Come detto venerdì, cerchiamo di
recuperare un po’ di arretrati. Ed allora, dove i bi tre saggi citati, oggi
passiamo a tre classici del Novecento. Tutti e tre uniti da (più o meno) felici
trasposizioni cinematografiche. Ed uniti dal fatto, che ho prima visto i film,
e solo ora ne leggo. Come spesso accade (e possiamo anche qui aprire un
dibattito), i libri mi hanno dato un gusto diverso, spesso migliore dei film.
Soprattutto Tiffany, per sempre ed indissolubilmente legato a Audrey e a Moon
River.
David Herbert Lawrence “L'amante di Lady
Chatterley” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2002 – out: 24/02/2011]
[tit. or.: Lady Chatterley’s Lover; ling. or.: inglese; anno 1928]
Un classicissimo finalmente letto
tutto. Molto datato in alcuni punti. Ma alla fine si legge e dà alcuni spunti.
Anzi, andrebbe comunque letto. Infatti, se da una parte è un libro polemico
contro l’aristocrazia inglese ed il suo vuoto mondo di privilegi che stanno
finendo (ma non risparmia nessuno, certo non i minatori e la classe lavoratrice
in genere, ma su questo ci si ritorna), dall’altro alcune pagine “di sesso”
sono poetiche e delicate. Ma come, direte, un libro che veniva censurato per la
sua volgarità ed il suo esplicito parlare? Prima di tutto, sono passati novanta
anni, e ben altro esplicito parlare abbiamo dovuto sorbire. Lawrence anzi è
poetico con le sue infuocate scene di sesso, per poi scivolare nel climax delle
chiacchiere intorno a John Thomas e Lady Jane (che non sono il nome dei due
protagonisti, che si chiamano Oliver e Constance, ma …). Secondo poi, veniva
censurato con la scusa del sesso, ma perché era un libro che metteva in crisi i
rapporti tra le classi sociali. Come (!), una Lady che si innamora di un
guardiacaccia, e per questo amore sfida il mondo immoto della caccia alla volpe
e del tè delle cinque! Questo sì che non si doveva vedere. Anche perché le
prime 100 pagine sono quelle che con più forza attaccano il mondo dei lord. Una
per tutte, la scena degli aristocratici che parlano a ruota libera durante un
dopo cena, anche di funzioni corporali, ma quando Connie interviene hanno un
modo di fastidio, che mi ricorda tanto le scene nordafricane con il maschilista
che rivolgendosi all’unica donna che sapeva parlare inglese (e che gli teneva
testa) l’apostrofa con uno “Shut up, woman!”. Stessa sensibilità ad un secolo
di distanza. Certo, Lawrence non è cattivo fino in fondo, che Oliver comunque
ha fatto il soldato, sa parlare bene inglese, in un certo senso “conosce le
buone maniere”. Non è soltanto un “buzzurro con il sesso caliente”. In questo
contesto, un po’ cadenti tutte le lunghe pagine dedicate alle miniere, al
carbone, allo sviluppo industriale, ed altro “politichese”, che, queste sì,
hanno fatto il loro tempo e sono datate. Ma anche l’altro versante ha il suo
interesse, i tormenti di Oliver verso l’altro sesso (e le sue pippe mentali,
diciamocelo pure), la progressiva emancipazione di Constance (che intanto,
benché Lady, aveva già avuto esperienze sessuali prima della Grande Guerra, ed
anche questo faceva scandalo), ed i due contraltari: la finta liberale sorella
Hilda, che non accetta il liberarsi della sorella, e la signora Bolton, che non
vede l’ora che Constance se ne vada per trovare un suo spazio
ancillo-infermiero-erotico presso il povero Clifford, paralizzato dalla vita in
giù. E comunque ci vuole del coraggio a sostenere nel 1928 che anche la donna
deve provare piacere nell’atto sessuale. E che quando si fa sesso, lo si fa in
due ed entrambi devono partecipare, godere, comunicare. Un passo enorme
all’epoca. Quindi un buon libro, con qualche punto in più per l’inquadratura
storica (e quanto di auto-vissuto c’è in tutto ciò scritto dal figlio di un
minatore che sposa una baronessa…), e qualche punto in meno che (e qui ritorna
un altro mio pallino) Lawrence in ogni caso maschio è, e se partecipa e riesce
a render vivi i problemi di Oliver verso l’altro sesso, meno mi convince quando
cerca di spiegare il sentire di Constance (forse solo sulla dolcezza che in
ogni caso deve esserci tra due amanti coglie un segno comune). E gli ultimi
segni negativi, perché non dico dipinga un lieto fine, ma ha verso la fine un
atteggiamento un po’ conciliatorio, lasciando molte cose in sospeso così che
ognuno scriverà il seguito della storia, da dove lui ci lascia, secondo le
proprie visioni pessimiste o ottimiste. Due annotazioni finali: l’ottimo
editor, che ha giustamente messo le note con le poesie inglesi citate da
Lawrence, perché ha lasciato non indicato a pag.204 l’esplicita citazione di
Walt Whitman? E poi, la parte più sanguigna ma anche più tenera dell’amore tra
Oliver e Connie è scritta in dialetto, e la sua traduzione in italiano risulta
quanto mai “fuorviante”. Ma si sa, con Eco, tradurre è tradire…
“Se la civiltà vuol farci del bene, deve aiutarci a dimenticare i
nostri corpi, e allora il tempo scorrerà piacevolmente.” (84)
“-Non potresti vivere senza lavorare? –Io? Forse sì, se intendi vivere
solo della mia pensione. Sì, forse sì. Ma io devo lavorare, se no muoio. Voglio
dire, ho bisogno di avere qualcosa che mi tenga occupato. E non ho il carattere
giusto per un’occupazione in proprio. Deve essere un lavoro che svolgo per
qualcun altro, se no, in un momento di rabbia, poteri mandare tutto all’aria
nel giro di un mese.” (186)
“Quello che non sopporto è l’impudenza idiota, autoritaria di coloro
che governano il mondo. Io odio l’arroganza del denaro e quella di classe.
Quindi, in questo tipo di mondo, che cos’ho da offrire a una donna?” (308)
“Una donna vuole che tu l’apprezzi e che tu le parli … e, allo stesso
tempo, che tu la ami e che tu la desideri… mi sembra che le due cose si
escludano a vicenda.” (63)
“La solitudine andava accettata. Bisognava conviverci …e i momenti in
cui il vuoto si colmava erano da apprezzare. Ma non li si poteva forzare.”
(161)
Edith Wharton
“L'età dell'innocenza” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 03/03/2011]
[tit. or.: The Age of Innocence; ling. or.: inglese; anno 1920]
Una
classica ed interessante lettura, ed un bel confronto con l’ottimo film di
Scorsese. L’americana Wharton, lei stessa discendente dell’aristocrazia
newyorchese che tanta parte avrà nei suoi libri migliori, rifuggiatasi nel buon
ritiro francese, dopo il non facile matrimonio, da lì un po’ da lontano, scrive
e tratteggia il mondo d’oltre oceano. Figura intellettuale, amica di Henry
James e Jean Cocteau, ma anche crocerossina durante la Grande Guerra, è in
Francia che sul doppiar la boa dei cinquanta, scrive questo puro saggio
sull’adolescenza della sua nazione. Sulle difficoltà di crescere e di lasciare
i vecchi cliché, quelli bene o male imposti dall’essere una nazione popolata da
emigrati europei, che si portano appresso, decennio dopo decennio, tutta la rigidità
europea. Certo, è un romanzo, ma ben le valse, prima donna ad ottenerlo, il
Premio Pulitzer nel 1921. Ovvio, che io, innamorato perso di Michelle Pfeiffer,
ne rivedo ad ogni pagina il risvolto del film. E non solo con la bella Michelle
nel ruolo della contessa Olenska, ma anche di Winona Ryder in quello di May,
nonché Daniel Day-Lewis nelle vesti, dubbiose ed indecise, di Newland Archer.
Newland che nel libro è il fulcro della vicenda (che invece Scorsese tende a
spostare sul versante Pfeiffer). Cresciuto nella rigidità delle forme, dove si
va a teatro per vedere chi c’è, chi indossa cosa, ed altre superficialità. E
che vede la sua vita tracciata nel solco della sua classicità: il fidanzamento
ed il matrimonio con la giovane May, anche lei “di buona famiglia”, il lavoro
(abbastanza superfluo) nello studio di un avvocato perché “qualcosa si deve pur
fare”, l’inverno a Newport e l’estate in Florida, inframmezzata da un lungo
viaggio di nozze in Europa (“un gran tour”). Ma un viaggio, ad esempio, dove non
si parla con nessuno, non si vede nessuno, che noi “gli aristocratici
americani” siamo gente superiore. Tutto questo bel disco, girato ormai da anni
ed anni, si vede interrotto dall’arrivo della variabile impazzita, la bella
contessa Ellen Olenska, in realtà cugina di May, ma prima fuggita in Europa per
sposare il conte Olenski, e poi fuggita dall’Europa per sfuggire allo stesso
conte. Qui la Wharton gioca sui due registri: la rigidità di Newland e la
morbidità anticonvenzionale di Ellen. Ma il mondo di New York non è ancora
pronto a tutto ciò. E sarà proprio Newland a riportare nei ranghi Ellen,
convincendola a non divorziare “per non fare scandalo”. Ma Ellen è comunque una
ventata di aria pulita, che Newland però non saprà (non vorrà, non riuscirà) a cogliere.
Così Michelle ritorna in Europa, e Daniel rimane lì, con la moglie che subito
si adegua alla piatteria del mondo americano degli anni ’70 (certo quelli del
1800), che crescerà i tre – quattro figli, per poi morire ancor giovane.
Lasciando il non ancora sessantenne Newland a riflettere sul cambiamento del
mondo. Senza uscirne. Certo, si vede che il libro ha novanta anni, e che
descrive un mondo di centocinquanta anni fa. Ma ha la forza di farci capire la
difficoltà di affrontare il nuovo. E di essere sinceri con sé stessi. Qui c’è
la contrapposizione tra ragione (stare accanto ad una donna gentile, affettuosa
ma noiosa) e sentimento (stare accanto ad una donna autonoma e
anticonvenzionale). Fino a che punto si possono sfidare le convenzioni per
seguire sé stessi? Newland non ce la fa. E noi? Alla fine, non è eccelso, è una
buona lettura. Ma soprattutto un buon rimando al film, che avrebbe meritato
maggior successo.
“Quando uno aveva vissuto facendo il proprio dovere c’era un guaio: che
non riusciva più a vivere diversamente” (340)
“D’un tratto, davanti a uno splendido Tiziano, disse dentro di sé: ‘Ma
ho soltanto cinquantasette anni…’ e poi si volse per andare via.” (345)
Truman Capote “Colazione da Tiffany” Repubblica
Novecento euro 4,90
[in: 2002 – out: 04/03/2011]
[tit. or.: Breakfast at Tiffany’s; ling. or.: inglese; anno 1958]
Il fatto è che Holly sarà sempre
legata ad Audrey, e leggere ora il racconto lascia un po’ spaesati (si potrebbe
aprire un dibattito su libri e film?). Sarà poi che Capote non riesce a
piacermi; certo non ho letto tantissimo, e soprattutto non ho ancora affrontato
“A sangue freddo”, ma questa colazione non mi è piaciuta troppo. Comunque
facciamo uno sforzo di dimenticarci di Audrey, dei “Vermi” (nelle meno di cento
pagine del libro, il termine compare verso pagina 80), ed anche della colazione
(che si cita a pagina venti, in meno di due righe). E rimaniamo per ora al
libro. Un racconto dolente di un piccolo spaccato della boheme di New York.
Scrittori spiantati, fotografi giapponesi, miliardari arroganti, ambasciatori
brasiliani, amiche balbuzienti e baristi saggi. Tutti gli ingredienti per fare
una piccola miscela calibrata, un buon gin fizz (non un martini cocktail). E
lei, ingenua o forse no, illumina con i suoi tocchi di lucida follia questo
mondo un po’ squallido, un po’ chic. In realtà, non succede gran che, è solo un
filo di ricordi, che, saltando qua e là, andando avanti ed indietro nel corso
del tempo, ci fa innamorare di questa ragazza in cerca di successo, ma in un
mondo cattivo e torbido. Capote infioretta le pagine di qualche sentenzina, e
tenta di inzeppare il testo con tiepidi aforismi. Ma non graffia, non affonda.
A volte sbaglia il tiro (come quando bolla il brasiliano spaesato di essere
‘fuoriposto come un violino in un’orchestra jazz’: ma Stéphane Grappelli
allora? O Joe Venuti? Per non parlare di Jean-Luc Ponty, che verrà però qualche
anno dopo?). Sembra girare un po’ in tondo (ma mi piace di più quando lo farà
Paul Auster in atmosfere compatibili qualche anno dopo). Il vero punto forte
(rispetto al film) è il suo essere non consolatorio, al fine. Qui niente lieto
fine, niente gatto ritrovato sotto la pioggia. No, qui Holly scompare, ed è
proprio grazie a poche sparse notizie che arrivano vuoi dal Sudamerica vuoi dall’Africa
che lo scrittore alter ego ce ne parla e ci racconta questa storia. Che anche
altro afflato avrebbe avuto se, come Capote aveva suggerito, fosse stata
impersonata da Marylin. Altra storia. Altro film. Film che, a parte Audrey, non
ha altri grossi atout. Perché al solito, Hollywood qui stravolge, fa dello
scrittore Paul un gigolò mantenuto, e sparisce l’amica balbuziente. Ma si sa,
il Cinema americano stravolge tutto pur di fare cassetta. L’unica cosa di
veramente buono è la colonna sonora con quel Moon River da favola. E l’unica
cosa veramente esilarante è Mickey Rooney nella parte del fotografo giapponese.
Ma qui si parlava del libro. E della scrittura di Capote, che, alla fine dei
conti, a me irrita. Boh, speriamo in altro. Ma ora vado a rimettere la punta
ideale sul vinile consumato e sentire ancora una volta “…Wherever you're going,
I'm going your way…”.
“La patria è dove ci
si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando.” (87)
“… non sapere che
cos’è tuo finché non lo butti via.” (93)
Anche luglio finisce, ma non
finiscono viaggi e sorrisi. Ma per ora solo
Nessun commento:
Posta un commento