Sì, questa volta è veramente
l’ultima prima di chiudere per ferie. Un ultimo sguardo a qualche classico,
inteso anche come libro scritto al massimo con me in fasce. Forse non per tutti
è corretto l’uso del termine “classico”, ma sicuramente sono epigoni, paragoni,
esempi. Un arabino anche lui classico nella sua collocazione, continuando a
confrontarmi con le interessanti scelte di Nico che forse non condivido sempre
ma che segue con interesse (e auguri a N & R anche se ritardati). Un
grande, bellissimo agente a Saigon. E per finire un Jean-Paul che mi mancava.
Letture serie, non da ombrellone, direi piuttosto da terrazza ombreggiata
prospiciente mare.
Leo Perutz “Dalle nove alle nove” Adelphi
s.p. (Befana dell’Arabista di Nicoletta)
[in: 07/01/2011 – out: 13/03/2011]
[tit. or.: Zwischen neun und neun;
ling. or.: tedesco; anno 1918]
Darei 1 per il coinvolgimento e 5
per l’idea che, se collochiamo il romanzo nella sua prospettiva storica di
scrittura nel 1918, è senza dubbio interessante e preveggente. Ma, purtroppo,
irrimediabilmente datato. Conoscevo solo di nome lo scrittore boemo Leo Perutz,
e devo dire che non mi è dispiaciuto comunque saperne di più, su di lui e sulla
sua scrittura. Intanto diciamo che nasce nel 1882, e che la sua produzione di
maggior successo tra il 1918 ed il 1930. Certo i suoi capolavori verranno solo
in tarda età, ed uno anche postumo, ma tutto si inquadra all’interno del suo
carattere schivo ed un po’ controcorrente (pur emigrato in Palestina, abbandona
Israele nel 1948 non essendo convinto della nascita di uno stato ebraico).
Altri sono i punti a favore dell’uomo che debbo riconoscergli: la matematica
(anche se applicata, ma a lui si deve un teorema di equivalenza in matematica
attuariale), il bridge (e ne pubblicò anche un manuale) e l’ammirazione che per
lui ebbe sempre Borges. Ma nello specifico, che dire di questa lunga cavalcata
di 12 ore? Di questo romanzo che in francese fu tradotto: “Un giro di
lancette”? In effetti, è una lunga cavalcata di bozzetti, di piccole storie,
con al centro sempre il povero Stanislaus Demba, che cerca di dissimulare un
suo problema, motivo per cui indossa per tutto il romanzo una mantella, e nello
stesso tempo di trovare i soldi per poter riconquistare la bella Sonja
offrendole un viaggio a Venezia. Ma sono, appunto, bozzetti, storielle,
caratterizzazioni di tipici borghesi mitteleuropei. Il precettore, i giocatori
d’azzardo, gli studenti squattrinati, le commesse di negozio, l’avvocato, il
medico, lo scrittore di talento. Nonché la giovane Steffi, che, nell’ombra,
sembra l’unica ad interessarsi a Stanislaus veramente, e, probabilmente,
l’unica a volergli bene. Ecco, però, proprio quelle costrizioni, quegli
artifici, si fanno, a poco a poco, venire il fiato corto, mancano di
“credibilità”, e sembrano quasi susseguirsi a forza, coscientemente incastrati
dall’autore, in un crescendo di difficoltà ed improbabilità. La scena del
pranzo, con il buon Stanislaus sommerso da libri ed enciclopedie è, purtroppo,
troppo irreale per non essere seguita con un occhio un po’ distaccato da me
lettore forse troppo ingordo. Certo la fine è degna, ed è un bel modo di
risolvere le duecento pagine ansiogene. E non ne rivelerò neanche un filo, che,
sebbene non sia un libro che nel complesso mi sia piaciuto, questo accumulare
tensione fino allo scioglimento finale è ben degno di nota. Non è un caso che
Hitchcock si sia innamorato del romanzo, anche se dire che il suo film “Il
pensionante” del 1926 (l’ultimo suo film muto) ne abbia tratto ispirazione,
sembra voler dire che non si conosce né il libro né il film. Del libro ho
parlato, il film è una specie di rivisitazione della ricerca dell’assassino
allo Jack lo Squartatore (ambientato a Londra, dove qualcuno uccide donne
bionde). Ma un piccolo debito il grande Alfred lo tributa comunque a Perutz,
nella scena del ristorante dove la bella cena con il pensionante del titolo che
indossa una mantella come Stanislaus e per lo stesso motivo. Ecco, ora che ne
ho scritto, mi sento un po’ più pacificato verso il testo, che, mentre
faticosamente arrancavo per arrivare all’ultima pagina, mi faceva continuamente
domandare se pennacchiamente ne valeva la pena. Tutto sommato, sì.
“Una donna può voler bene a un uomo, anche se è brutto e sciocco. E anche
se è cattivo” (106)
Graham Greene “L'americano tranquillo”
Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 21/03/2011]
[tit. or.: The Quiet American; ling. or.: inglese; anno 1955]
Grande
Graham Greene. La storia piccola e grande che si intrecciano. Era dai tempi
dell’Agente a La Havana che non mi coinvolgeva tanto, anche se quello mi
coinvolse per il lato “comico”. Una grande lezione di umanità. Certo se
facciamo il tifo per Fowler. Ma perché si dovrebbe tifare Pyle? In altri suoi
scritti, di questo lato più impegnato, si sente molto il suo cattolicesimo, a
volte esasperando oltremodo le situazioni (ricordo come non mi piacque, o non
capii, “La fine dell’avventura”). Qui, il suo lato religioso c’è, ma pur
presente non è l’elemento di volta della storia. È uno degli elementi del
narrare, apertamente nelle dispute tra il pascaliano commissario Vigot ed il
disincantato Fowler (interpretato magistralmente da Michael Redgrave nella pur
non riuscitissima versione cinematografica, dove la bella Phuong aveva il viso
e il corpo di Giorgia Moll), di striscio in altre (l’ostinazione di Helen a non
voler concedere il divorzio, le riflessioni notturne di Pyle e Fowler assaliti
dai VietMinh). Ma il tutto ruota nel doppio intreccio. Il privato: Fowler vive
con Phuong, la bella vietnamita, ma arriva Pyle, l’americano, che se ne
innamora, e farà di tutto per toglierla al giornalista inglese. Ci riuscirà, ma
sarà una vittoria di Pirro, che già nelle prime pagine del libro l’autore ci
dice che Pyle è stato ucciso. E c’è tutto il presente della ricerca della
soluzione del giallo condotta del commissario Vigot. Il pubblico: Pyle è
(segretamente) un agente segreto (ahi il bisticcio) mandato nell’Indocina
francese per trovare una terza via, nella guerra tra VietMinh e Francesi. Lui,
e gli americani, si appoggiano ad uno strano esercito privato, gestito da una
setta cattolica locale, i Cao Đai, che alla radice cattolica, aggiungono
sincreticamente un po’ di buddhismo ed un po’ di (involontario) folklore (tra i
loro santi c’è anche San Victor Hugo!!). I Francesi vanno di sconfitta in
sconfitta (si avvicina la disfatta di Ðiện Biên Phủ) e gli Americani non sono
ancora presenti. Ma Pyle convince il generale Trinh Minh Thé a fare degli
attentati ai civili, mascherandoli da attentati VietMinh. In questo modo gli
Americani potranno intervenire e si darà inizio alla lunga odissea del Vietnam.
Greene narra con efficacia (per averli vissuti anche di persona) sia l’orrore
della guerra, sia la stupidità (o l’ottusità) di certa gerarchia militare e
spionistica. Ci sono belle pagine, nel contrapporsi tra Fowler e Pyle, sulla
disincantata visione del giornalista, che da anni vive nei luoghi ed in un
certo senso ha cessato di interpretare gli asiatici, ma li accetta così come
sono, diversi, e l’incantata visione dell’addetto commerciale, che si è formato
sui libri, e cerca di adattare la realtà ai libri e non viceversa. Ed è vero.
Pyle è un americano tranquillo, ottuso esponente del New England, padre
universitario e madre giocatrice di canasta, ha le sue prime esperienze
sessuali con Phuong, beve poco alcool, ed ha altre virtù. Ma in realtà è
pericolosissimo. Questa sua (e di coloro che lui eponimamente rappresentata)
stupidità sarà causa di decenni di lutti storici e mondiali (per dirla con Schiller,
“Contro la stupidità neanche gli dei possono nulla”). Alla fine, ed è ovvio, le
due vicende convergeranno, cha anche un disilluso come Fowler non resterà
insensibile alla devastazione prodotta da una bomba-Pyle in un mercato. Per ora
non sappiamo come ed in quale maniera il reporter sarà coinvolto. Sappiamo solo
(e come detto dall’inizio) che Pyle muore. Ma non sarà Fowler ad ucciderlo.
Ecco, certo, ben datato, collocato temporalmente intorno al 1954-55, e si parla
di avvenimenti all’epoca ben vividi alle menti. Ora pochi (gli storici?) se ne
ricordano. Tuttavia è un bello stimolo a ripercorrere quegli anni. Ed a
ripensare come c’è chi, in nome della (propria) Democrazia, continua sempre ed
ovunque a fare danni. Non dico (e non so) se, dove, quando, ci si deve astenere
e/o intervenire. Certo è che a me sembra che si intervenga sempre troppo tardi
e male. Speriamo.
“- Tu e i tuoi colleghi state
cercando di fare una guerra con l’aiuto di gente che non ha interesse a farla.
– Non vogliono il comunismo. – Vogliono riso a sufficienza … Vogliono poter
diventare un giorno come chiunque altro. Non vogliono i nostri visi pallidi
intorno a loro a insegnarli cosa devono volere.” (109)
“Immaginai di essere altrove … quando ero giovane e potevo stare alzato
tutta la notte senza che mi venisse la malinconia, e quando i sogni prima del
risveglio erano pieni di speranza e non di paura.” (116)
“Alla mia età il problema non è il sesso, è la vecchiaia e la morte.
Quando mi sveglio penso a queste cose, non a un corpo di donna. Non voglio
passare i miei ultimi dieci anni da solo, tutto qui.” (121)
“Essere innamorati significa vedere noi stessi come ci vede qualcun
altro … In amore siamo incapaci di onore, qualunque atto di coraggio non è che
la parte di una recita per un pubblico di due persone.” (130)
Jean - Paul Sartre “La nausea” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 30/03/2011]
[tit. La nausée; ling. or.: francese; anno 1938]
Non mi è piaciuto tantissimo. E
non perché non abbia contenuti, idee (tant’è che ho un ricco carniere di
citazioni). Ma credo sia il modo di esprimerle, e di esprimersi del
protagonista che mi lasciano distante. Il filo della trama è esile, quasi
inesistente. Un trentenne borghese che dispone di una rendita, dopo aver
girovagato per il mondo, si è rinchiuso in una città di provincia per scrivere
un libro storico su di un oscuro personaggio francese vissuto alla corte dello
Zar di Russia. Ma la sua vita è vuota (e secondo me, lui è un poco snob), si
interroga sulla sua esistenza (non è un caso che Sartre scriva questo romanzo
dopo la laurea in Filosofia, ed il libro è pieno, anche se io non posso esserne
un esegeta data la mia ignoranza, di Heidegger e Husserl), la trova vuota, non
riesce ad interagire con gli altri (né con il socialista Autodidatta che cerca
di farsi una cultura in Biblioteca, e che Sartre tartassa come personaggio,
quasi voglia tartassare tutti i socialisti meschineggiandoli, né con la sua
ex-fiamma Anny, che pur rivede, ma che ancora e ancora non riesce a capire). E
tutto questo vuoto di esistenza, viene riempito di tanto in tanto dalla Nausea,
da questo sentimento di non farcela più, tanto che a volte sembra che si voglia
(giustamente) suicidare. Sconfitto, non potrà che abbandonare il libro, tornare
a Parigi, e, forse, trovare un modo di giustificare l’esistenza: un’opera di
ingegno, magari un libro, un disco, un refrain di jazz, una pennellata. Ma non
mi piace il modo in cui Sartre inanella pagina dopo pagina questa non
esistenza, questo libro che diventerà poi bandiera e simbolo
dell’esistenzialismo, quel modo di essere parigino del dopo guerra, quello si
di Sartre e della De Beauvoir, ma anche di Juliette Gréco, di Boris Vian, per
parte di Albert Camus. Ecco, io sono più dalla parte di Boris Vian, dalla parte
scanzonata, ma ridicolmente seria, quello che scriveva di fantascienza,
produceva canzoni immortali come “Le dèserteur”, e prendeva in giro Sartre
facendolo entrare nei suoi libri con il nome di Jean-Sol Partre. È vero, qui
siamo ancora nel ’38, è da poco finita l’esperienza del Fronte Popolare del
’36, c’è stata la Guerra di Spagna. Tuttavia, non mi prende, non mi emoziona,
non mi convince che la vita sia inutile. Forse è inutile a chi si siede ad un
bar e non riesce a parlare a nessuno. Forse Roquentin è l’esempio negativo di
cosa NON si dovrebbe fare. Forse, per combattere la Nausea bisogna fare la
Rivoluzione (e tutto con le maiuscole). Forse, ma non lo riesco a vedere così,
mi viene voglia ad ogni pagina di dire: prova, fa qualcosa, parla, agisci. Ma
come, hai girato mezzo mondo solo per enumerare i posti dove sei stato, e non
ne hai capito un cavolo. Non c’è bisogno di avventure per vivere. C’è bisogna
della vita, per andare avanti, per arrivare lì dove sarà Garcia Marquez quando
scriverà la sua autobiografia (“Vivere per raccontarla”). Quindi, già un po’ mi
stava antipatico Sartre, e questo libro non lo tira su di molto. Un ultimo
punto anche sulla traduzione. Ora, si può tradurre una frase “Defense de fumer,
même une gitane”, con “Proibito fumare, perfino una gitana” e scrivere in nota
“Marca di sigaretta francese”! Ma o si da per scontato che si conosca la
Francia ed il fumo, e tutti (TUTTI anche i non fumatori) sanno cosa sia “una
gitane”, oppure si decide che bisogna spiegare tutto, ma non si può scrivere
“gitana”. Niente da fare, i traduttori tradiscono (quasi) sempre. Andiamo ad
fumarci un cammello (pardon, una camel…).
“Quando uno vive solo non sa nemmeno più che cosa sia raccontare.” (16)
“Se mai dovessi fare un viaggio credo che prima di partire noterei per
iscritto i più piccoli tratti del mio carattere per poter poi fare un paragone,
al ritorno, tra quello che ero e quello che son diventato.” (48)
“Affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e
sufficiente che ci si metta a raccontarlo. … Un uomo è sempre un narratore di
storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello
che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come
se la raccontasse.” (54)
“Ed io dove potrei conservare il mio [passato]? Non ci si può mettere
il passato in tasca; bisogna avere una casa per sistemarvelo.” (85)
“Se soltanto potessi smettere di pensare andrebbe già meglio. … Il mio
pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso … e non
posso impedirmi di pensare.” (126)
“Ho voglia di andarmene, d’andarmene in qualche posto dove sia
veramente al mio posto … Ma il mio posto non è in nessun luogo; io sono di
troppo.” (153)
“Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa. Bisogna avere
un’energia, una generosità, un accecamento … C’è perfino un momento, al
principio, in cui bisogna saltare un precipizio; se si riflette non lo si fa.”
(180)
“Allora, è possibile giustificare la propria esistenza?” (220)
Credo sia possibile rispondere
affermativamente a questa domanda. Io intanto la giustifico andando in giro per
il mondo, vedendo posti, e parlandone ad amici e conoscenti. Di modo che ci si
possa allargare a vedere orizzonti più ampi. Spazi migliori. Cieli più puliti.
Saranno allora puliti i cieli di Capo Nord? Vedremo e ne parleremo.
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