in sospeso. Se fosse tutto qui, sarebbe un pallido esercizio di bello scrivere.
È in tutta l’atmosfera di contorno, che si esalta e vengono fuori le note
positive. Prima tra tutte, la donna. Idealizzata, vista da lontano, dietro alle
cui mosse i giovani siculi aprono la bocca e tacciono. Stupenda la puntata alla
giostra, con gli uomini tesi a cercare se, tra giostre e giravolte, si riusciva
a vedere qualche “lembo di carne”. Per più di 2/3 è su questa falsariga che lo
scrittore batte e ribatte: l’uomo che guarda, lancia occhiate, ma non si
avvicina, non parla, anzi solo mormora. E via con i si dice, si pensa che,
forse che la signorina, e tanto poi si dice che il dire diventa un fatto. Ma
nell’ultimo terzo, non risparmia neanche la società e i costumi del continente,
soprattutto di quella “Milano del fare”, che anche a lui, romano di adozione,
sta un po’ sui cabasisi. Lì non ci sono più sguardi, non ci sono fantasiose
ipotesi sull’universo femminile. Lì presto si va sul concreto. Ed il bel siculo
fa strage di donne, anche se non di cuori. Ma così senza una vera passione.
Passione che si riverserà su Ninetta quando la bella rimane incinta. Ma
soprattutto passione che rinascerà completa nel riposo nel vecchio letto
paterno, nella calura già estiva del maggio catanese (lì dove a Milano ancora
fa freddo e non ci si riesce a scaldare). Ecco, queste parti mi sono piaciute,
un bel saggio di antropologia umana, che mostra nel concreto quanto ci sia di
differente, ma anche di analogo tra isolani e continentali. Quanto ci sarebbe
da fare per diventare patria. Nell’anno del 150° ricordiamo che, benché forse
sia stata fatta l’Italia, quanta strada ancora ci sia per fare gli Italiani. E
non per dire che il ragusano è diverso dal gallaratese, ma per farne vedere le
analogie che ci uniscono piuttosto che i tronchi che ci dividono. Qui il
discorso rischia di allargarsi ad altro a macchia d’olio. Meglio finire qui,
lasciando aperta la discussione. E suggerendo, avendo tempo, una letturina
veloce ed ironica.
Leonardo Sciascia “A ciascuno il suo” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out:
14/05/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 1966]
Classico, datato, ma di buona
efficacia. Qualche freccia si è spuntata, ma molte vanno ancora a segno. E
soprattutto ritorna alla mente la bellissima interpretazione di GianMaria
Volontè nel film di Petri, ispirato anche se non “copiato” dal libro (in effetti,
ci sono delle variazioni anche significative, ma qui parliamo dello scritto).
Il racconto, inoltre, non risente dei suoi più di quaranta anni. Come non
vedere trame e tramette, innalzamenti e ludibri che ancora oggi devastano la
nostra altrimenti bella penisola? Sciascia sfruttando, anche se molto
superficialmente qui prima di prove più approfondite, la commistione tra
poliziesco e denuncia, crea una situazione che, pagina dopo pagina, si
infittisce fino alle estreme risoluzioni. Sempre in quella denuncia civile che
è stato il motivo conduttore dei suoi scritti e della sua vita. Si inizia con
una lettera minatoria indirizzata al farmacista del paese e scritta con ritagli
dell’Osservatore Romano. Poco dopo, il farmacista ed il suo compagno di caccia,
il dottore, vengono uccisi in una battuta di caccia. A questo punto entra in
scena il vero protagonista della storia, il professor Laurana, insegnante a
Palermo di lettere classiche. Mentre gli inquirenti brancolano nel buio Laurana
si diletta, come ogni abitante del paese, nel tentativo di risolvere il caso
del duplice omicidio. Tutti sono convinti che il dottore sia morto perché era
insieme al farmacista, ma Laurana scopre che l'assassino ha a che fare con la
chiesa (partendo dal giornale e dal rovescio della lettera che reca il motto
del giornale “Unicuique Suum”, appunto, a ciascuno il suo). La sua indagine gli
fa scoprire l'esistenza di un clan mafioso che ruota intorno all'arciprete
della cittadina, zio della moglie del dottore: il delitto era in realtà stato
preparato appositamente per questo, con la falsa copertura della lettera
minatoria all'amico. Si scopre così che il mandante è il notaio, cugino della
moglie del dottore, che deve eliminare il dottore avendo questi scoperto le sue
tresche mafiose. Inoltre, il notaio è anche da anni l’amante della moglie del
dottore. Scoperto che Laurana ha capito tutto, il notaio lo fa sparire, grazie
all'aiuto della donna amata. Infine i due si sposano con grande fasto. La
sorpresa finale, tuttavia, è un'altra: Sciascia mostra come tutti, nel paese,
hanno intuito quale verità si celi dietro il duplice omicidio, ma questa verità
sarebbe rimasta coperta dietro le apparenze, protetta dall'omertà collettiva. Alla
fine si scopre, non senza sorpresa, che Laurana non è quell’abile ma dilettante
detective che abbiamo creduto per tutto il libro, ma solo un “cretino” che si
pone fuori dalle regole omertose della vita cittadina. Il racconto è breve, non
è folgorante, mi scuso anche se ne rivelo molto, ma, credo, la storia sia abbastanza
ben nota. Quello che risalta è l’amarezza con cui Sciascia ci porta passo dopo
passo alle ovvie conclusioni. Detto il bene dell’autore (che rimane sempre tra
i miei preferiti, tra Roussel e Majorana, per chi mi capisce), la solita tirata
d’orecchie ai curatori che, in quarta di copertina riportano le ultime due
battute del libro. Ma che bisogno c’era? Non si può lasciare il lettore che
scopre il libro per la prima volta a seguire le vicende stesse come si
svolgono? Se Sciascia avesse voluto farle sapere al pubblico, avrebbe
cominciato e non finito con quelle. Rimango sempre stupito!
Natalia Ginzburg “Lessico famigliare” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out:
06/06/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 1963]
L’avevo letto in gioventù, quando
razziavo i libri nella libreria di mio padre. Trovandolo di fronte mi sono
chiesto se lo volevo rileggere. Così ho fatto, ed ho fatto bene. Mi ricordo che
a suo tempo mi piacque l’affastellarsi di vite di personaggi che ritenevo
mitici. Sentir parlare di Pavese così come io parlavo di Magnus o Geppo, mi
sembrava favoloso. Ora l’ho letto con una diversa consapevolezza, e mi è
piaciuto per motivi diversi. Diciamo per quell’aria familiare, forse per quelle
cose che un dì avevo tralasciato. Le frasi, che diventano come delle madelaine
proustiane. Le piccole situazioni quotidiane. Le colazioni, i pranzi, il girare
per case. L’invidia, forse, per quelle case piene di gente (ah, l’esercito dei
miei cugini, rispetto alla nostra desolata casa con solo me e mio fratello),
che vanno, vengono, si incontrano. E tutto scorre, si cresce, ci si fidanza, ci
si sposa, si va via di casa, si fanno figli. Ma rimane l’appartenenza. Ecco,
questo è l’altro dato forte che mi rimanda. Un senso di appartenenza. Le varie
figure del libro, chi più chi meno, appartengono a qualcosa. A un mondo. Ad
un’idea. Ad un modo di essere. Ad un modo di rapportarsi. Bella di più la prima
parte, ancora tutta familiare. L’andare in montagna (pendant del nostro andare
al mare, anche quando non si voleva più), le passeggiate. Il burbero padre
Beppe (grande figura di cattedratico-ricercatore, e, soprattutto, coltivatore
di talenti, dentro e fuori casa; non a caso, nel suo istituto, passeranno ben
tre premi Nobel italiani) con le sue docce gelate, le colazioni a base di
yogurt prima che lo yogurt diventasse una moda. La madre Lidia sempre pronta ad
uscire e a contornarsi di giovani signore. La levità rimane anche per tutta la
seconda parte, che viene però segnata dalla ferita del fascismo e dal loro
essere ebrei. Qui ritorna un po’ la punta di curiosità gossippesca, in
particolare nelle vicende intorno alla casa editrice, la mitica Einaudi degli
anni d’oro. Alla figura di Felice Balbo ed i suoi conciliaboli con lo
scienziato Giacomo Mottura. E Pavese (amichevolmente accompagnato fino alla
morte). I passaggi ad Ivrea, con Adriano Olivetti (sposo poi divorziato della
sorella Paola). E l’amore, forte (anche se espresso con poche e sommesse
parole) per Leone, che Natalia seguirà ovunque, anche al confino. E di cui
conserverà il nome, anche dopo la sua morte torturato in carcere a Regina Coeli
nel ’44. Anche dopo che si risposerà con Gabriele. Ma poi tutto ritorna alla
dimensione privata, anche in presenza di avvenimenti pubblici. Per chiudere in
un bellissimo, intenso, lungo colloquio tra i genitori, che saltabeccano di qua
e di là, tra figli e nipoti, tra “sbrodeghezzi” e “sempiate”, che fanno
riaffiorare alla memoria tutto il senso di una vita, loro che immaginiamo ormai
ottantenni, in un viale del tramonto che non è tristezza, ma gioia interna e
consapevolezza di una vita vissuta. In fondo, vissuta con dignità e con
pienezza. Con i figli ormai grandi (la piccola Natalia si sta avviando verso i
cinquanta anni). Insomma, c’è qualche puntata alta e bassa (non nego che a
volte la ritrosia della citazione rendeva difficile distinguere Lisetta Giua e
Lola Balbo), qualche condiscendenza, ma, come sopra riportavo, un modo per far
affiorare i miei lessici familiari (soprattutto quello dei nomignoli, che
ancora adesso avviati sulla soglia dei novanta anni i miei zii si portano
appresso). Un romanzo familiare, per fare strada a nuove generazioni. A cui si
passa volentieri il bastone di altre avventure. Anch’esse, perché no,
famigliari.
“Sono miei amici, e gli voglio bene e non me ne importa niente se le
loro opinioni siano vere o false” (204)
Elio Vittorini “Uomini e no” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out:
08/06/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 1945]
Non mi ha convinto tanto. Cioè,
il messaggio è bello e forte. È la scrittura che non mi è per nulla piaciuta.
Romanzo in presa diretta, un “istant book” come si direbbe ora. Scritto di
getto nel ’45, ci narra vicende ed azioni partigiane nell’inverno milanese del
’44. Distinguendo, fin dal messaggio del titolo, tra quelli che sono, si
comportano, sembrano essere uomini. E quelli che non lo sono. Seguiamo quindi
le azioni di un comandante partigiano, indicato solo col nome di battaglia N2,
i suoi uomini, gli assalti ai tedeschi ed ai militi fascisti, le rappresaglie,
la vita quotidiana dell’orrore. Ma senza compiacimenti, senza condiscendenze.
Con la crudezza del narrato. Così come crudi dovevano essere i momenti vissuti.
Ma per poco, che prima in sordina, poi come un rombo di tuono ecco ci assalgono
i dubbi. È giusta una guerra civile, dove poi muoiono, a decine, tanti
innocenti? Quale pietas potrà assolvere tutto ciò? Si potrà un giorno capire
motivi e ragioni? Si potrà curare le ferite dell’anima? Ad un certo punto, una
donna domanda ad N2 se è felice. Perché solo se si è felici, si può lottare per
portare la felicità ad altra gente. Nasce quel senso di fraternità verso
l’altro, che deve aver tormentato anche il Vittorini che partecipò in prima
persona alla Resistenza. Combattere un male commettendo altro male, lasciando
morire persone che non avevano altro torto che passare nel momento sbagliato in
un luogo sbagliato. Fino a quell’ultimo gesto, dell’operaio appena entrato
nella lotta armata, proprio dietro la spinta di N2, e che da lui aveva recepito
il messaggio nascosto, il fatto che ci possa essere un rimedio. E che rifiuta
una morte inutile, la morte di un tedesco dalla faccia desolata, faccia dove
vede la desolazione della propria faccia. Questo, sintetico, incompleto,
frammentario, il messaggio dietro al testo. Messaggio che fa riflettere. Che è
di un’attualità sconvolgente. Che mi fa volare il pensiero ai miei tanti amici
del deserto libico e a dove saranno ora, se ci sono ancora, e cosa stiano
facendo e se è giusto che, in ogni caso, soffrano. Ma soffrirebbero comunque,
in modo diverso, anche senza la guerra e le bombe. Che fare? Che grande domanda
cui non so dare nessuna risposta. Ma torniamo al testo, perché se questo è il
messaggio, ed è un messaggio da cinque, sei, settecento stelle di gradimento
(come sempre è gradito qualcosa che fa pensare, anche se fa soffrire, anche se
fa male), dicevo se questo è il messaggio, il modo di scrivere di Vittorini non
mi piace. E non perché non sia narrativo, non è questo che si cerca. Ma per
l’uso insistente del dialogo, in un modo che del dialogo sembra scimmiottare il
verso. Con le frasi ripetute sino all’idiozia. Con le risposte che ripetono le
domande, e che si rispondono ripetendosi a loro volta. Con gli interventi
onirici, dei sogni frustrati di N2, che vengono riportati in corsivo per
distanziarli dal corso del testo. E dove appare lo scrittore come macchina
portante, come motore delle cose. Ecco, tutto questo mi è costato fatica in
lettura, e non mi ha dato nulla in cambio. Infatti, da un certo punto in poi
cercavo di capire fatti e movimenti al di là delle parole, quasi che il testo
fosse un elemento che scorreva come un ruscello, ma solo al vedere i pesci
c’era un moto di riconoscimento, un passo verso l’azione pensata della mente.
Ed i fatti, le azioni, le morti, tutte, indistintamente, dolorose, mi
riportavano alle riflessioni sopra esposte. Mentre la scrittura mi riportava ad
uno scorrere faticoso, ad un aspettare che si esaurissero i 136 brevi capitoli del
testo. Un’ultima cosa, un appunto alla vergognosa edizione del testo. Piena,
zeppa, di errori di stampa. Sembra come se si fosse preso il testo dell’epoca,
con la stampa un po’ sbiadita del tempo, e si sia passata ad una scansione con
riconoscimento del testo. E tutti sanno che, dopo, va fatta un’attenta opera di
pulizia, che il software, per quanto avanzato, non farà mai. Opera che non è
stata fatta. Come ad esempio in questo dialogo:
“- Non hai più detto niente.
- Non ho più detto mente?”
Ecco, in un testo vecchio una “n”
con una “i” vicino si possono confondere con una “m”. Ma se qualcuno avesse
riletto il testo se ne sarebbe accorto. Che mancanza di professionalità! Che
sciatteria! Come si fa a vendere un prodotto del genere senza vergognarsi?
Prima trama ottobrina, e breve
elenco dei pochissimi libri di luglio che è stato un mese passato per lo più in
Sud America, e con poche occasioni di lettura. E pur tuttavia, belle letture da
buoni voti (e consiglio caldamente Aime).
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Lorenzo Licalzi
|
Che cosa ti aspetti da me?
|
BUR
|
7,20
|
4
|
2
|
Marco Aime
|
Sensi di viaggio
|
Ponte alle
Grazie
|
10
|
4
|
3
|
Niccolò Ammaniti
|
Io e te
|
Einaudi
|
s.p.
|
3
|
4
|
Annamaria Fassio
|
Shanghai
|
Mondadori
|
4,20
|
1
|
5
|
Liza Marklund
|
Il testamento di Nobel
|
Marsilio
|
12,50
|
3
|
Infine, come avrete notato, ho
dovuto intensificare la densità delle trame. Ce ne sono tante in attesa che per
ora passo dalle 3 alle 4 trame a settimana, in attesa di tornare ad un livello
inferiore di arretrati. Seconda cosa, il ciclo di vita del libro nella mia
biblioteca. La dicitura IN sta ad indicare quando il malcapitato libro è
entrato nel grande deposito di lettura. La dicitura OUT indica invece quando il
libro è stato letto ed è stata scritta la trama. Il suo ciclo vitale è finito e
riposa in attesa di altre letture. Un grande bacio, mentre accendo il camino ed
arrostisco le prime castagne.
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