lunedì 14 maggio 2012

Classici italiani - 02 ottobre 2011

Cominciamo questo bellissimo ottobre ritornando un po’ in Italia. E che Italia! Una classica, intensa Italia d’annata, con solidi elementi di lettura e di dibattito. Anche perché bisogna scrollarsi da dosso il torpore (benché rinvigorente) della calda estate (che non è finita, che forse non è stata neanche tanto calda per qualcuno). Allora, eccoci qua con quattro siciliani. E non è un caso che ci sia stato molto di siciliano nella scrittura italiana. Anche se Natalia (1916) nasce a Palermo e si trasferisce ben presto a Torino. Ma Brancati (1907) è di Pachino. Vittorini (1908) è di Siracusa. E Sciascia (1921) si sa è della provincia di Agrigento, da quel di Racalmuto. Godiamoci allora questi alti e bassi (che mi sono piaciuti, ma Vittorini un po’ meno).
Vitaliano Brancati “Don Giovanni in Sicilia” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2002 – out: 10/03/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1941]
Conoscevo solo di nome il (per qualche anno) marito di Anna Proclemer, pur sapendolo giornalista e scrittore. Ora, nel recupero dei “classici” ho letto questo gioiello in minore. Non eccelso, ma ironico e puntuto. Come i film tratti da altri suoi libri, che ho visto (i film, non i libri), come “Il bell’Antonio” o “Paolo il caldo”. Certo, ha tutto del classico datato, e non può essere di meno, per un libro scritto settanta anni fa. E di un libro scomodo. Brancati, dopo l’infatuazione fascista dei primi anni ’30 (intorno ai suoi venticinque, visto che è del ‘907, e di quel di Pachino, di quella zona scomoda della Sicilia, della Modica di Quasimodo, della Comiso di Bufalino, fino, forse, alla Vigata di Camilleri), stava facendo un suo percorso di ripensamento, aiutato dalle discussioni romane con Moravia. Dopo un periodo di insegnamento, ritornato definitivamente a Roma dal ’40, si dedica alla scrittura (libri, giornali, sceneggiature, teatro e poi cinema) a tempo pieno. Questa è una delle prime opere del “nuovo” periodo. Forse pieno ancora degli ultimi echi catanesi, riesce a condire con magistratura una storia senza troppi “accadimenti”, ma piena di umori. La storia in sé, infatti, narra solo della maturità del quarantenne Giovanni Percolla, catanese doc, che riesce ad allontanarsi dal giogo delle tre sorelle zitelle, si innamora della bella Ninetta, la sposa, va a vivere a Milano, ma rimane sempre un siciliano dentro, e … Come finirà? Sarà ripreso dal torpore isolano o vincerà l’efficientismo milanese? Qualcosa si vede in controluce, ma un po’ la risposta Brancati la lascia in sospeso. Se fosse tutto qui, sarebbe un pallido esercizio di bello scrivere. È in tutta l’atmosfera di contorno, che si esalta e vengono fuori le note positive. Prima tra tutte, la donna. Idealizzata, vista da lontano, dietro alle cui mosse i giovani siculi aprono la bocca e tacciono. Stupenda la puntata alla giostra, con gli uomini tesi a cercare se, tra giostre e giravolte, si riusciva a vedere qualche “lembo di carne”. Per più di 2/3 è su questa falsariga che lo scrittore batte e ribatte: l’uomo che guarda, lancia occhiate, ma non si avvicina, non parla, anzi solo mormora. E via con i si dice, si pensa che, forse che la signorina, e tanto poi si dice che il dire diventa un fatto. Ma nell’ultimo terzo, non risparmia neanche la società e i costumi del continente, soprattutto di quella “Milano del fare”, che anche a lui, romano di adozione, sta un po’ sui cabasisi. Lì non ci sono più sguardi, non ci sono fantasiose ipotesi sull’universo femminile. Lì presto si va sul concreto. Ed il bel siculo fa strage di donne, anche se non di cuori. Ma così senza una vera passione. Passione che si riverserà su Ninetta quando la bella rimane incinta. Ma soprattutto passione che rinascerà completa nel riposo nel vecchio letto paterno, nella calura già estiva del maggio catanese (lì dove a Milano ancora fa freddo e non ci si riesce a scaldare). Ecco, queste parti mi sono piaciute, un bel saggio di antropologia umana, che mostra nel concreto quanto ci sia di differente, ma anche di analogo tra isolani e continentali. Quanto ci sarebbe da fare per diventare patria. Nell’anno del 150° ricordiamo che, benché forse sia stata fatta l’Italia, quanta strada ancora ci sia per fare gli Italiani. E non per dire che il ragusano è diverso dal gallaratese, ma per farne vedere le analogie che ci uniscono piuttosto che i tronchi che ci dividono. Qui il discorso rischia di allargarsi ad altro a macchia d’olio. Meglio finire qui, lasciando aperta la discussione. E suggerendo, avendo tempo, una letturina veloce ed ironica.
Leonardo Sciascia “A ciascuno il suo” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 14/05/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1966]
Classico, datato, ma di buona efficacia. Qualche freccia si è spuntata, ma molte vanno ancora a segno. E soprattutto ritorna alla mente la bellissima interpretazione di GianMaria Volontè nel film di Petri, ispirato anche se non “copiato” dal libro (in effetti, ci sono delle variazioni anche significative, ma qui parliamo dello scritto). Il racconto, inoltre, non risente dei suoi più di quaranta anni. Come non vedere trame e tramette, innalzamenti e ludibri che ancora oggi devastano la nostra altrimenti bella penisola? Sciascia sfruttando, anche se molto superficialmente qui prima di prove più approfondite, la commistione tra poliziesco e denuncia, crea una situazione che, pagina dopo pagina, si infittisce fino alle estreme risoluzioni. Sempre in quella denuncia civile che è stato il motivo conduttore dei suoi scritti e della sua vita. Si inizia con una lettera minatoria indirizzata al farmacista del paese e scritta con ritagli dell’Osservatore Romano. Poco dopo, il farmacista ed il suo compagno di caccia, il dottore, vengono uccisi in una battuta di caccia. A questo punto entra in scena il vero protagonista della storia, il professor Laurana, insegnante a Palermo di lettere classiche. Mentre gli inquirenti brancolano nel buio Laurana si diletta, come ogni abitante del paese, nel tentativo di risolvere il caso del duplice omicidio. Tutti sono convinti che il dottore sia morto perché era insieme al farmacista, ma Laurana scopre che l'assassino ha a che fare con la chiesa (partendo dal giornale e dal rovescio della lettera che reca il motto del giornale “Unicuique Suum”, appunto, a ciascuno il suo). La sua indagine gli fa scoprire l'esistenza di un clan mafioso che ruota intorno all'arciprete della cittadina, zio della moglie del dottore: il delitto era in realtà stato preparato appositamente per questo, con la falsa copertura della lettera minatoria all'amico. Si scopre così che il mandante è il notaio, cugino della moglie del dottore, che deve eliminare il dottore avendo questi scoperto le sue tresche mafiose. Inoltre, il notaio è anche da anni l’amante della moglie del dottore. Scoperto che Laurana ha capito tutto, il notaio lo fa sparire, grazie all'aiuto della donna amata. Infine i due si sposano con grande fasto. La sorpresa finale, tuttavia, è un'altra: Sciascia mostra come tutti, nel paese, hanno intuito quale verità si celi dietro il duplice omicidio, ma questa verità sarebbe rimasta coperta dietro le apparenze, protetta dall'omertà collettiva. Alla fine si scopre, non senza sorpresa, che Laurana non è quell’abile ma dilettante detective che abbiamo creduto per tutto il libro, ma solo un “cretino” che si pone fuori dalle regole omertose della vita cittadina. Il racconto è breve, non è folgorante, mi scuso anche se ne rivelo molto, ma, credo, la storia sia abbastanza ben nota. Quello che risalta è l’amarezza con cui Sciascia ci porta passo dopo passo alle ovvie conclusioni. Detto il bene dell’autore (che rimane sempre tra i miei preferiti, tra Roussel e Majorana, per chi mi capisce), la solita tirata d’orecchie ai curatori che, in quarta di copertina riportano le ultime due battute del libro. Ma che bisogno c’era? Non si può lasciare il lettore che scopre il libro per la prima volta a seguire le vicende stesse come si svolgono? Se Sciascia avesse voluto farle sapere al pubblico, avrebbe cominciato e non finito con quelle. Rimango sempre stupito!
Natalia Ginzburg “Lessico famigliare” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 06/06/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1963]
L’avevo letto in gioventù, quando razziavo i libri nella libreria di mio padre. Trovandolo di fronte mi sono chiesto se lo volevo rileggere. Così ho fatto, ed ho fatto bene. Mi ricordo che a suo tempo mi piacque l’affastellarsi di vite di personaggi che ritenevo mitici. Sentir parlare di Pavese così come io parlavo di Magnus o Geppo, mi sembrava favoloso. Ora l’ho letto con una diversa consapevolezza, e mi è piaciuto per motivi diversi. Diciamo per quell’aria familiare, forse per quelle cose che un dì avevo tralasciato. Le frasi, che diventano come delle madelaine proustiane. Le piccole situazioni quotidiane. Le colazioni, i pranzi, il girare per case. L’invidia, forse, per quelle case piene di gente (ah, l’esercito dei miei cugini, rispetto alla nostra desolata casa con solo me e mio fratello), che vanno, vengono, si incontrano. E tutto scorre, si cresce, ci si fidanza, ci si sposa, si va via di casa, si fanno figli. Ma rimane l’appartenenza. Ecco, questo è l’altro dato forte che mi rimanda. Un senso di appartenenza. Le varie figure del libro, chi più chi meno, appartengono a qualcosa. A un mondo. Ad un’idea. Ad un modo di essere. Ad un modo di rapportarsi. Bella di più la prima parte, ancora tutta familiare. L’andare in montagna (pendant del nostro andare al mare, anche quando non si voleva più), le passeggiate. Il burbero padre Beppe (grande figura di cattedratico-ricercatore, e, soprattutto, coltivatore di talenti, dentro e fuori casa; non a caso, nel suo istituto, passeranno ben tre premi Nobel italiani) con le sue docce gelate, le colazioni a base di yogurt prima che lo yogurt diventasse una moda. La madre Lidia sempre pronta ad uscire e a contornarsi di giovani signore. La levità rimane anche per tutta la seconda parte, che viene però segnata dalla ferita del fascismo e dal loro essere ebrei. Qui ritorna un po’ la punta di curiosità gossippesca, in particolare nelle vicende intorno alla casa editrice, la mitica Einaudi degli anni d’oro. Alla figura di Felice Balbo ed i suoi conciliaboli con lo scienziato Giacomo Mottura. E Pavese (amichevolmente accompagnato fino alla morte). I passaggi ad Ivrea, con Adriano Olivetti (sposo poi divorziato della sorella Paola). E l’amore, forte (anche se espresso con poche e sommesse parole) per Leone, che Natalia seguirà ovunque, anche al confino. E di cui conserverà il nome, anche dopo la sua morte torturato in carcere a Regina Coeli nel ’44. Anche dopo che si risposerà con Gabriele. Ma poi tutto ritorna alla dimensione privata, anche in presenza di avvenimenti pubblici. Per chiudere in un bellissimo, intenso, lungo colloquio tra i genitori, che saltabeccano di qua e di là, tra figli e nipoti, tra “sbrodeghezzi” e “sempiate”, che fanno riaffiorare alla memoria tutto il senso di una vita, loro che immaginiamo ormai ottantenni, in un viale del tramonto che non è tristezza, ma gioia interna e consapevolezza di una vita vissuta. In fondo, vissuta con dignità e con pienezza. Con i figli ormai grandi (la piccola Natalia si sta avviando verso i cinquanta anni). Insomma, c’è qualche puntata alta e bassa (non nego che a volte la ritrosia della citazione rendeva difficile distinguere Lisetta Giua e Lola Balbo), qualche condiscendenza, ma, come sopra riportavo, un modo per far affiorare i miei lessici familiari (soprattutto quello dei nomignoli, che ancora adesso avviati sulla soglia dei novanta anni i miei zii si portano appresso). Un romanzo familiare, per fare strada a nuove generazioni. A cui si passa volentieri il bastone di altre avventure. Anch’esse, perché no, famigliari.
“Sono miei amici, e gli voglio bene e non me ne importa niente se le loro opinioni siano vere o false” (204)
Elio Vittorini “Uomini e no” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 08/06/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1945]
Non mi ha convinto tanto. Cioè, il messaggio è bello e forte. È la scrittura che non mi è per nulla piaciuta. Romanzo in presa diretta, un “istant book” come si direbbe ora. Scritto di getto nel ’45, ci narra vicende ed azioni partigiane nell’inverno milanese del ’44. Distinguendo, fin dal messaggio del titolo, tra quelli che sono, si comportano, sembrano essere uomini. E quelli che non lo sono. Seguiamo quindi le azioni di un comandante partigiano, indicato solo col nome di battaglia N2, i suoi uomini, gli assalti ai tedeschi ed ai militi fascisti, le rappresaglie, la vita quotidiana dell’orrore. Ma senza compiacimenti, senza condiscendenze. Con la crudezza del narrato. Così come crudi dovevano essere i momenti vissuti. Ma per poco, che prima in sordina, poi come un rombo di tuono ecco ci assalgono i dubbi. È giusta una guerra civile, dove poi muoiono, a decine, tanti innocenti? Quale pietas potrà assolvere tutto ciò? Si potrà un giorno capire motivi e ragioni? Si potrà curare le ferite dell’anima? Ad un certo punto, una donna domanda ad N2 se è felice. Perché solo se si è felici, si può lottare per portare la felicità ad altra gente. Nasce quel senso di fraternità verso l’altro, che deve aver tormentato anche il Vittorini che partecipò in prima persona alla Resistenza. Combattere un male commettendo altro male, lasciando morire persone che non avevano altro torto che passare nel momento sbagliato in un luogo sbagliato. Fino a quell’ultimo gesto, dell’operaio appena entrato nella lotta armata, proprio dietro la spinta di N2, e che da lui aveva recepito il messaggio nascosto, il fatto che ci possa essere un rimedio. E che rifiuta una morte inutile, la morte di un tedesco dalla faccia desolata, faccia dove vede la desolazione della propria faccia. Questo, sintetico, incompleto, frammentario, il messaggio dietro al testo. Messaggio che fa riflettere. Che è di un’attualità sconvolgente. Che mi fa volare il pensiero ai miei tanti amici del deserto libico e a dove saranno ora, se ci sono ancora, e cosa stiano facendo e se è giusto che, in ogni caso, soffrano. Ma soffrirebbero comunque, in modo diverso, anche senza la guerra e le bombe. Che fare? Che grande domanda cui non so dare nessuna risposta. Ma torniamo al testo, perché se questo è il messaggio, ed è un messaggio da cinque, sei, settecento stelle di gradimento (come sempre è gradito qualcosa che fa pensare, anche se fa soffrire, anche se fa male), dicevo se questo è il messaggio, il modo di scrivere di Vittorini non mi piace. E non perché non sia narrativo, non è questo che si cerca. Ma per l’uso insistente del dialogo, in un modo che del dialogo sembra scimmiottare il verso. Con le frasi ripetute sino all’idiozia. Con le risposte che ripetono le domande, e che si rispondono ripetendosi a loro volta. Con gli interventi onirici, dei sogni frustrati di N2, che vengono riportati in corsivo per distanziarli dal corso del testo. E dove appare lo scrittore come macchina portante, come motore delle cose. Ecco, tutto questo mi è costato fatica in lettura, e non mi ha dato nulla in cambio. Infatti, da un certo punto in poi cercavo di capire fatti e movimenti al di là delle parole, quasi che il testo fosse un elemento che scorreva come un ruscello, ma solo al vedere i pesci c’era un moto di riconoscimento, un passo verso l’azione pensata della mente. Ed i fatti, le azioni, le morti, tutte, indistintamente, dolorose, mi riportavano alle riflessioni sopra esposte. Mentre la scrittura mi riportava ad uno scorrere faticoso, ad un aspettare che si esaurissero i 136 brevi capitoli del testo. Un’ultima cosa, un appunto alla vergognosa edizione del testo. Piena, zeppa, di errori di stampa. Sembra come se si fosse preso il testo dell’epoca, con la stampa un po’ sbiadita del tempo, e si sia passata ad una scansione con riconoscimento del testo. E tutti sanno che, dopo, va fatta un’attenta opera di pulizia, che il software, per quanto avanzato, non farà mai. Opera che non è stata fatta. Come ad esempio in questo dialogo:
“- Non hai più detto niente.
- Non ho più detto mente?”
Ecco, in un testo vecchio una “n” con una “i” vicino si possono confondere con una “m”. Ma se qualcuno avesse riletto il testo se ne sarebbe accorto. Che mancanza di professionalità! Che sciatteria! Come si fa a vendere un prodotto del genere senza vergognarsi?
Prima trama ottobrina, e breve elenco dei pochissimi libri di luglio che è stato un mese passato per lo più in Sud America, e con poche occasioni di lettura. E pur tuttavia, belle letture da buoni voti (e consiglio caldamente Aime).

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Lorenzo Licalzi
Che cosa ti aspetti da me?
BUR
7,20
4
2
Marco Aime
Sensi di viaggio
Ponte alle Grazie
10
4
3
Niccolò Ammaniti
Io e te
Einaudi
s.p.
3
4
Annamaria Fassio
Shanghai
Mondadori
4,20
1
5
Liza Marklund
Il testamento di Nobel
Marsilio
12,50
3
Infine, come avrete notato, ho dovuto intensificare la densità delle trame. Ce ne sono tante in attesa che per ora passo dalle 3 alle 4 trame a settimana, in attesa di tornare ad un livello inferiore di arretrati. Seconda cosa, il ciclo di vita del libro nella mia biblioteca. La dicitura IN sta ad indicare quando il malcapitato libro è entrato nel grande deposito di lettura. La dicitura OUT indica invece quando il libro è stato letto ed è stata scritta la trama. Il suo ciclo vitale è finito e riposa in attesa di altre letture. Un grande bacio, mentre accendo il camino ed arrostisco le prime castagne.

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