martedì 15 maggio 2012

Ancora Italiani - 09 ottobre 2011

Ma un po’ meno classici della settimana scorsa. Anzi, decisamente, contemporanei ed in alcuni casi da scoprire. Alcune scritture interessanti, sia Licalzi di cui mi invaghii dai tempi di “Io no” a Seminerio, che non sempre mi convince. Per finire con un libro che grande successo ha avuto, ma che non mi ha convinto fino in fondo. Preferisco ancora il primo Ammaniti.
Lorenzo Licalzi “Non so” Fazi euro 9,50
[in: 27/11/2010 – out: 02/03/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2003]
Ecco, di nuovo il buon Licalzi che mi faceva ridere leggendo, ed appassionare alla lettura. Certo non è il mitico “Io no”, ma meglio, molto del Guru. Come spesso in Licalzi (ed ormai posso considerarmi un “licalzologo” dopo averne letto quasi tutto), il libro comincia alla grande, per poi scemare. Qui, fortunatamente, si va in calando un po’ più tardi, tanto che la prima sera mi sono scolato 150 pagine senza accorgermene. Romanzo di formazione e crescita, seguiamo il buon Mario (certo un nome tristino…) affrontare le svolte della sua vita. Prima il matrimonio con l’adorabile Giulia, e poi la nascita di Leonardo. Con il passaggio dall’adolescenza a fare il DJ notturno in una radio, a qualcos’altro, accettando un lavoro in banca dal suocero. Il tutto, andando su e giù per la sua vita, con gli episodi (da paura) dell’oratorio e della scuola, poi della radio, poi dei viaggi, poi degli amici e delle partite a tennis, poi della banca, poi dei viaggi di lavoro, e poi… e poi… Certo non vi posso dire tutto, che altrimenti scoprirei troppi meccanismi narrativi. Ma Licalzi mi piace per questo mescolare vita, humour, musica, e libri (di tutti i generi, e di tutte le tipologie, dai mattoni ai leggeri, dove un po’ mi ritrovo, con quella mitica escursione nella sua stanza da adolescente, costrettovi da un attacco di varicella a trenta anni, a rileggere i Zanna Bianca, i Corsari, fino al mitico “Pattini d’argento” sul quale piansi da bambino). Ed un excursus che mi da qualche spunto e la voglia di prendere in mano autori che non avevo considerato (dovrò provare prima o poi Haruki). In tutta la prima parte, un po’ salingeriana, ci sono momenti di identificazione paurosi, che riescono a ritirarmi fuori paure e gioie adolescenti (ma anche risate, come le tecniche di mimetizzazione durante le interrogazioni). E quel non so ripetuto ad ogni momento, come motivo conduttore è anche un suono che ogni tanto mi porto appresso. Certo, Licalzi a volte lo esaspera, ma ci può stare, nelle pieghe del racconto, nella fatica di capire se e quanto e come volere bene al figlio, prima nascituro poi nato. Detto appunto che la parte finale mi si è trascinata un po’, con qualche decisione narrativa che non mi ha convinto fino in fondo, anche se, tolte le sovrastrutture, penso anche io che ci siano situazioni di comunanza di sensi e di sentire che creano legami più forti dello spiegabile. Quindi, forse, alla fine di tutto, il messaggio rimane un po’ monco, non tutto quello che si arriva a sostenere e giustificare mi ha convinto, ma è stata una bella e piacevole lettura. E continuerò ad essere empatico con Licalzi (certo il fatto di aver esercitato per anni da psicologo, poi, me lo rende anche più simpatico.)
“Io faccio parte di quella percentuale minima di italiani che ai sondaggi risponde non so … un po’ perché le convinzioni non sono il mio forte, ma soprattutto perché non ho nessuna intenzione di dire a quelli del sondaggio se preferisco il dolce o il salato…” (11)
“Lo sai che odio andare nei negozi a misurarmi le cose” (54)
“Io rimanevo … sospeso tra il ragazzo che ero e l’uomo che dovevo diventare” (65)
“Io non sono mai stato un ribelle; ero irrequieto, insofferente alle regole, fondamentalmente anticonformista … magari non … in modo appariscente … per il resto non ho mai inseguito con determinazione un sogno, non sono mai stato uno di quelli che hanno un fuoco dentro che non si spegne mai e che non possono star fermi ad aspettare che succeda qualcosa che gli cambi la vita, io ho sempre aspettato Godot.” (65)
“Se non volevo lavare i piatti non li lavavo fino a quando non ero costretto a bere il caffè nel mestolo del minestrone (che era l’unica cosa che non sporcavo perché, a parte il fatto che il minestrone è già triste di suo, cucinarselo e mangiarselo da soli è davvero una delle cose più tristi della vita, seconda solo a farsi un bagno in una vasca con poca acqua in una stanza fredda).” (164)
Domenico Seminerio “Il cammello e la corda” Sellerio euro 11 (in realtà, scontato 9,90 euro)
[in: 07/11/2010 – out: 09/05/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2006]
La scrittura l’ho trovata più scorrevole degli altri due libri di Seminerio che ho letto, anche se, nella trama e negli scopi, mi è sembrato un po’ debole. Rimane questa cifra caratteristica del non uso del dialogo, e della terza persona narrante, qui meno faticoso che altrove. Sarebbe anche interessante questo andare su e giù nel tempo, tra le due storie che (borgesianamente) non si biforcano ma convergono. Purtroppo risentono della mancanza di tonicità, per cui rimangono a volte appese. Da un lato c’è la storia di Padre Salvatore, della sua condotta in un paesino siciliano, dove, da quarantenne un po’ introverso, non lega molto con il paese, dedicandosi più alla preghiera ed alla caccia. Ma si trova ben presto davanti a dei bivi: andando a caccia scopre una misteriosa grotta con delle bellissime statue marmoree. Peccato che siano statue ad alto contenuto erotico. Che fare? Sbandierare la sua scoperta al mondo (con tutte le recriminazioni della prurigine clericale) o celarle per tempi migliori? L’altro bivio è costituito dalla giovane Minuzza che, orfana improvvisa e venticinquenne belloccia, si trova sballottata alla mercé dei vogliosi potentati cittadini. Che fare? Lasciarla al suo destino o prenderla come perpetua, a rischio di entrare in tentazione ad ogni piè sospinto? Il doppio interrogativo troverà alla fine una sua confacente risposta (anche se personalmente non ne condivido a pieno i risvolti). Ma questa doppia storia odierna si lega sul filo del tempo all’altra, collocata al tempo della conversione romana al cristianesimo. Dove veniamo a conoscere l’origine delle belle statue. Sono quelle del tempio di Venere, diretto dal nobile Atenodoro. Qui si innesca tutta l’altra storia, tra i dubbi che attanagliano Atenodoro su come salvare le statue dall’iconoclastia del cristianesimo trionfante. E ci si immerge sia nelle beghe che attorniano il concilio di Nicea, con la lotta tra gli ortodossi e gli ariani, sia nella lotta dei cristiani per l’eliminazione (anche fisica) dei culti degli antichi. Atenodoro incarna un elemento di riflessione, di rispetto verso l’altro. E troverà il modo, attraverso lotte e sotterfugi, di salvare le statue (d’altra parte lo sappiamo leggendo la storia di Padre Salvatore). Questa parte è più ariosa, trovo anche meglio dosati dubbi e risposte all’intolleranza. Purtroppo, il montaggio globale del tutto (che credo voglia comunque portare acqua al mulino del rispetto verso l’altro) risulta alla fine un po’ moscio ed un po’ monco. Al solito, avendo molti spunti, l’autore cerca di portare avanti più discorsi. Dove credo sarebbe stato più efficace concentrarsi su alcuni passaggi, e relativi risultati. Comunque leggibile, e migliore delle due prove precedenti. Un elemento finale (che avrebbe meritato una migliore estensione nel libro), riguarda la corda ed il cammello (ripresi poi dal titolo). Atenodoro, nell’accesa discussione con il vescovo Giustino, fa riferimento alla famosa parabola, citandola (ma non è ben esplicitata) dalla versione greca dove è facile confondere “kamilos” (grossa fune o gomena) con “kamelos” (cammello). E probabilmente tutto potrebbe derivare dall’aramaico dove gomena si indica con “gamta” e cammello con “gamal”. I più dotti tra noi sanno che anche l’aramaico era in scrittura solo radicale, per cui le due parole si scrivevano “gmt” e “gml”, dove pare abbastanza facile mutare una lettera nell’altra. D’altra parte, essendo una parabola rivolta ai pescatori del Lago Tiberiade, non sembra alieno poter pensare che questi capiscano bene una parabola dove si vuol far passare una gomena dentro la cruna di un ago. A posteriori, poi l’errore si venne a giustificare attraverso due filoni di lettura: da una parte nel testo ebraico del Talmud Babilonese si parla di un elefante che non riesce ad attraversare la cruna dell’ago (ed in Mesopotamia c’erano elefanti e non cammelli); dall’altra si sostiene che “cruna dell’ago” sia il toponimo di una piccola porta per entrare in Gerusalemme, usata per entrare a piedi chinandosi, e quindi inadatta a far passare un cammello. Scusate la lunga digressione, ma le questioni di lingua mi appassionano sempre.
Lorenzo Licalzi “Che cosa ti aspetti da me?” BUR euro 7,20 (in realtà, scontato 5,60 euro)
[in: 25/07/2010 – out: 16/07/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2005]
Non so perché, ma mi aspettavo una nuova puntata del Guru cui tanto sembra affezionato il buon Lorenzo, ed invece è tutta un’altra storia. Diversa. All’inizio, anzi me ne sentivo quasi respinto, come non volessi entrarci. Ma alla fine devo dire che mi è piaciuto. Intanto il personaggio principale è un italo - argentino, e leggerne qui in Argentina, mi è sembrato un buon modo di coniugare i due mondi. E poi Tommaso è uno scienziato (anche se di astronomia, materia che non mi ha mai preso; ma ben conosce la matematica e la fisica, con le giovanili frequentazioni di Paul Dirac). Tutta l’auto-storia di Tommaso si svolge in una casa di lungo degenza, dove viene ricoverato in seguito ad un ictus. Qui si scatena anche la vena migliore di Licalzi, sui piccoli e grandi guasti quotidiani che si perpetrano in tali strutture. Per i degenti. E per chi li cura. Una serie anche di macchiette che non possono non risentire dei suoi passati psicologico – ospedalieri. Ma è una parte gustosa. Per poi innescarsi nella parte che più mi ha coinvolto. Nell’amore che nasce tra Tommaso che sta sulla sedia a rotelle e Elena anche lei anziana (ma un po’ meno), anche lei con dei problemi fisici (ma meno debilitanti). Questa parte l’ho trovata veramente bella, intrigante, piena anche di delicatezze che non mi aspettavo. Dolente, è ovvio, perché siamo alla fine delle loro vite, ma piena di speranze. Che ognuno rivolge verso qualcosa, e non è detto che siano le stesse. Elena la trova nel conforto (anche) verso il divino. Tommaso nel suo amore e nel volere riscattare il sé stesso brontolo ed antipatico, verso un sé stesso meno pauroso e più positivo. Ne dovrò riprendere quando finalmente riuscirò a leggere della Athill, ma ad ora l’ho trovata una lettura che mi ha dato conforto. Continuerò a leggere di Licalzi, anche se mi aspetto romanzi meno coinvolgenti nel futuro. Però non posso non sentire la musica che sottende buona parte del libro, e che, come suggerisce Licalzi, non può che essere di De Gregori (e che sottoscrivo in pieno). “Non sono uno scrittore, saluto tutti senza inchino e vado via sfumando”.
“Ora che sono vecchio e stanco e solo, se mi guardo indietro mi sembra che la mia vita sia la vita di un altro. … Eppure nei sotterranei della coscienza, l’essenza ultima della mia persona non è cambiata, è la stessa di quando avevo vent’anni o quattordici o nove. …Io ho l’anima del bambino che ero e il corpo del vecchio che sono.” (13)
“Da qualche parte … ho letto una frase che diceva all’incirca: il nostro destino è quello di essere inferiori all’idea che avevamo di noi stessi.” (50)
“L’avessi incontrata prima … Sapere che lei c’era, che è nata nella mia stessa città, in un quartiere non lontano dal mio, è il più grande rimpianto che ho. Chissà quante volte ci siamo sfiorati, questione di ore, di minuti, forse sarebbe bastato un cambiamento minimo, impercettibile dei percorsi della nostra vita, e la vita l’avremmo trascorsa insieme.” (96)
“Mi ero dimenticato che sapevo emozionarmi.” (135)
“Un giorno me lo hai chiesto, ricordi? Che cosa ti aspetti da me? E ricordi cosa ti ho risposto? Mi aspetto che tu non mi chieda che cosa mi aspetto da te. Che non voleva dire ‘niente’, ma tutto quello che eri in grado di darmi senza avere bisogno di chiedermelo.” (142)
“Mi spiegò, per esempio, che il segreto della piena realizzazione è riuscire a comunicare agli altri ciò che si è attraverso quel che si fa, ma che per essere davvero equilibrati e sereni è indispensabile che ciò che si fa sia realmente quello che si vuole e non quello che vogliono gli altri.” (156)
Niccolò Ammaniti “Io e te” Einaudi s.p. (Natale dell’arabino di Paola)
[in: 07/01/2011 – out: 25/07/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2010]
Quarto libro letto del quarantacinquenne romano. E direi di fase calante, seppur con ripresina. I primi mi erano piaciuti, soprattutto “Io non ho paura”. Mi aveva deluso il pluricelebrato “Come Dio comanda”. Ora questo libricino… Un po’ meglio. Riprende le tematiche classiche sempre presenti nei suoi libri (anche quelli che non ho ancora letto), soprattutto quella della fuga. E della fuga dai grandi, dal loro mondo, cui i ragazzi non si sono abituati. Ma anche fuga perché non ci si è abituati a stare con gli altri, perché ci si sente addosso diversità e responsabilità che il ragazzo non sa ancora assumere. Così fa Lorenzo, che finge di andare in montagna con i compagni di scuola, ed invece si chiude nella cantina, dove vuole vivere una settimana isolato con sé stesso. I suoi piani saranno mandati all’aria dall’improvviso materializzarsi di Olivia, la sua sorellastra, figlia del primo matrimonio del padre. Olivia che è sempre stata un po’ bandita dalla nuova vita, perché frequenta cattive compagnie, perché beve e forse (ma neanche tanto forse) si droga. Ed ha un rapporto disastroso con tutti, soprattutto con il padre. Olivia irrompe nella sua cantina, e dopo scontri, incomprensioni ed altri disastri, a poco a poco si instaura invece un rapporto tra i due. Si parlano, si confrontano, Olivia riesce a tirar fuori da Lorenzo molto di quello che lui stesso non riusciva a focalizzare. Peccato che Olivia sembra capace solo di aiutare gli altri e mai se stessa. Lorenzo ci prova, e pare riuscirci. Poi si dovrà uscire dalla cantina, ed affrontare la realtà. Qualcuno ce la farà e qualcuno no. Messo da parte il sovraccarico di ironia che a volte sovrastava lo scritto, Ammaniti riesce a farci sorridere narrando dei modi di Lorenzo per mimetizzarsi tra gli altri, in una scuola che riesce sempre a far stare male chi non si omologa. E riesce a farci pensare narrando le difficoltà di chi, fattosi accettare a scuola, poi, come Olivia, non riesce ad entrare nel mondo, non riesce a trovare i modi (non dico giusti ma propri) per essere, per manifestarsi, per relazionarsi. Una bella descrizione dell’adolescenza, e di come ci siano molti modi, non tutti belli, di uscirne. Anche se ha il non piccolo difetto di rendere i contorni un po’ troppo netti. Troppo sfortunato Lorenzo all’inizio. Troppo buono nel rapporto con la sorella. Troppo bella e dannata Olivia quando irrompe in cantina. La vita è fatta di molte sfumature, ma mi sta bene che, volendo dimostrare qualcosa, si tenda al bianco e nero, piuttosto che al chiaroscuro. Certo, per chi ha dei figli è una lettura da pugni nello stomaco. Per quello che sarebbe potuto accadere, e, fortunatamente, non è accaduto. Per quello che è accaduto ad altri figli. Per quello che potrebbe accadere, ma speriamo non accada mai, a quelli che stanno crescendo adolescenti. Facendo le somme, un libro da leggere, che da qualche spunto, che toglie un po’ il fiato. Ma che poteva riservarci migliori e più ampi respiri.
“Bisogna essere molto sicuri di sé per fare le battute in pubblico.” (19)
Come vedete una trama tardiva, che risente del clima di questi giorni, stranamente (per me) un po’ troppo lavorativo. Ho avuto un ingaggio a termine per la presentazione di un documento tecnico che mi tiene in lavoro d’ufficio all’altezza del raccordo. È divertente, ma non mi riabituo facilmente. E poi ricorrenze di cari defunti, mi hanno portato a cimiteri non agevoli. Insomma, una settimana intensa che proseguirà nella prossima.

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