Un po’ di francese non guasta,
così facciamo contenti anche i lettori stranieri. Letture difficili ma
selezionati con amore. Anche se questa selezione non ha dato gli esiti che
speravo. Autori tutti in palma di mano (mia), ma non tutti all’altezza delle (mie)
aspettative. Forse il solo Perec, che difficilmente mi delude. Maalouf mi ha
lasciato interdetto, Orsenna qui è un po’ ripetitivo e Schmitt deve ancora
trovare il passo dei suoi pezzi migliori (e bisogna sempre pensare al suo
teatro che ha trovate geniali).
Ma andiamo a raccontare.
Georges Perec « Les choses »
Pocket euro 6,10
[in: 21/11/2010 – out: 05/04/2011]
[tit. originale; ling. or.: francese; anno 1965]
Riprendo dopo tanto tempo il mio
caro Perec. Interessante, difficile, di testa, ma (o forse per questo) piaciuto
assai. Perec è senza dubbio uno dei miei autori-culto, perché ha sempre seguito
la sua idea, incurante del contorno. Non ha mai raggiunto né la grande
notorietà né i palcoscenici sgargianti. Ma ha sempre mantenuto la propria
coerenza, riscendo a coniugare nella sua scrittura, idee e gioco. Proprio per
questo, i suoi scritti non sono “facili”, ed hanno sempre una serie
stratificata di letture. Come “La vita istruzioni per l’uso", dove la successione
dei capitoli che descrivono i romanzi delle persone presenti nella cassa
obbedisce al problema matematico detto “problema del cavallo su una scacchiera
10x10". Come “La scomparsa” dove alla fine delle 300 pagine ci si accorge
che oltre all’intrinseca scomparsa che lega la storia, per tutto il libro è
scomparsa anche la lettera « e ». Come racconta poi in un’intervista,
i suoi scritti si raggruppano in 4 categorie: sociologica, autobiografica,
ludica e romanzesca. Salvo poi incrociarsi tra l’uno e l’altro. Ed anche ora a
30 anni dalla morte (avvenuta di cancro a 46 anni) ancora si scoprono suoi
appunti ed altre scritture (come il non da molto pubblicato “L'art et la
manière d'aborder son chef de service pour lui demander une augmentation”). Ma
torniamo alle cose. Che è anche il suo primo scritto e che appena pubblicato
nel 1965 gli valse uno dei due grandi premi francesi (il Premio Renaudot).
Questo rientra nella prima categoria, quella sociologica, che, per raccontare
la trama in breve, potremmo descriverla come il racconto dell’ascesa e della
caduta di due giovani francesi dalla libertà della fine degli studi alla
paralisi del posto fisso. Dove seguiamo alcuni anni della vita di Jerome e
Sylvie, dall’ubriacatura di libertà del lavoro di ricerca psicosociologia sul
campo, attraverso lo sfiorare tutte le cose che si vorrebbero avere ma non si
riesce (le sirene del consumismo), fino ad arrivare alla scelta finale (scelta
che Perec ritiene comunque illusoria) dove non potendo rimanere “alternativi”
in tono minore per tutta la vita, si decide di aprire una propria agenzia di
ricerche e si “rientra nel coro”. Come detto, ha anche elementi trasversali che
Jerome e Sylvie passano un anno a Sfax in Tunisia così come Georges e sua
moglie. Ma l’altro elemento caratterizzante (e che rende difficile un approccio
semplice a questa definita dall’autore “una storia degli anni sessanta”) è che
tutto il romanzo è un’affestellazione di descrizioni. Non c’è un dialogo
diretto (solo due battute nella terzultima pagina). Ma si descrivono i luoghi
di vita e di passaggio dei protagonisti e del loro procedere, cercando ogni
volta di “esaurirli” (come direbbe in un altro suo scritto). Che descrivere
meticolosamente un luogo è farne risaltare l’essenza, la natura. Le cose che viviamo,
con cui viviamo, sono comunque elementi che ci definiscono (non è un caso la
citazione in exergo che riporto). E non solo le cose nostre, i libri, le
scrivanie, la cucina, la tazza del caffè che utilizziamo, ma anche quelle che
vediamo “andando per il mondo lungo la nostra vita”, le cose che vorremmo, le
cose che il mondo illusorio e pubblicitario promette come raggiungibili (basta
impegnarsi ad accumulare denaro per prenderle, ma una volta accumulato servirà
a quello il denaro?). Come dice lo stesso Perec, le cose promesse non sono
delle cose dovute. Ed in questa contraddizione vanno avanti nella loro vita i
nostri due eroi. Che non faranno mai una scelta seria, ma saranno costretti a
lasciarsi vivere (questa la critica sociale di Perec, il suo pessimismo
totale), e non troveranno mai un portafoglio pieno di soldi per poter cambiare
la loro routine di vita. Routine che si consuma in ambienti dove ogni volta
loro non vorrebbero essere. Manca sempre quella accettazione del sé che è
(personalmente) la chiave della serenità. La bellezza straniante e finale, con
la quale chiudo, è proprio questa descrizione esasperata delle cose, che ci fa
trovare decine e decine di parole per descrivere gli oggetti, ogni volta in
modo e con sfumature diverse. Una lettura utile anche per approfondire la
lingua.
« Dans le monde qui était le leur, il était presque de règle de
désirer toujours plus qu’on ne pouvait acquérir » [Nel loro mondo, era
praticamente una regola desiderare sempre più di quanto si potesse comperare.]
(50)
« Leur vie était comme une trop longue habitude, comme un ennui
presque serein : une vie sans rien » [La loro vita era come una
abitudine troppo lunga, come una noia quasi serena : una vita senza
nulla.] (139)
« Le moyen fait partie
de la vérité, aussi bien que le résultat. Il faut que la recherche de la vérité
soit elle-même vraie ; la recherche vraie, c'est la vérité déployée, dont les
membres épars se réunissent dans le résultat. (d’après Karl Marx) »
[Il mezzo è parte della verità, così come il risultato. Bisogna che la ricerca
della verità sia di per sé vera; la vera ricerca è la verità svelata, dove le
parti separate si riuniscono nel risultato. (citazione da Karl Marx)]
(158)
Amin Maalouf “Le Premier Siècle après Béatrice” Livre de Poche euro 4,95
[in: 19/03/2011 – out: 16/05/2011]
[tit. originale; ling. or.: francese; anno 1992]
Per
quanto voglia bene a Maalouf, questo è il primo libro che decisamente non mi è
piaciuto di tutti gli scritti del sessantenne franco-libanese. Intanto sono
caduto in una trappola mentale, che mi ha storto l’inizio della lettura. Tutti
i libri di Maalouf sono ricostruzioni di ambienti storici, di situazioni che,
sul filo della memoria, ricostruiscono momenti o persone. Come Mani o Leone
l’Africano, per esempio. Qui, nel titolo si parla di Beatrice, e la copertina
del libro mostra un dettaglio di una bella pittura del Botticelli. Mi aspettavo
quindi qualcosa di medievale o simili. Invece è un romanzo che parte dai nostri
giorni e si proietta nell’immediato futuro. Non me lo aspettavo e ci sono
rimasto male. Il secondo intoppo, è stato che, in realtà, ci sono due storie
che si intrecciano. Una che mi ha preso, la storia d’amore tra lo scrivente e
la giornalista Clarence. Storia tenera, sbocciata per caso, ed evolutasi per volontà.
Perché i due si danno un’ideale stretta di mano e decidono di proseguire
insieme. Con quel momento di tenerezza, dove Clarence accetta anche di dargli
un figlio, anzi figlia, la famosa Beatrice del titolo, anche se ci sono dodici
anni di differenza tra loro. E tutta la loro storia, pervasa di alti e bassi,
tra i suoi studi da entomologo e le di lei scorribande da giornalista, fino al
tenero ritirarsi (anche per altri motivi che non sto qui a narrare), nelle
Prealpi savoiarde in vista di una (si spera ma non è detto) serena vecchiaia
(anche perché il corto libricino, ben copre quasi 35 anni di vita). L’altra,
invece, è la storia come direbbero gli inglesi “what if…”. Non fantascienza,
forse fantastoria, molto probabilmente ucronia. Il tentativo (politico) di
Maalouf è di mettere in guardia (e siamo venti anni addietro da ora) nel
fossato che si sta scavando tra Nord e Sud del mondo. Non volendo scrivere un
saggio, trova l’espediente fittizio delle famose “fave di scarabeo” di egizia
memoria, che favorirebbero la nascita di maschi rispetto alle femmine. E così,
tra governi deboli, scienziati che mirano solo al profitto, questa “malattia”
si impianta realmente. E ne nascono guasti, guerre, distruzioni, ma soprattutto
Maalouf ha modo di perorare la causa di un ravvicinamento tra tutti i mondi
possibili. Butta lì l’idea di un circolo virtuoso di saggi che cerchino di
invertire la tendenza, di spiegare, di coinvolgere le Nazioni Unite.
Ovviamente, senza riuscirci. Miseramente dipinge un mondo da qui a venti anni
nel futuro, sempre più diviso, tra Nord benestante ed a crescita zero (o quasi)
e Sud sempre più povero e sovrappopolato (con l’aggravante che sono sempre più
i maschi). Ecco questa parte è veramente debole. Non perché non tocchi (ad
elementi mutuati) un tasto importante (lo vediamo tutti il divario che si crea,
e possiamo ben condividere i sentimenti che esprime quando un tiranno del Sud
del mondo cade dopo che il Nord aveva fatto finta di ignorarlo, tipo vicende
libiche). Ma come detto l’idea è debole e molto trascinata. Insomma, non ha
nessuna delle incisività del miglior Maalouf, quello che sa ricreare atmosfere
passate per spiegare atmosfere presenti. E neanche quello di successivi
scritti, questi sì in forma di saggio, sull’etica e la visione del mondo. In
questi (e ne ho parlato non tanto tempo fa) magari non indica facili vie
d’uscita, ma sono coerenti e sostanziosi. Qui, ci si perde. Rimane l’amore, che
sempre importante è. Ed il senso di paternità che Maalouf esprime in tutto il
libro, con una dolcissima tenerezza.
“Je
sais, pour avoir observé les espèces, que l’amour n’est qu’une ruse de survie;
mais il est doux de fermer les yeux.” [So, per aver osservato gli esseri
viventi, che l’amore non è che un trucco per sopravvivere; ma è piacevole
ignorarlo.] (25)
« Béatrice
est née la dernière nuit d’aout ... avec des pieds tordus qui traçaient sans
relâche d’indéchiffrables sémaphores. » [Beatrice è nata l'ultima
notte di agosto … con dei piedi in movimento che disegnavano indecifrabili
semafori. ] (66)
« Je
lui avais dit que j’étais un nostalgique de l’époque où les plus sérieux
accords se scellaient d’une poignée de main, et duraient la vie entière, bien
après que toute paperasse eut jauni. Entre Clarence et moi, ce fut une poignée
de main un peu particulière, plus élaborée, plus enveloppante, prolongée ;
mais, dans mon esprit, c’était avant tout une poignée de main. Nous
resterions ensemble tant que durerait notre amour. » [Gli ho detto che ero
nostalgico dei tempi in cui gli accordi più importanti si firmavano con una
stretta di mano, e duravano tutta la vita, anche dopo che tutti i pezzetti di
carta erano ingialliti. Tra Clarence e me, si era trattato di una stretta di
mano un po’ speciale, più sofisticata, più avvolgente, più prolungata; ma nella
mia mente, era comunque una stretta di mano. Saremmo rimasti insieme
finchè fosse durato il nostro amore.] (74)
« Un
travailleur du Sud installé dans le Nord était appelé ‘immigré’ ; un
travailleur du Nord installé dans le Sud était dit ‘expatrié’. » [Un
lavoratore del Sud che va al Nord è chiamato ‘immigrato’; un lavoratore del
Nord che va al Sud viene detto ‘espatriato’.] (136)
Èrik Orsenna « Les Chevaliers du Subjonctif » Livre de Poche euro 6,05
[in: 19/03/2011 – out: 07/08/2011]
[tit. originale; ling. or.: francese; anno 2002]
Una
nuova puntata della saga “grammaticale”. Qualche spunto, ma minore della prima,
anche se l’idea di base è stupenda. Il congiuntivo come un modo del desiderio e
dell’attesa, per un mondo come dovrebbe essere. E quindi, in definitiva, il
congiuntivo è il modo verbale per tutti quelli che amano. Ho molto amato la
“grammatica è una dolce canzone”, ed ho preso con gusto, in uno degli ultimi
viaggi belgi questa seconda puntata. Volevo tornare nel mondo delle parole,
guidato dalla saggia dodicenne Jeanne che, sperdutasi nelle isole delle parole,
cerca di trovare e capire cosa sia l’amore. E si imbatteva lì nella costruzione
delle frasi, nei cattivi che volevano ridurre gli scritti ad ordinate sequenze
di parole senz’anima. Qui all’inizio sono rimasto un po’ deluso. Sembrava la
trama ancora vaga, non decollava. Poi il colpo d’ala, quell’analisi
dell’esistenza di un modo verbale che travalica il senso delle parole e l’uso
del verbo. Il congiuntivo! Il mondo della possibilità. Come dicono le
grammatiche affermate il suo compito è quello di indicare un evento non sicuro.
L’indicativo esprime il piano obiettivo della realtà, il congiuntivo sottolinea
quello soggettivo. ‘È possibile che sia così’. ‘Temo che non mi ami’. Ed allora
seguiamo Jeanne che fugge dall’arcipelago delle parole dove il dittatore
Nècrole vuole imbrigliare la lingua ed il pensiero. Si ritrova nelle isole del
congiuntivo. Isole che cambiano forma ogni volta che le si guarda. Che sono le
isole delle possibilità, di quelle che potrebbe essere. Ed una volta sull’isola
trova anche i cavalieri del titolo, che nelle lingue del mondo cercano di
trovare, di tirar fuori le possibilità, e quindi l’amore. Come nella lingua
bantu che cito sotto. Jeanne comunque sarà presa dall’angoscia, in questo paese
dove sembra regnare l’amore, dove sembra che tutti siano felici. Perché ogni
tanto, dal mondo delle possibilità bisogna scendere (o salire) in quello della
realtà. Dal desiderio d’amare, ogni tanto bisogna tornare a vivere l’amore.
Alla fine, una bella cavalcata, piena di parole, piena di forme grammaticali
(che il nostro accademico usa in modo non pedante e senza farsene accorgere).
Certo, è anche una favola, pensata per i giovani studenti francesi che si
affacciano alle difficoltà ed alle asperità del linguaggio. E pur tuttavia, un
buon cimento per irrobustire la conoscenza della lingua. E perché no, anche per
cercare ancora qualche possibilità. Spero che si viaggi ancora intorno al
mondo!
“L’amour est une
conversation … L’amour c’est lorsqu’on ne parle qu’à l’autre. Et lorsque
l’autre ne parle qu’à toi. » [L'amore è una conversazione ... L'amore è
quando non si parla che all’altro. E quando l’altro non parla che a te.] (31)
« Nous souffrions, vous
et moi, de la même maladie grave : la curiosité. Vous savez que le mot
‘curieux’ vient du latin ‘cura’ : le soin ? Soyons fiers de notre
défaut : être curieux, c’est prendre soin. Soin du monde et de ses
habitants. » [Io e te soffriamo della stessa malattia: la curiosità. Sai
la parola ’curioso’ deriva dal latino 'cura'. Dobbiamo essere fieri del nostro
difetto: essere curiosi significa prendersi cura. Cura del mondo e dei suoi abitanti.]
(42)
« J’ai toujours cru que,
plus on aime quelqu’un, plus on doit le laisser tranquille. » [Ho
sempre pensato che più ami qualcuno, più lo si dovrebbe lasciare in pace.] (87)
« Aucun amour, pas même
le plus grand, ne m’empêchera de rêver. » [Nessun amore, nemmeno il
più grande, mi impedirà di sognare.] (101)
« Qu’est-ce que l’amour
sinon du doute, de l’attente, du désir, de l’espérance ? Donc
l’amour était une variété du subjonctif. » [Che cos'è l'amore se non
dubbio, attesa, desiderio, speranza? Quindi l'amore è una variante del
congiuntivo.] (108)
« [Dans une langue
bantoue] le subjonctif n’existe pas. Il est remplacé par le verbe ‘aimer’ …
Ainsi ‘je souhaiterais qu’il pleuve ce soir’ … il est traduit ‘j’aimerais la
pluie tomber ce soir’. Le subjonctif est donc l’univers de tout ce qu’on
aime. » [(In una lingua bantu) il congiuntivo non esiste. È stato
sostituito dal verbo ‘volere’ ... Quindi, 'Vorrei che stanotte piovesse'... è
tradotto con 'Vorrei (amerei la) pioggia questa sera’. Il congiuntivo è il
mondo di tutto ciò che amiamo (uso
difficile del verbo aimer utilizzato sia per volere che per amare).] (130)
Eric-Emmanuel Schmitt « La secte des
égoïstes » Livre de poche euro 4,50 (in realtà, scontato 4,20 euro)
[in: 22/06/2011 – out: 10/12/2011]
[tit. originale; ling. or.: francese; anno 1994]
Preso
durante la grande infornata dell’ultima riunione a Bruxelles, il primo libro di
Schmitt. Anzi, il primo romanzo, che già del teatro aveva fatto. Che risente, e
molto, dei suoi studi universitari su Diderot. Ancora non vola verso le vette
teatrali che me lo hanno fatto conoscere e amare. Né verso le complesse vicende
storiche e personali dei romanzi sul monoteismo. Ma è una breve ed interessante
affabulazione filosofica, con qualche spunto e qualche punto perso per non
essere riuscito ad andare più in là (stavo scrivendo “fino in fondo”, ma non
sarebbe stato corretto). L’idea di base è stimolante: un bibliofilo nel corso
di sue ricerche altre, si imbatte per caso in un breve accenno su di un
filosofo che nel 1736 furoreggia nei salotti parigini con la sua teoria
“io-centrica”. Sostiene cioè che tutto esiste perché lui stesso lo vive e senza
di lui nulla esiste. Non è un caso la data, che lo colloca dopo Diderot (che
Schmitt ben conosce avendoci fatto la tesi) e prima di Kant (che collocherà
nella giusta prospettiva la conoscenza del sensibile attraverso le proprie
percezioni). L’ignoto Gaspard Languenheart invece si colloca più sul versante dei
Fiori Blu di Queneau (quella basata sulla favola taoista dell’uomo che sogna la
farfalla e si chiede chi sogna chi). Si colloca, infatti, laddove tutto ciò che
esiste, esiste perché è una versione del mio spirito. Perché io lo penso. Da
questo passo, la penna ancora poco scorrevole di Schmitt dipana una storia, o
forse alcune storie che si intrecciano. La ricerca di nuove notizie su Gaspard.
Le agnizioni dell’io narrante. L’incontro con personaggi misteriosi che a loro
volta fanno delle confessioni, aprendogli spiragli nella conoscenza. Tra sogno
e ricostruzione, il nostro bibliofilo scopre (o inventa) la storia di Gaspard,
fino a due momenti topici. Il primo, che poi dà il titolo al romanzo, è la
fondazione della “Setta degli egoisti”, intesa come un cenacolo di persone che
pensano di sognare il proprio mondo. Cioè di porre sé stessi al centro del
mondo. Seppur l’idea è interessante, la setta non può che fallire miseramente,
quando si scontrano gli egoismi con i personalismi. In fondo sembrano quasi
esaltati (al limite della pazzia), che pensando ognuno di essere il centro del
mondo non sopportano l’idea che questo centro possa essere altro. Gaspard tenta
di unificare il pensiero egoista, sostenendo che tutti i problemi sorgono per
la povertà della lingua che non consente di specificare soggetti e complementi
in modo da chiarire cosa sia, chi sia il soggetto pensante del mondo. Il
secondo è il rintanarsi di Gaspard nella solitudine quando si accorge che il
mondo ha una sua vita pensante fuori di lui. O forse che lui ha fatto un mondo
talmente perfetto da poter avere vita propria. E, come appare chiaro, ad un
certo punto sparisce. Ricomparendo, sotto forma di racconti e piccole
agnizioni, ogni 50 anni. La vicenda poi veniamo a sapere ad un certo punto, si
svolge 250 anni dopo le prime notizie di Gaspard. È un caso? Il bibliofilo
diventerà un egoista anche lui? Gaspard è, in qualche maniera, “Dio”? Lascio
aperte le domande, cui Schmitt dà parziali o totali risposte, per non rovinare
il piacere della lettura. Quello che rimarcavo è appunto il non aver
completamente scatenato la fantasia intorno all’egoismo. Ma lasciandola
imbrigliata nella necessità di spiegazioni, le vicende di Gaspard e dei suoi
eponimi, si barcamenano tra commedia e tragedia, senza prendere una strada
decisa. Certo, librescamente stimolante per un tipo come me l’idea di seguire
un tratto colto da qualche parte e partire alla rivoluzione della propria vita
per portarlo alla luce. Ed è certo stimolante la sensazione di ragionare sul
fatto che solo le proprie sensazioni personali ci danno il sentimento
dell’esistenza. Sappiamo con la testa che esiste un certo Obama da qualche
parte. Ma sappiamo veramente e concretamente l’esistenza e la consistenza del
letto in fondo alla stanza, del tavolo in cucina e della marmellata d’arance
nel frigo. Questo intendevo nel chiedere a Schmitt di portare più in fondo le
idee. Ma la pulce del ragionamento è già qui. E lui, da bravo autore quale non
a caso è, la svolgerà in quei momenti che meglio fondono il ragionamento e la
storia. Monsieur Ibrahim, tanto per fare una citazione.
Perdincibacco
(chi sa da dove viene questa interiezione?), tra una settimana è proprio
Natale. E questa è anche una settimana di compleanni (almeno 4 a mia memoria),
ma non faccio ancora gli auguri che non si fanno in anticipo. E poi si parte
per qualche giorno di meritato riposo. Ci vuole. Se ne ha bisogno.
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