Lorenzo Licalzi “Non so” Fazi euro 9,50
[in: 27/11/2010 – out: 02/03/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2003]
Ecco,
di nuovo il buon Licalzi che mi faceva ridere leggendo, ed appassionare alla
lettura. Certo non è il mitico “Io no”, ma meglio, molto del Guru. Come spesso
in Licalzi (ed ormai posso considerarmi un “licalzologo” dopo averne letto
quasi tutto), il libro comincia alla grande, per poi scemare. Qui,
fortunatamente, si va in calando un po’ più tardi, tanto che la prima sera mi sono
scolato 150 pagine senza accorgermene. Romanzo di formazione e crescita,
seguiamo il buon Mario (certo un nome tristino…) affrontare le svolte della sua
vita. Prima il matrimonio con l’adorabile Giulia, e poi la nascita di Leonardo.
Con il passaggio dall’adolescenza a fare il DJ notturno in una radio, a
qualcos’altro, accettando un lavoro in banca dal suocero. Il tutto, andando su
e giù per la sua vita, con gli episodi (da paura) dell’oratorio e della scuola,
poi della radio, poi dei viaggi, poi degli amici e delle partite a tennis, poi
della banca, poi dei viaggi di lavoro, e poi… e poi… Certo non vi posso dire
tutto, che altrimenti scoprirei troppi meccanismi narrativi. Ma Licalzi mi
piace per questo mescolare vita, humour, musica, e libri (di tutti i generi, e
di tutte le tipologie, dai mattoni ai leggeri, dove un po’ mi ritrovo, con
quella mitica escursione nella sua stanza da adolescente, costrettovi da un
attacco di varicella a trenta anni, a rileggere i Zanna Bianca, i Corsari, fino
al mitico “Pattini d’argento” sul quale piansi da bambino). Ed un excursus che
mi da qualche spunto e la voglia di prendere in mano autori che non avevo
considerato (dovrò provare prima o poi Haruki). In tutta la prima parte, un po’
salingeriana, ci sono momenti di identificazione paurosi, che riescono a
ritirarmi fuori paure e gioie adolescenti (ma anche risate, come le tecniche di
mimetizzazione durante le interrogazioni). E quel non so ripetuto ad ogni
momento, come motivo conduttore è anche un suono che ogni tanto mi porto
appresso. Certo, Licalzi a volte lo esaspera, ma ci può stare, nelle pieghe del
racconto, nella fatica di capire se e quanto e come volere bene al figlio,
prima nascituro poi nato. Detto appunto che la parte finale mi si è trascinata
un po’, con qualche decisione narrativa che non mi ha convinto fino in fondo,
anche se, tolte le sovrastrutture, penso anche io che ci siano situazioni di
comunanza di sensi e di sentire che creano legami più forti dello spiegabile.
Quindi, forse, alla fine di tutto, il messaggio rimane un po’ monco, non tutto
quello che si arriva a sostenere e giustificare mi ha convinto, ma è stata una
bella e piacevole lettura. E continuerò ad essere empatico con Licalzi (certo
il fatto di aver esercitato per anni da psicologo, poi, me lo rende anche più
simpatico.)
“Io faccio parte di quella percentuale minima di italiani che ai
sondaggi risponde non so … un po’ perché le convinzioni non sono il mio forte,
ma soprattutto perché non ho nessuna intenzione di dire a quelli del sondaggio
se preferisco il dolce o il salato…” (11)
“Lo sai che odio andare nei negozi a misurarmi le cose” (54)
“Io rimanevo … sospeso tra il ragazzo che ero e l’uomo che dovevo
diventare” (65)
“Io non sono mai stato un ribelle; ero irrequieto, insofferente alle
regole, fondamentalmente anticonformista … magari non … in modo appariscente …
per il resto non ho mai inseguito con determinazione un sogno, non sono mai
stato uno di quelli che hanno un fuoco dentro che non si spegne mai e che non
possono star fermi ad aspettare che succeda qualcosa che gli cambi la vita, io
ho sempre aspettato Godot.” (65)
“Se non volevo lavare i piatti non li lavavo fino a quando non ero
costretto a bere il caffè nel mestolo del minestrone (che era l’unica cosa che
non sporcavo perché, a parte il fatto che il minestrone è già triste di suo,
cucinarselo e mangiarselo da soli è davvero una delle cose più tristi della
vita, seconda solo a farsi un bagno in una vasca con poca acqua in una stanza
fredda).” (164)
Domenico Seminerio “Il cammello e la corda” Sellerio euro 11 (in
realtà, scontato 9,90 euro)
[in: 07/11/2010 – out:
09/05/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2006]
La scrittura l’ho trovata più
scorrevole degli altri due libri di Seminerio che ho letto, anche se, nella
trama e negli scopi, mi è sembrato un po’ debole. Rimane questa cifra
caratteristica del non uso del dialogo, e della terza persona narrante, qui
meno faticoso che altrove. Sarebbe anche interessante questo andare su e giù
nel tempo, tra le due storie che (borgesianamente) non si biforcano ma
convergono. Purtroppo risentono della mancanza di tonicità, per cui rimangono a
volte appese. Da un lato c’è la storia di Padre Salvatore, della sua condotta
in un paesino siciliano, dove, da quarantenne un po’ introverso, non lega molto
con il paese, dedicandosi più alla preghiera ed alla caccia. Ma si trova ben
presto davanti a dei bivi: andando a caccia scopre una misteriosa grotta con
delle bellissime statue marmoree. Peccato che siano statue ad alto contenuto
erotico. Che fare? Sbandierare la sua scoperta al mondo (con tutte le
recriminazioni della prurigine clericale) o celarle per tempi migliori? L’altro
bivio è costituito dalla giovane Minuzza che, orfana improvvisa e
venticinquenne belloccia, si trova sballottata alla mercé dei vogliosi
potentati cittadini. Che fare? Lasciarla al suo destino o prenderla come
perpetua, a rischio di entrare in tentazione ad ogni piè sospinto? Il doppio
interrogativo troverà alla fine una sua confacente risposta (anche se
personalmente non ne condivido a pieno i risvolti). Ma questa doppia storia
odierna si lega sul filo del tempo all’altra, collocata al tempo della
conversione romana al cristianesimo. Dove veniamo a conoscere l’origine delle
belle statue. Sono quelle del tempio di Venere, diretto dal nobile Atenodoro.
Qui si innesca tutta l’altra storia, tra i dubbi che attanagliano Atenodoro su
come salvare le statue dall’iconoclastia del cristianesimo trionfante. E ci si
immerge sia nelle beghe che attorniano il concilio di Nicea, con la lotta tra
gli ortodossi e gli ariani, sia nella lotta dei cristiani per l’eliminazione
(anche fisica) dei culti degli antichi. Atenodoro incarna un elemento di
riflessione, di rispetto verso l’altro. E troverà il modo, attraverso lotte e
sotterfugi, di salvare le statue (d’altra parte lo sappiamo leggendo la storia
di Padre Salvatore). Questa parte è più ariosa, trovo anche meglio dosati dubbi
e risposte all’intolleranza. Purtroppo, il montaggio globale del tutto (che
credo voglia comunque portare acqua al mulino del rispetto verso l’altro)
risulta alla fine un po’ moscio ed un po’ monco. Al solito, avendo molti
spunti, l’autore cerca di portare avanti più discorsi. Dove credo sarebbe stato
più efficace concentrarsi su alcuni passaggi, e relativi risultati. Comunque
leggibile, e migliore delle due prove precedenti. Un elemento finale (che
avrebbe meritato una migliore estensione nel libro), riguarda la corda ed il
cammello (ripresi poi dal titolo). Atenodoro, nell’accesa discussione con il
vescovo Giustino, fa riferimento alla famosa parabola, citandola (ma non è ben
esplicitata) dalla versione greca dove è facile confondere “kamilos” (grossa
fune o gomena) con “kamelos” (cammello). E probabilmente tutto potrebbe
derivare dall’aramaico dove gomena si indica con “gamta” e cammello con
“gamal”. I più dotti tra noi sanno che anche l’aramaico era in scrittura solo
radicale, per cui le due parole si scrivevano “gmt” e “gml”, dove pare abbastanza
facile mutare una lettera nell’altra. D’altra parte, essendo una parabola
rivolta ai pescatori del Lago Tiberiade, non sembra alieno poter pensare che
questi capiscano bene una parabola dove si vuol far passare una gomena dentro
la cruna di un ago. A posteriori, poi l’errore si venne a giustificare
attraverso due filoni di lettura: da una parte nel testo ebraico del Talmud
Babilonese si parla di un elefante che non riesce ad attraversare la cruna
dell’ago (ed in Mesopotamia c’erano elefanti e non cammelli); dall’altra si
sostiene che “cruna dell’ago” sia il toponimo di una piccola porta per entrare
in Gerusalemme, usata per entrare a piedi chinandosi, e quindi inadatta a far
passare un cammello. Scusate la lunga digressione, ma le questioni di lingua mi
appassionano sempre.
Lorenzo Licalzi “Che cosa ti aspetti da me?”
BUR euro 7,20 (in realtà, scontato 5,60 euro)
[in: 25/07/2010 – out: 16/07/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2005]
Non so perché, ma mi aspettavo
una nuova puntata del Guru cui tanto sembra affezionato il buon Lorenzo, ed
invece è tutta un’altra storia. Diversa. All’inizio, anzi me ne sentivo quasi
respinto, come non volessi entrarci. Ma alla fine devo dire che mi è piaciuto.
Intanto il personaggio principale è un italo - argentino, e leggerne qui in
Argentina, mi è sembrato un buon modo di coniugare i due mondi. E poi Tommaso è
uno scienziato (anche se di astronomia, materia che non mi ha mai preso; ma ben
conosce la matematica e la fisica, con le giovanili frequentazioni di Paul
Dirac). Tutta l’auto-storia di Tommaso si svolge in una casa di lungo degenza,
dove viene ricoverato in seguito ad un ictus. Qui si scatena anche la vena
migliore di Licalzi, sui piccoli e grandi guasti quotidiani che si perpetrano
in tali strutture. Per i degenti. E per chi li cura. Una serie anche di
macchiette che non possono non risentire dei suoi passati psicologico –
ospedalieri. Ma è una parte gustosa. Per poi innescarsi nella parte che più mi
ha coinvolto. Nell’amore che nasce tra Tommaso che sta sulla sedia a rotelle e
Elena anche lei anziana (ma un po’ meno), anche lei con dei problemi fisici (ma
meno debilitanti). Questa parte l’ho trovata veramente bella, intrigante, piena
anche di delicatezze che non mi aspettavo. Dolente, è ovvio, perché siamo alla
fine delle loro vite, ma piena di speranze. Che ognuno rivolge verso qualcosa,
e non è detto che siano le stesse. Elena la trova nel conforto (anche) verso il
divino. Tommaso nel suo amore e nel volere riscattare il sé stesso brontolo ed
antipatico, verso un sé stesso meno pauroso e più positivo. Ne dovrò riprendere
quando finalmente riuscirò a leggere della Athill, ma ad ora l’ho trovata una
lettura che mi ha dato conforto. Continuerò a leggere di Licalzi, anche se mi
aspetto romanzi meno coinvolgenti nel futuro. Però non posso non sentire la
musica che sottende buona parte del libro, e che, come suggerisce Licalzi, non
può che essere di De Gregori (e che sottoscrivo in pieno). “Non sono uno
scrittore, saluto tutti senza inchino e vado via sfumando”.
“Ora che sono vecchio e stanco e solo, se mi guardo indietro mi sembra
che la mia vita sia la vita di un altro. … Eppure nei sotterranei della
coscienza, l’essenza ultima della mia persona non è cambiata, è la stessa di
quando avevo vent’anni o quattordici o nove. …Io ho l’anima del bambino che ero
e il corpo del vecchio che sono.” (13)
“Da qualche parte … ho letto una frase che diceva all’incirca: il
nostro destino è quello di essere inferiori all’idea che avevamo di noi
stessi.” (50)
“L’avessi incontrata prima … Sapere che lei c’era, che è nata nella mia
stessa città, in un quartiere non lontano dal mio, è il più grande rimpianto
che ho. Chissà quante volte ci siamo sfiorati, questione di ore, di minuti,
forse sarebbe bastato un cambiamento minimo, impercettibile dei percorsi della
nostra vita, e la vita l’avremmo trascorsa insieme.” (96)
“Mi ero dimenticato che sapevo emozionarmi.” (135)
“Un giorno me lo hai chiesto, ricordi? Che cosa ti aspetti da me? E
ricordi cosa ti ho risposto? Mi aspetto che tu non mi chieda che cosa mi
aspetto da te. Che non voleva dire ‘niente’, ma tutto quello che eri in grado
di darmi senza avere bisogno di chiedermelo.” (142)
“Mi spiegò, per esempio, che il segreto della piena realizzazione è
riuscire a comunicare agli altri ciò che si è attraverso quel che si fa, ma che
per essere davvero equilibrati e sereni è indispensabile che ciò che si fa sia
realmente quello che si vuole e non quello che vogliono gli altri.” (156)
Niccolò Ammaniti “Io e te” Einaudi s.p. (Natale dell’arabino di Paola)
[in: 07/01/2011 – out:
25/07/2011]
[tit. originale; ling.
or.: italiano; anno 2010]
Quarto libro letto del
quarantacinquenne romano. E direi di fase calante, seppur con ripresina. I
primi mi erano piaciuti, soprattutto “Io non ho paura”. Mi aveva deluso il
pluricelebrato “Come Dio comanda”. Ora questo libricino… Un po’ meglio.
Riprende le tematiche classiche sempre presenti nei suoi libri (anche quelli
che non ho ancora letto), soprattutto quella della fuga. E della fuga dai
grandi, dal loro mondo, cui i ragazzi non si sono abituati. Ma anche fuga
perché non ci si è abituati a stare con gli altri, perché ci si sente addosso
diversità e responsabilità che il ragazzo non sa ancora assumere. Così fa
Lorenzo, che finge di andare in montagna con i compagni di scuola, ed invece si
chiude nella cantina, dove vuole vivere una settimana isolato con sé stesso. I
suoi piani saranno mandati all’aria dall’improvviso materializzarsi di Olivia,
la sua sorellastra, figlia del primo matrimonio del padre. Olivia che è sempre
stata un po’ bandita dalla nuova vita, perché frequenta cattive compagnie,
perché beve e forse (ma neanche tanto forse) si droga. Ed ha un rapporto
disastroso con tutti, soprattutto con il padre. Olivia irrompe nella sua
cantina, e dopo scontri, incomprensioni ed altri disastri, a poco a poco si
instaura invece un rapporto tra i due. Si parlano, si confrontano, Olivia
riesce a tirar fuori da Lorenzo molto di quello che lui stesso non riusciva a
focalizzare. Peccato che Olivia sembra capace solo di aiutare gli altri e mai
se stessa. Lorenzo ci prova, e pare riuscirci. Poi si dovrà uscire dalla
cantina, ed affrontare la realtà. Qualcuno ce la farà e qualcuno no. Messo da
parte il sovraccarico di ironia che a volte sovrastava lo scritto, Ammaniti
riesce a farci sorridere narrando dei modi di Lorenzo per mimetizzarsi tra gli
altri, in una scuola che riesce sempre a far stare male chi non si omologa. E
riesce a farci pensare narrando le difficoltà di chi, fattosi accettare a
scuola, poi, come Olivia, non riesce ad entrare nel mondo, non riesce a trovare
i modi (non dico giusti ma propri) per essere, per manifestarsi, per
relazionarsi. Una bella descrizione dell’adolescenza, e di come ci siano molti
modi, non tutti belli, di uscirne. Anche se ha il non piccolo difetto di
rendere i contorni un po’ troppo netti. Troppo sfortunato Lorenzo all’inizio.
Troppo buono nel rapporto con la sorella. Troppo bella e dannata Olivia quando
irrompe in cantina. La vita è fatta di molte sfumature, ma mi sta bene che,
volendo dimostrare qualcosa, si tenda al bianco e nero, piuttosto che al
chiaroscuro. Certo, per chi ha dei figli è una lettura da pugni nello stomaco.
Per quello che sarebbe potuto accadere, e, fortunatamente, non è accaduto. Per
quello che è accaduto ad altri figli. Per quello che potrebbe accadere, ma
speriamo non accada mai, a quelli che stanno crescendo adolescenti. Facendo le
somme, un libro da leggere, che da qualche spunto, che toglie un po’ il fiato.
Ma che poteva riservarci migliori e più ampi respiri.
“Bisogna essere molto sicuri di sé per fare le battute in pubblico.”
(19)
Come vedete una trama tardiva,
che risente del clima di questi giorni, stranamente (per me) un po’ troppo
lavorativo. Ho avuto un ingaggio a termine per la presentazione di un documento
tecnico che mi tiene in lavoro d’ufficio all’altezza del raccordo. È
divertente, ma non mi riabituo facilmente. E poi ricorrenze di cari defunti, mi
hanno portato a cimiteri non agevoli. Insomma, una settimana intensa che
proseguirà nella prossima.
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