martedì 8 maggio 2012

E andiamo: una vacanza classica - 10 agosto 2011

Sì, questa volta è veramente l’ultima prima di chiudere per ferie. Un ultimo sguardo a qualche classico, inteso anche come libro scritto al massimo con me in fasce. Forse non per tutti è corretto l’uso del termine “classico”, ma sicuramente sono epigoni, paragoni, esempi. Un arabino anche lui classico nella sua collocazione, continuando a confrontarmi con le interessanti scelte di Nico che forse non condivido sempre ma che segue con interesse (e auguri a N & R anche se ritardati). Un grande, bellissimo agente a Saigon. E per finire un Jean-Paul che mi mancava. Letture serie, non da ombrellone, direi piuttosto da terrazza ombreggiata prospiciente mare.
Leo Perutz “Dalle nove alle nove” Adelphi s.p. (Befana dell’Arabista di Nicoletta)
[in: 07/01/2011 – out: 13/03/2011]
[tit. or.: Zwischen neun und neun; ling. or.: tedesco; anno 1918]
Darei 1 per il coinvolgimento e 5 per l’idea che, se collochiamo il romanzo nella sua prospettiva storica di scrittura nel 1918, è senza dubbio interessante e preveggente. Ma, purtroppo, irrimediabilmente datato. Conoscevo solo di nome lo scrittore boemo Leo Perutz, e devo dire che non mi è dispiaciuto comunque saperne di più, su di lui e sulla sua scrittura. Intanto diciamo che nasce nel 1882, e che la sua produzione di maggior successo tra il 1918 ed il 1930. Certo i suoi capolavori verranno solo in tarda età, ed uno anche postumo, ma tutto si inquadra all’interno del suo carattere schivo ed un po’ controcorrente (pur emigrato in Palestina, abbandona Israele nel 1948 non essendo convinto della nascita di uno stato ebraico). Altri sono i punti a favore dell’uomo che debbo riconoscergli: la matematica (anche se applicata, ma a lui si deve un teorema di equivalenza in matematica attuariale), il bridge (e ne pubblicò anche un manuale) e l’ammirazione che per lui ebbe sempre Borges. Ma nello specifico, che dire di questa lunga cavalcata di 12 ore? Di questo romanzo che in francese fu tradotto: “Un giro di lancette”? In effetti, è una lunga cavalcata di bozzetti, di piccole storie, con al centro sempre il povero Stanislaus Demba, che cerca di dissimulare un suo problema, motivo per cui indossa per tutto il romanzo una mantella, e nello stesso tempo di trovare i soldi per poter riconquistare la bella Sonja offrendole un viaggio a Venezia. Ma sono, appunto, bozzetti, storielle, caratterizzazioni di tipici borghesi mitteleuropei. Il precettore, i giocatori d’azzardo, gli studenti squattrinati, le commesse di negozio, l’avvocato, il medico, lo scrittore di talento. Nonché la giovane Steffi, che, nell’ombra, sembra l’unica ad interessarsi a Stanislaus veramente, e, probabilmente, l’unica a volergli bene. Ecco, però, proprio quelle costrizioni, quegli artifici, si fanno, a poco a poco, venire il fiato corto, mancano di “credibilità”, e sembrano quasi susseguirsi a forza, coscientemente incastrati dall’autore, in un crescendo di difficoltà ed improbabilità. La scena del pranzo, con il buon Stanislaus sommerso da libri ed enciclopedie è, purtroppo, troppo irreale per non essere seguita con un occhio un po’ distaccato da me lettore forse troppo ingordo. Certo la fine è degna, ed è un bel modo di risolvere le duecento pagine ansiogene. E non ne rivelerò neanche un filo, che, sebbene non sia un libro che nel complesso mi sia piaciuto, questo accumulare tensione fino allo scioglimento finale è ben degno di nota. Non è un caso che Hitchcock si sia innamorato del romanzo, anche se dire che il suo film “Il pensionante” del 1926 (l’ultimo suo film muto) ne abbia tratto ispirazione, sembra voler dire che non si conosce né il libro né il film. Del libro ho parlato, il film è una specie di rivisitazione della ricerca dell’assassino allo Jack lo Squartatore (ambientato a Londra, dove qualcuno uccide donne bionde). Ma un piccolo debito il grande Alfred lo tributa comunque a Perutz, nella scena del ristorante dove la bella cena con il pensionante del titolo che indossa una mantella come Stanislaus e per lo stesso motivo. Ecco, ora che ne ho scritto, mi sento un po’ più pacificato verso il testo, che, mentre faticosamente arrancavo per arrivare all’ultima pagina, mi faceva continuamente domandare se pennacchiamente ne valeva la pena. Tutto sommato, sì.
“Una donna può voler bene a un uomo, anche se è brutto e sciocco. E anche se è cattivo” (106)
Graham Greene “L'americano tranquillo” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 21/03/2011]
[tit. or.: The Quiet American; ling. or.: inglese; anno 1955]
Grande Graham Greene. La storia piccola e grande che si intrecciano. Era dai tempi dell’Agente a La Havana che non mi coinvolgeva tanto, anche se quello mi coinvolse per il lato “comico”. Una grande lezione di umanità. Certo se facciamo il tifo per Fowler. Ma perché si dovrebbe tifare Pyle? In altri suoi scritti, di questo lato più impegnato, si sente molto il suo cattolicesimo, a volte esasperando oltremodo le situazioni (ricordo come non mi piacque, o non capii, “La fine dell’avventura”). Qui, il suo lato religioso c’è, ma pur presente non è l’elemento di volta della storia. È uno degli elementi del narrare, apertamente nelle dispute tra il pascaliano commissario Vigot ed il disincantato Fowler (interpretato magistralmente da Michael Redgrave nella pur non riuscitissima versione cinematografica, dove la bella Phuong aveva il viso e il corpo di Giorgia Moll), di striscio in altre (l’ostinazione di Helen a non voler concedere il divorzio, le riflessioni notturne di Pyle e Fowler assaliti dai VietMinh). Ma il tutto ruota nel doppio intreccio. Il privato: Fowler vive con Phuong, la bella vietnamita, ma arriva Pyle, l’americano, che se ne innamora, e farà di tutto per toglierla al giornalista inglese. Ci riuscirà, ma sarà una vittoria di Pirro, che già nelle prime pagine del libro l’autore ci dice che Pyle è stato ucciso. E c’è tutto il presente della ricerca della soluzione del giallo condotta del commissario Vigot. Il pubblico: Pyle è (segretamente) un agente segreto (ahi il bisticcio) mandato nell’Indocina francese per trovare una terza via, nella guerra tra VietMinh e Francesi. Lui, e gli americani, si appoggiano ad uno strano esercito privato, gestito da una setta cattolica locale, i Cao Đai, che alla radice cattolica, aggiungono sincreticamente un po’ di buddhismo ed un po’ di (involontario) folklore (tra i loro santi c’è anche San Victor Hugo!!). I Francesi vanno di sconfitta in sconfitta (si avvicina la disfatta di Ðiện Biên Phủ) e gli Americani non sono ancora presenti. Ma Pyle convince il generale Trinh Minh Thé a fare degli attentati ai civili, mascherandoli da attentati VietMinh. In questo modo gli Americani potranno intervenire e si darà inizio alla lunga odissea del Vietnam. Greene narra con efficacia (per averli vissuti anche di persona) sia l’orrore della guerra, sia la stupidità (o l’ottusità) di certa gerarchia militare e spionistica. Ci sono belle pagine, nel contrapporsi tra Fowler e Pyle, sulla disincantata visione del giornalista, che da anni vive nei luoghi ed in un certo senso ha cessato di interpretare gli asiatici, ma li accetta così come sono, diversi, e l’incantata visione dell’addetto commerciale, che si è formato sui libri, e cerca di adattare la realtà ai libri e non viceversa. Ed è vero. Pyle è un americano tranquillo, ottuso esponente del New England, padre universitario e madre giocatrice di canasta, ha le sue prime esperienze sessuali con Phuong, beve poco alcool, ed ha altre virtù. Ma in realtà è pericolosissimo. Questa sua (e di coloro che lui eponimamente rappresentata) stupidità sarà causa di decenni di lutti storici e mondiali (per dirla con Schiller, “Contro la stupidità neanche gli dei possono nulla”). Alla fine, ed è ovvio, le due vicende convergeranno, cha anche un disilluso come Fowler non resterà insensibile alla devastazione prodotta da una bomba-Pyle in un mercato. Per ora non sappiamo come ed in quale maniera il reporter sarà coinvolto. Sappiamo solo (e come detto dall’inizio) che Pyle muore. Ma non sarà Fowler ad ucciderlo. Ecco, certo, ben datato, collocato temporalmente intorno al 1954-55, e si parla di avvenimenti all’epoca ben vividi alle menti. Ora pochi (gli storici?) se ne ricordano. Tuttavia è un bello stimolo a ripercorrere quegli anni. Ed a ripensare come c’è chi, in nome della (propria) Democrazia, continua sempre ed ovunque a fare danni. Non dico (e non so) se, dove, quando, ci si deve astenere e/o intervenire. Certo è che a me sembra che si intervenga sempre troppo tardi e male. Speriamo.
 “- Tu e i tuoi colleghi state cercando di fare una guerra con l’aiuto di gente che non ha interesse a farla. – Non vogliono il comunismo. – Vogliono riso a sufficienza … Vogliono poter diventare un giorno come chiunque altro. Non vogliono i nostri visi pallidi intorno a loro a insegnarli cosa devono volere.” (109)
“Immaginai di essere altrove … quando ero giovane e potevo stare alzato tutta la notte senza che mi venisse la malinconia, e quando i sogni prima del risveglio erano pieni di speranza e non di paura.” (116)
“Alla mia età il problema non è il sesso, è la vecchiaia e la morte. Quando mi sveglio penso a queste cose, non a un corpo di donna. Non voglio passare i miei ultimi dieci anni da solo, tutto qui.” (121)
“Essere innamorati significa vedere noi stessi come ci vede qualcun altro … In amore siamo incapaci di onore, qualunque atto di coraggio non è che la parte di una recita per un pubblico di due persone.” (130)
Jean - Paul Sartre “La nausea” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 30/03/2011]
[tit. La nausée; ling. or.: francese; anno 1938]
Non mi è piaciuto tantissimo. E non perché non abbia contenuti, idee (tant’è che ho un ricco carniere di citazioni). Ma credo sia il modo di esprimerle, e di esprimersi del protagonista che mi lasciano distante. Il filo della trama è esile, quasi inesistente. Un trentenne borghese che dispone di una rendita, dopo aver girovagato per il mondo, si è rinchiuso in una città di provincia per scrivere un libro storico su di un oscuro personaggio francese vissuto alla corte dello Zar di Russia. Ma la sua vita è vuota (e secondo me, lui è un poco snob), si interroga sulla sua esistenza (non è un caso che Sartre scriva questo romanzo dopo la laurea in Filosofia, ed il libro è pieno, anche se io non posso esserne un esegeta data la mia ignoranza, di Heidegger e Husserl), la trova vuota, non riesce ad interagire con gli altri (né con il socialista Autodidatta che cerca di farsi una cultura in Biblioteca, e che Sartre tartassa come personaggio, quasi voglia tartassare tutti i socialisti meschineggiandoli, né con la sua ex-fiamma Anny, che pur rivede, ma che ancora e ancora non riesce a capire). E tutto questo vuoto di esistenza, viene riempito di tanto in tanto dalla Nausea, da questo sentimento di non farcela più, tanto che a volte sembra che si voglia (giustamente) suicidare. Sconfitto, non potrà che abbandonare il libro, tornare a Parigi, e, forse, trovare un modo di giustificare l’esistenza: un’opera di ingegno, magari un libro, un disco, un refrain di jazz, una pennellata. Ma non mi piace il modo in cui Sartre inanella pagina dopo pagina questa non esistenza, questo libro che diventerà poi bandiera e simbolo dell’esistenzialismo, quel modo di essere parigino del dopo guerra, quello si di Sartre e della De Beauvoir, ma anche di Juliette Gréco, di Boris Vian, per parte di Albert Camus. Ecco, io sono più dalla parte di Boris Vian, dalla parte scanzonata, ma ridicolmente seria, quello che scriveva di fantascienza, produceva canzoni immortali come “Le dèserteur”, e prendeva in giro Sartre facendolo entrare nei suoi libri con il nome di Jean-Sol Partre. È vero, qui siamo ancora nel ’38, è da poco finita l’esperienza del Fronte Popolare del ’36, c’è stata la Guerra di Spagna. Tuttavia, non mi prende, non mi emoziona, non mi convince che la vita sia inutile. Forse è inutile a chi si siede ad un bar e non riesce a parlare a nessuno. Forse Roquentin è l’esempio negativo di cosa NON si dovrebbe fare. Forse, per combattere la Nausea bisogna fare la Rivoluzione (e tutto con le maiuscole). Forse, ma non lo riesco a vedere così, mi viene voglia ad ogni pagina di dire: prova, fa qualcosa, parla, agisci. Ma come, hai girato mezzo mondo solo per enumerare i posti dove sei stato, e non ne hai capito un cavolo. Non c’è bisogno di avventure per vivere. C’è bisogna della vita, per andare avanti, per arrivare lì dove sarà Garcia Marquez quando scriverà la sua autobiografia (“Vivere per raccontarla”). Quindi, già un po’ mi stava antipatico Sartre, e questo libro non lo tira su di molto. Un ultimo punto anche sulla traduzione. Ora, si può tradurre una frase “Defense de fumer, même une gitane”, con “Proibito fumare, perfino una gitana” e scrivere in nota “Marca di sigaretta francese”! Ma o si da per scontato che si conosca la Francia ed il fumo, e tutti (TUTTI anche i non fumatori) sanno cosa sia “una gitane”, oppure si decide che bisogna spiegare tutto, ma non si può scrivere “gitana”. Niente da fare, i traduttori tradiscono (quasi) sempre. Andiamo ad fumarci un cammello (pardon, una camel…).
“Quando uno vive solo non sa nemmeno più che cosa sia raccontare.” (16)
“Se mai dovessi fare un viaggio credo che prima di partire noterei per iscritto i più piccoli tratti del mio carattere per poter poi fare un paragone, al ritorno, tra quello che ero e quello che son diventato.” (48)
“Affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo. … Un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse.” (54)
“Ed io dove potrei conservare il mio [passato]? Non ci si può mettere il passato in tasca; bisogna avere una casa per sistemarvelo.” (85)
“Se soltanto potessi smettere di pensare andrebbe già meglio. … Il mio pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso … e non posso impedirmi di pensare.” (126)
“Ho voglia di andarmene, d’andarmene in qualche posto dove sia veramente al mio posto … Ma il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo.” (153)
“Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa. Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento … C’è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio; se si riflette non lo si fa.” (180)
“Allora, è possibile giustificare la propria esistenza?” (220)
Credo sia possibile rispondere affermativamente a questa domanda. Io intanto la giustifico andando in giro per il mondo, vedendo posti, e parlandone ad amici e conoscenti. Di modo che ci si possa allargare a vedere orizzonti più ampi. Spazi migliori. Cieli più puliti. Saranno allora puliti i cieli di Capo Nord? Vedremo e ne parleremo.

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