Visto che ci sono appena stato,
torniamo pian pianino ai nostri libri proprio con degli autori nordici. Certo
l’Islanda non è propriamente la penisola scandinava, ma i sensi della scrittura
di Indriđason sono quelli, gli stessi che mi venivano in mente bordeggiando in
macchina i fiordi verso Capo Nord. Inoltre non poteva mancare il fulcro della
narrativa svedese, il grande Mankell e le sue storie con o senza Wallander (e
vi segnalo su Rai3 una grande serie del commissario bravamente interpretato da
Kenneth Branagh). E peccato che non abbia molto di autori finlandesi (e
soprattutto chi conosce questa strana lingua?).
Cominciamo allora con la Svezia.
Henning Mankell “Il cinese” SuperPocket euro 5,90
[in: 20/06/2010 – out:
21/02/2011]
[tit. or.: Kinesen; ling. or.: svedese; anno 2008]
Un Mankell senza Wallander,
tuttavia migliore di alter prove “senza”. Anzi forse IL migliore tra queste.
Complesso, articolato, qualche parte forse un po’ lunga. Ma una bella storia,
con l’unica pecca, forse, di chiudere alcuni punti troppo in fretta. Abbiamo
aspettato quasi 600 pagine, potevano essercene qualcuna in più, e tutti i
cerchi si sarebbero chiusi. E non sarebbe stato male, per una storia che, tra i
su e giù del tempo, si estende per quasi 150 anni. Comunque la struttura è come
al solito complessa. C’è un inizio di giallo, con morti e misteri, ed i
poliziotti allo sbando. Ma dopo aver seguito l’ispettore Vivi per una
settantina di pagine, il testimone passa al giudice Brigitta, che poi sarà il
perno del romanzo. Perché tra i morti iniziali ci sono i novantenni genitori
adottivi della madre. E da questo flebile legame (e dal fatto che la più che
cinquantenne Brigitta ha qualche acciacco e si mette in malattia), seguiamo
tutto il suo percorso. Sia personale (e fa piacere questa prima storia nella
storia, che non ci lascerà sino alla fine) sia delle sue indagini. Che la fanno
collegare ad un antenato ottocentesco emigrato in America. E poi da lì ci
colleghiamo ad una storia di cinesi che anch’essi tentano la fortuna nel Nuovo
Mondo. Qui c’è un altro bel romanzo nel romanzo, che prende e si lascia leggere
con la consueta scorrevolezza di Mankell. Purtroppo però questo si collega a
tutto un filone di storia che si svolge nella Cina moderna, e qui, per me, c’è
la parte più debole. Non della storia in sé, che, come trama e giallo (scusate
il bisticcio) e il noir, si porta bene avanti (e ritrovo lo spaesarsi tra la
Cina degli anni novanta e quella olimpica), ma di una serie di digressioni
socio-politiche che sono fragili. Capisco la necessità, l’urgenza di Mankell
nel denunciare una certa politica espansionistica cinese, verso il suo 50% di
mondo (non a caso, ricordo che lo scrittore vive sei mesi all’anno in
Mozambico, e, se pur condivido le riserve verso le politiche di paesi
limitrofi, Zimbabwe in primis, le grida di dolore verso la cinesizzazione
dell’africa mi sembrano un po’ “appiccicate”), ma questa urgenza si riversa per
troppe pagine, appesantendo un discorso che si andava facendo stringente. Più
comprensibili, condivisibili, da discutere, le reciproche analisi di Brigitta e
della sua amica coeva Karin quando parlano dei movimenti maoisti degli anni
sessanta, delle loro illusioni, del fanatismo, ed altri ismi che ben conosciamo
(con quella evocazione sulla solidarietà che vivevamo allora e che riporto in
calce). Poi tutto si ricompone nel filone principale. Ritroviamo a margine i
poliziotti un po’ sbalestrati dell’inizio, troviamo (come è giusto), persone
buone e persone cattive, ma non per il colore della pelle (ed è ovvio, per un
fondamentale anti-razzista come Mankell). E la storia si chiude, con quel
rammarico che dicevo all’inizio. Tante chicche, nel corso della lunga storia
(ristoranti cinesi in Cina, Chinatown a Londra, confronto tra giustizia svedese
e giustizia cinese, citazioni di Mao ed altre piccole rivoluzioni culturali,
episodi di arroganza del potere, da parte di tutti, bianchi, gialli, e via
colorando). Ed una storia piacevole e complessa. Non lo ritengo “il miglior
Mankell” come strilla la quarta, ma certo sottoscrivo l’exergo sulla verità che
non è mai semplice e che richiede il suo tempo. Sempre e comunque, in tutti i
campi. Ed è questa l’interna fiducia che mi fa andare avanti.
“La memoria è come un vetro. Quello che è sparito è ancora visibile, ma
non possiamo più raggiungerlo.” (99)
“In me il pensiero di un mondo in cui la solidarietà abbia un
significato è ancora vivo … Non eravamo soltanto studenti scatenati che
credevano di essere al centro di un mondo in cui niente era impossibile. La
solidarietà era reale.” (308)
“Mi capita di avere l’impressione che cerchiamo di dimenticare più che
di ricordare … Alla fine l’unica cosa che ci rimane sono gli amici.” (313)
“In quei terribili mesi della primavera del 1968, vivevo in
un’illusione. Poi mi sono rifugiata nella storia…” (349)
“Il nostro passato è l’unico che abbiamo.” (356)
“Vorremmo che tutto potesse ripetersi, potesse tornare a essere
precisamente come era … Ma invecchiare significa anche imparare a difendersi
dal sentimentalismo. L’amicizia deve essere messa alla prova e rinnovarsi.
Forse i vecchi amori non cambiano mia. Ma l’amicizia sì.” (513)
E passiamo nella terra dei
geyser, in attesa di andarci.
Arnaldur Indriđason “Un corpo nel lago” TEA
euro 9
[in: 01/11/2010 – out:
17/03/2011]
[tit. or.: Kleifarvatn; ling. or.: islandese; anno 2004]
L’ultimo
episodio tradotto in economica del commissario Erlendur, che nella cronologia è
il sesto uscito (in italiano il quarto, che i primi due sono inediti). Qui
siamo nel pieno delle tematiche care ad Arnaldur (continuerò, all’islandese, ad
indicare le persone con il loro nome, essendo il secondo, come detto nella
prima trama islandese, solo un indicativo della discendenza, materna o
paterna). Una sorta di giallo, ma più che altro un pretesto per fare salti
all’indietro nel tempo (e qui c’è un interessante spaccato di vita anni
cinquanta su cui tornerò) non tanto per “sfruculiare” nel passato, quanto per
capire, vedere, analizzare quanti rimangono qui dopo quel passato. Non è un
caso che la caratteristica saliente di Erlendur è la dolenza del ricordo del
fratello morto, e quel suo continuo interrogarsi su cosa sarebbe successo se… e
cosa si è ora, visto che quel se non si è avverato. Una piccola nota sul
titolo, che in originale porta solo il nome di un lago, il Kleifarvatn, lago
vicino alla capitale, noto all’inizio di questo secolo perché, in seguito ad un
terremoto, le acque cominciarono a defluire abbassando anormalmente il livello
del lago. Solo a partire dal 2006, la probabile saturazione di faglie
sotterranee ha iniziato a riportare le acque al livello originale. La
traduzione di “Un corpo nel lago” già è squillante campanellino, ma capisco la
difficoltà di lasciare il titolo così com’è. Come se si dovesse tradurre in
islandese un romanzo intitolato “Il lago di Bracciano”. Come fareste? Ma questa
digressione ci consente di dare il via alla storia, perché proprio questo
ritirarsi fa scoprire un corpo, uno scheletro di un uomo ucciso almeno da 40
anni. Pane per i denti di Erlendur, che comincia ad indagare sulle scomparse
dell’epoca, sul fatto che ci fosse una rice-trasmittente, sul clima degli anni
sessanta, sulla scomparsa di un misterioso personaggio di nome Leopold, su di
una strana autovettura Ford Falcon. Un po’ aiutato ed un po’ sopportato dalla
sua squadra, da Sigurđor Óli che non riesce ad avere figli con la sua bella
Bergþora e da Elínborg che forse pensa più ai suoi libri di cucina. Un po’
maltrattato dalla sbandata figlia Eva Lind, ed un po’ consolato dalla sua
nascente storia con Valgerđur. Ma questo è solo il contesto per uno spaccato
della vita attuale islandese, molto legata alla natura, ma anche, a volte, di
una solitudine che fa malissimo. Comunque, girellando, parlando, leggendo, e
ragionando, alla fine Erlendur viene a capo al mistero del corpo del lago, ed
alle solitudini che quel corpo lascia intorno (che si ricollegano a quanto
detto all’inizio). Il resto, è un tuffo all’indietro, alla storia di un gruppo
di attivisti socialisti islandesi degli anni Cinquanta, che si ritrovano ad
usufruire di una borsa di studio a Lipsia, in Germania Est. Così, in parallelo,
seguiamo la storia di questi giovani idealisti, della voglia di cambiamento
degli anni cinquanta, ma anche del clima claustrofobico della Germania Est di
Ulbricht e della Stasi, della repressione in Ungheria del ’56. Una bella storia
nella storia, tipo paghi uno e prendi due, che anch’essa ci lascia a
riflessioni su chi eravamo, sulle nostre storie, e sui nostri percorsi di vita
(anche questo è un altro legame con il Mankell del Cinese). La conclusione,
poi, confluisce nell’altra: qualcosa è morto (un uomo, un’idea) e noi che non
lo siamo come viviamo ora? Bella e stimolante domanda. Forse c’entra poco con
la storia, ma i romanzi a volte servono a scatenare fili di pensieri che magari
ci portano altrove. Comunque, prima o poi, ci si andrà, in tutto il Grande
Nord.
“Non abbiamo fatto altro che parlare, io e te. È molto più di quanto
possa dire lui” (131)
Arnaldur Indriđason “Un grande gelo” TEA
euro 9
[in: 03/04/2011 – out: 28/05/2011]
[tit. or.: Vetrarborgin; ling. or.: islandese; anno 2005]
Appena
finito di leggere un Indriđason, ecco che esce il successivo in economica.
Certa siamo con quasi 6 anni in ritardo, non sono stati tradotti i primi libri
delle avventure del commissario Erlendur, ma come resistere al fascino algido
del freddo Nord? Allora si prende, si mette in attesa, ed ora si legge.
Un’altra onesta prova del nostro bravo islandese. Il punto centrale
dell’inchiesta, che come al solito è spesso in Arnaldur più che un pretesto per
discutere e parlare della società islandese, è l’uccisione di un bambino
immigrato thailandese. Uccisione misteriosa che sembra senza movente apparente,
o forse con troppi moventi. Infatti, il nostro ex-giornalista prende da lì lo
spunto per inserire una nuova freccia alla faretra del suo arco: quella sugli
extra-comunitari che vanno in Islanda, il più delle volte da paesi asiatici e
per scopo miraggio matrimonio o altro simile. Sembra che sia diffusa in Islanda
la pratica di andare nel Sud-est asiatico, sposarsi con una locale
(thailandesi, vietnamite, filippine) e tornare con loro al freddo Nord. E queste
immigrazioni non risultano facili. Il più delle volte finiscono in divorzi. E
le povere donne si trovano lontano dal loro paese, spesso senza troppi soldi
per andare avanti, spesso con dei figli da mantenere. Non facile, per cui si
adattano a tutti i mestieri pur di andare avanti. E con difficoltà imparano la
lingua (l’islandese non è certo una lingua facile, ed Arnaldur vi dedica un
paio di paginette interessanti). A volte i figli riescono meglio ad imparare e
a vivere nel freddo Nord, in questo aiutati dalla scuola. Fatta questa
disamina, rileggendola mi sembra di parlare dell’Islanda come di un qualsiasi
altro paese europeo. Dove c’è immigrazione dal terzo o quarto mondo. Dove non
c’è integrazione. Dove, spesso, non c’è rispetto. Come non c’è rispetto in
Islanda, dove (come hanno anche ben scritto gli svedesi colleghi di Arnaldur)
spesso questa mancanza di rispetto sfocia nell’intolleranza, e l’intolleranza
in manifestazioni che, quando sono buone, sembrano le assimilarsi alla Lega
nostrana, per poi incattivirsi fino all’esaltazione delle SS ed altri relitti
del passato (e mentre rileggo mi accorgo di aver scritto queste righe due mesi
prima dei fatti norvegesi di Utoya). Questo il tema principale, corroborato da
filoni “a latere”: la scomparsa di una donna (che lancia il commissario
Erlendur sul filo dei suoi pensieri ben noti sulla morte in gioventù del
fratello), il difficile rapporto tra il commissario ed i suoi due figli, la
prosecuzione del tentativo di storia d’amore di Erlendur con l’addetta al laboratorio
d’analisi, i problemi dei due collaboratori del commissario (una che deve
gestire la casa, dove, se si ammala la figlia ci sono problemi di gestione,
l’altro che è preso nella morsa della
compagna che vuole un figlio, ma che non riesce ad averne). Il tutto permeato
da due costanti: la tristezza della solitudine nordica (che mi fa paura), dove
si sta rinchiusi in casa (per il freddo) e ci si sposa al Sud (così si può
parlare con qualcuno) e la bellezza dei passaggi, tra ghiacciai, geyser,
vulcani, in una commistione tra acqua e fuoco che deve essere interessante. Per
ora chiudiamo un altro onesto libro, che mi ha tenuto compagnia in questi
giorni pensierosi, riuscendo a farmi pensare positivo. Speriamo si continui
così…
“So che ci sono uomini del genere … Vivono
sull’onda della passione finché dura, poi appena comincia ad affievolirsi se ne
vanno.” (262)
Allora, vi confesso che il
giro scandinavo è stato interessante ed istruttivo (internamente ed
esternamente, che quando si viaggia con la mente aperta, si scopre un po’ più
del mondo ed un po’ più di se stessi) forse al di là delle iniziali
aspettative. E ne riparleremo, sia di questo che di altri viaggi. Per ora
finiamo questo incandescente agosto con un grandissimo abbraccio
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