giovedì 24 maggio 2012

Donne d’Italia - 20 novembre 2011

Salutando almeno il diverso modo di guardare le donne, passando dal bunga bunga alla realtà dove ormai ci mancano soli i mari, anche se, con facile battuta si potrebbero trovarne la soluzione, questa settimana ci dedichiamo e con piacere alla scrittura al femminile. Donne di stampo classico e di scrittura austera, come la Adorno e la Banti. Donne - icone di proto-femminismo come la Aleramo (e son contento di aver trovato l’origine del nome). E giovani donne, di scrittura nuova, anche se non mi convince fino in fondo, come la Avallone.
Luisa Adorno “Arco di luminara” Sellerio euro 10 (in realtà, scontato 9 euro)
[in: 07/11/2010 – out: 19/06/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1990]
Ancora una tappa della quieta vita borghese della famiglia Adorno. La terza credo, dopo la giovinezza e lo sposalizio in provincia e le vicende sue trasversali delle stanze dorate. Qui siamo nel pieno della famiglia borghese. C’è la grande casa di Roma, con il marito Cosimo che verrebbe voglia di prendere a schiaffi per quanto è urtante, e la nascita e la crescita dei due figli, la maggiore Lucia, che accompagniamo sin dalla giovinezza irrequieta alla laurea, al matrimonio, al figlio, ed il minore Giovanni, quello che dirazza (d’altra parte il nome….) e da una famiglia di letterati diviene astrofisico. E ci sono i suoceri con quella casa divisa da due gradini dall’avita e con quel andare l’estate nella natia terra catanese. C’è il cane che entra per volere di Lucia, ma che diventa ben presto il contraltare di Luisa. Ci sono gli amici che riempiono la casa a tutte le ore, con la disperazione sia della Nerina di famiglia che della Concetta dei suoceri. Ci sono le discussioni giornaliere sul mangiare, e su quell’odore della cicoria cotta che come una madaleine ci introduce nella magione, e poi ci lascia al finire, quando, dopo anni e vicende, nella grande magione rimangono solo Cosimo e Luisa, gli altri essendo andati o, purtroppo, morti. Ma il protagonista, un po’ sotterraneo, è il villino alle falde dell’Etna. Quella terra siciliana dove ad ogni settembre la famiglia si ritrova sotto le ali protettive del nonno. I primi anni con i tormentati viaggi in treno, poi con le lunghe tirate di macchina, per finire le ultime volte con l’uso del moderno aereo, che in ogni caso spaventa e il nonno e Cosimo (che si mettono a fare la fila al gate con tanto anticipo che tanto valeva prendere il treno…). I colori di quella terra, i limoni che non crescono, il vulcano che s’ode brontolare in lontananza. E tante piccole vicissitudini (l’acqua che manca, il cassone che si rompe, la tenda che vola, e via sul filo dei ricordi). Per rimanere impressa, poi, con quei fuochi d’artificio della festa con il paese illuminato che di tanta beltà mi ricordano (quegli archi di luminara, dialetto tosco riproposto al sud) i fuochi e le processioni del Sud, da Ragusa a Malta. Lo scritto di Luisa Adorno scorre sempre lieve e piacevole, anche se non graffia, ma ripercorre un suo lessico famigliare, di una tipologia che ben conosco, e di cui in molti conserviamo vividi ricordi. Non eccelso, appunto. Non graffiante. Ma dolentemente affettuoso nel suscitare emozioni al ricordo (quasi piccole cose dal pessimo gusto gozzaniano) che molti sono quelli che in me ha suscitato (pranzi, estati, amori e dissapori). Lettura che mantengo lì, nel limbo delle cose piacevoli che non dimentico.
“Tu piuttosto, attenta ai timidi. Non ti lasciare intenerire, sono arrivata alla conclusione che timido è colui che vorrebbe sopraffare gli altri.” (103)
“Questa di veder sparire uno a uno chi è stato testimone dei nostri giovani anni è la condanna di chi ha vita più lunga.” (173)
Anna Banti “Noi credevamo” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato 8,60 euro)
[in: 13/12/2010 – out: 25/06/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1967]
Sull’onda del 150° dell’Unità d’Italia una bella e dolente lettura. Non ho visto il film che ne ha tratto Martone, solo qualche trailer. E da quello mi aspettavo una specie di western risorgimentale. Lotte, battaglie, cospirazioni, tradimenti, vittorie e sconfitte. Il tutto condito da qualche sentimento patriottico. Non avevo fatto i conti con la Banti, che ricordavo nel bel libro su Artemisia, e che mi sembrava poco incline a tanto rumor di fucili e cozzar di spade. Infatti, così è. Mi sono trovato tutta un’altra storia. All’inizio, un po’ di delusione. Chi si aspetta Salgari e si ritrova il Melville di Moby Dick, fa un po’ di fatica. Tuttavia mi sono lasciato trasportare dalla scrittura. E mi sono trovato sì in una diversa atmosfera. Ma forse quanto più vera e reale. Perché in fondo, la Banti ripercorre la vita del suo antenato (il nonno), il garibaldino Domenico Lopresti (che è il vero cognome della nostra Lucia). Al volgere finale della vita, costretto dal tempo e dall’età nella sua stanzetta torinese, circondato si da affetti familiari (soprattutto la dolce Teresa), Domenico ripensa alla sua vita. Ma più che ai momenti esaltanti, quelli appunto delle battaglie, rivediamo con lui i momenti minuti. Il carcere, dopo le sconfitte. Il passare dei giorni, rifiutando i compromessi. E poi uscire, accettare posti ministeriali al Sud, cercando di mettere in pratica quanto i Garibaldi, i Mazzini, tutti i suoi sodali anti-monarchici avevano proclamato nelle belle teorie. Lì si misura la difficoltà della rivoluzione! Lì quando ci si scontra con le minuzie del quotidiano. Ahi quanto è facile lasciarsi andare. Domenico cerca di resistere, fa qualche compromesso (chi non li ha fatti nella vita?). Poi abbandona, trascinando il suo amore tardivo nel bell’esilio torinese. Ed è tutta nella memoria la storia che si snoda. Memoria del carcere patito ingiustamente. Memoria dei compagni e dei familiari: Marietta, la moglie torinese affettuosamente altèra, i figli Luigi e Teresa, torinesi ‘per necessità’ e napoletani nel cuore; quindi la Calabria, dove vivono l’anziana madre ormai vedova e Concetta, la sorella rimasta nubile; la figura tormentata e inquieta di Caterina Balestrieri, stravagante nobildonna che non nasconde le sue simpatie repubblicane, quella toccante di Florence, una patriota irlandese fuoruscita e quella, forse la più enigmatica di tutte, di Cléo, la cognata francese che vive nel mito di Gioacchino Murat e di Pizzo Calabro, teatro della sua tragica e prematura fine. Per finire, dolorosamente fuori, ma forte ed irrinunciabile dentro, con quella bellissima frase che sotto riporto. Ho dovuto alla fine ribaltare i miei schemi mentali, e considerare questo un libro da leggere e da far leggere. Perché, letto, ne è venuto fuori un quadro compiuto di quegli anni ottocenteschi e del dolore degli uomini che hanno fatto il nostro Rinascimento, seppur aspettandosi risultati migliori.
“Brutta storia accorgersi di avere un cuore, da giovane non mi accorgevo neppure di avere un corpo.” (63)
“Inventando di scompartire il tempo in mesi e settimane, l’uomo ha agito come il naufrago che si misura avaramente il poco biscotto e l’acqua della borraccia. Così, sbocconcellando la vita a porzioni di ventiquattrore, noi ci lusinghiamo di durare eterni.” (83)
“Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo…” (344)
Silvia Avallone “Acciaio” Rizzoli s.p. (prestito di A.)
[in: 27/02/2011 – out: 09/08/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2008]
Un po’ scontato. Un esercizio di bella scrittura. Due o tre battute. Ma la storia non sembra né nuova né avvincente. Come rileggere su carta una falsariga di “Ovosodo” di Virzì (ma quello era un bel film) trasferendosi da Livorno a Piombino. Lì si trattava di portuali, qui siamo nelle acciaierie. Entrambi incombenti perché sono loro che danno da vivere. Lì c’era anche la gioia del riso, qui no. Lì si parlava di un quartiere, qui tutto si svolge tra le case popolari di via Stalingrado (e ricordo che Stalin in russo significa acciaio). Ma basta con i paralleli, veniamo invece al romanzo, che vede al centro Anna e Francesca, amiche inseparabili che tra quelle case popolari si sono trovate e scelte. Sono al centro della loro maturazione, del passaggio duro verso l’adolescenza, quando il corpo inizia a cambiare. Allora devi decidere se nasconderti o usare la tua bellezza per cercare di uscirne fuori, per cercare di diventare qualcuno. E loro ci provano, convinte che per sopravvivere basti lottare. E come in tutti i passaggi dell’esistenza arriva presto anche l’amore. Ma non quello che si aspettavano. Amori che si frappongono ed incrinano un’amicizia che sembrava invincibile. Ed a fare da controcanto alla loro, alle loro storie, ecco tutto il loro mondo familiare. La madre di Anna, femminista che cerca di trovare qualche bandolo per ribaltare le storture del mondo. La madre di Francesca, vittima ormai consapevole di un marito violento che non sa (o forse non vuole) lasciare. E poi i fratelli, gli amici delle case popolari. E quelli che si presentano ad un certo punto, usciti dal nulla, come Mattia (che esce fuori dopo più di cento pagine) e che diventa un elemento catalizzatore della storia. Che fa innamorare Anna e fa in modo che Francesca capisca che lei vuole più bene ad Anna che ad altro. E sempre incombente l’acciaieria, la famosa Lucchini, che prima era l’Italsider, e che ben presto diventerà di proprietà russa (e già che i russi si comprano mezza Toscana). Come andrà a finire? Beh, questo lasciamolo ai pochi che ancora non hanno letto il libro. Che il libro ha avuto un bel successo, finalista allo Strega battuto per un soffio dal solito Pennacchi. Ed è anche un caso letterario. Viene presentato come lo straordinario esordio di una giovane scrittrice italiana, nel tentativo di rinverdire qualche anno dopo i fasti dell’esordiente Giordano (di cui prima o poi scriverò). Ora la Avallone scrive bene, la storia tiene, ma non è un libro straordinario. Se (come dice l’ottimo Belpoliti in una sua recensione) fosse uscito per una piccola casa editrice parleremo di un buon esordio e di promettenti sviluppi. Così invece ci si doveva aspettare molto. Ed il molto non c’è. Qualcuno ha detto che è il fedele specchio dell’attuale Italia berlusconiana. Io non vorrei essere così cattivo. Certo presenta un ritratto desolante di quello che siamo appena stati per diventare il poco che siamo ora. Aspetteremo altri scritti della nostra per vedere come si evolve, come matura la sua scrittura. Che, ripeto, è una buona scrittura e riesce a tenerti sullo scritto per pagine e pagine. E non è da poco. Ma non basta. Noi vogliamo un po’ di più. Vogliamo anche qualcosa che ci prenda il cuore e lo stomaco e li strizzi forte, forte. Questo non è il caso di “Acciaio”.
Sibilla Aleramo “Una donna” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2005 – out: 27/10/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1906]
Un libro difficile. Non per il contenuto, anche se ci mette del suo. È la lingua ed il modo di esprimersi che non lo rendono scorrevole. Ma merita di essere letto, anche a più di 100 anni di distanza. Anche il giudizio è composito perché risente di tutti questi fattori. Se si badasse solo alla scrittura, il peso delle frasi contorte, la difficoltà che si aveva allora di rendere discorsi diretti, lo avrebbero collocato nelle parti basse dei giudizi. Ma se badiamo al contenuto, ecco fare un balzo nelle più alte vette. Sentire la voce di una donna che riflette sulla sua vita, per tirarne fuori, non tanto e non solo un brandello di sé da mantenere nel tempo, ma qualcosa che possa essere ad altri di aiuto, di sprone e di conforto. Ecco questi sono indubbi pregi. La Sibilla (il cui vero nome era Rina) si mette a nudo, e cerca di far vedere attraverso la sua storia (perché è una sorta di autobiografia romanzata, quella che si va leggendo) l’impossibile condizione femminile tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Purtroppo, se fosse ancora qui, le dovremmo dire che non molto è cambiato. Certo qualcosa, la donna ha più strumenti per difendersi, per poter mettere dei paletti là dove la sua vita veniva oltraggiata ed ingiuriata. Anche per merito delle sue lotte. E di quelle di sua nipote Adele (e sì che la nostra faceva Faccio di cognome). Ma torniamo a più di 100 anni fa, allo sbocciare di una giovanetta che sta maturando, leggendo, facendosi un’opinione della vita. Ma lo spostarsi dal Monferrato natio (lì dove il suo futuro amore, il poeta Giovanni Cena, le prese quel cognome monferrino, ispirato da un verso del "Piemonte" di Carducci) la costringe ad abbandonare gli studi (d’altra parte è donna). E quando nella ristretta cerchia di Civitanova Marche, il rozzo Ulderico la violenta, lei quindicenne viene costretto al matrimonio riparatore. E questo tormento le andrà avanti per tutta la vita. Tante saranno le cadute. La demenza della madre. La durezza del padre. La rozzezza del marito. L’ambiente soffocante della provincia marchigiana. Ed una la scintilla di riscatto. La nascita del figlio e la volontà, per lui, di non annientarsi, di essere una persona, prima ancora che una donna. La breve stagione romana (almeno nel libro, che in realtà breve fu, ma milanese) dove prese a scrivere in riviste di donne ma anche in periodici del socialismo avanzante. Ma le vicende della vita la riportano brutalmente a Civitanova, al marito, alla vita che la soffoca. E quando il marito reclame i suoi “diritti” anche con la forza, lei è posta di fronte al bivio finale: resistere in una battaglia dall’interno, per salvaguardare il figlio, negando tutto ciò che di sé stessa è andata costruendo o darsi alla ribellione finale, partire, lasciandosi dietro brandelli di sé? Non vi dico il finale del libro, che con questi suoi alti e bassi merita sempre di essere letto. Qui veniamo soltanto al terzo voto, quello mediano, tra la scrittura ed il contenuto. Perché l’intreccio a volte è debole, ed a volte sarebbe utile approfondirne parti sorvolate o solo adombrate. E, pur se capiamo che non è un’autobiografia, la totale mancanza di nomi rende a volte difficile riprendere personaggi, che sono sempre indicati con delle caratteristiche, fisiche o di comportamento o di status (il padre, il marito, la zia, la curva tata, la bionda pittrice, l’avido editore, la scrittrice sul viale del tramonto, e così via). Certo, una colpa di queste mancanze va proprio a quel Giovanni sopra citato, che nella revisione del manoscritto, decise di tagliare e/o omettere parti dell’originale. Tant’è, questo è quanto ci ritroviamo. Un atto d’accusa di una donna, cui è stato impedito di crescere, cui sono stati tolti diritti fondamentali, in virtù di non si capisce quale maschile pretesa sul suo dovere (da donna) di stare a casa a fare l’angelo del focolare. Bella e significativa la pagina dove, da redattrice della rivista, redige un articolo sul ruolo della donna, e su come usciva dai romanzi dell’epoca: donna traviata, donna angelicata, ma mai donna realmente amata, ma mai donna a tutto tondo. Per concludere la lunga tirata, libro difficile, letto anch’esso con difficoltà. Ma da leggere o meglio, da meditare per ribaltare, anche ora, la prepotenza dell’uno sull’altro (ma soprattutto sull’altra).
“Ero forse pervenuta al sofisma di tante donne che conciliano l’amore dei figli con la menzogna maritale? Il mio spirito si raffigurava un avvenire di viltà felice fra le gioie materne e gli amplessi dell’amante?” (71)
“Scrivendo, la mia impotenza a tradurre … l’oscuro mondo interiore mi dava spesso una sofferenza acuta.” (106)
“Come mai tute quelle intellettuali non comprendevano che la donna non può giustificare il suo intervento nel campo già troppo folto della letteratura e dell’arte, se non con opere che portino fortemente la sua propria impronta?” (123)
“Il ridicolo è il maggior dissolvente d’ogni spirito d’obbedienza.” (161)
L’Oman questo inverno è tramontato. E per ora nulla risorge all’orizzonte. Forse è segno che bisogna rimandare i viaggi di qualche settimana e dedicarsi ad altro.

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